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Altro del genio di Hansen? Jens Munk o La costa degli schiavi!
Duecento anni più tardi, quando noi stessi siamo la prova che il calcolo era giusto, non facciamo più programmi a così lungo termine, forse perché, in fondo, non siamo più capaci di credere davvero a una posterità possibile. La minaccia di una distruzione atomica è diventata quasi una specie di pretesto dentro di noi per liberaci del fastidioso pensiero del futuro. Non si cerca più di procurarsi la fama né per sé né per gli altri, ci si attiene al giorno per giorno, rifiutato l’arte e la parte non distruttiva della scienza, e provocando con ciò, nel piccolo, una distruzione pari a quella di cui la bomba è l’immagine su vasta scala. Se, inaspettatamente, il nostro tempo dovesse subire l’opposta sventura di essere ricordato fra duecento anni, lo sarebbe unicamente per quello strano, quasi storico zelo che ha messo nel farsi dimenticare. Il futuro è già cominciato, si dice, ma non è vero. Il futuro è già passato.
Thorkild Hansen
Arabia felix è un libro difficile da inserire in una categoria, cosa che spesso opprime gli scrittori dei cataloghi librari. Questa è un’opera che resiste ad una sua categorizzazione. Non è un romanzo, perché i personaggi non sono mai considerati dal loro personale punto di vista e il fatto stesso che si offra la ricostruzione di un fatto storico con tale dovizia di particolari è già di per sé un fatto peculiare. Per essere un libro di storia mancano le fonti e l’assetticità degli specialisti, nonostante la mole di studi a cui Hansen fa riferimento direttamente o indirettamente. Non è neppure un libro di sociologia o di storia della sociologia perché porta solo pochi dati. Allo stesso tempo, però, offre spaccati di vita quotidiana, di analisi psicologiche, sociologiche e, soprattutto, storiche. Ma, ancora, potrebbe anche essere un libro di filosofia, perché condensa in sé un’intera visione del mondo e, in particolare, di filosofia della storia. Ma non ci sono argomenti, non ci sono esplicite tesi, ipotesi e deduzioni.
Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde – Robert Luis Stevenson
13 Luglio, 2013
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Consigliamo L’isola del tesoro di Stevenson
Sebbene io fossi intimamente doppio, non ero in nessun caso un ipocrita; questi miei due aspetti erano perfettamente in pace fra loro; ero sempre me stesso, sia quando mettevo da parte ogni ritegno e sprofondavo nel fango, che quando mi affaticavo, alla luce del giorno, per il progresso della scienza o per alleviare la sofferenza e il dolore.
Robert Luis Stevenson
Londra, XIX secolo. Il signor Utterson passeggia placido con un suo amico. Entrambi sono persone pacate, silenziose, normali, prive di interessi perché potrebbero condurli in luoghi sconvenienti. La loro condizione abituale è quella di vivere, e rivivere ogni giorno la vita del giorno precedente. Utterson è lo specchio della sicurezza della vita quotidiana, ancorata alle rutine e alle virtù che conducono un uomo ad essere un’entità qualunque. Però l’esistenza di Utterson verrà minata dalla curiosità: il signor Enfield, l’amico, gli racconta uno strano accadimento. Qualche tempo prima aveva incontrato un uomo deforme, ma la cui deformità non stava nell’aspetto quanto nello spirito: egli era capace di trasmettere un senso di genuina repulsione al solo sguardo. Quest’uomo dall’aspetto ripugnante è il signor Hyde. Costui aveva la capacità di lasciare profondamente disgustati gli astanti, per quanto costoro non potessero in prima istanza afferrarne il motivo: