Riporto e discuto la tesi sostenuta dallo psicologo e filosofo americano W. James nel saggio intitolato, in italiano, Le energie degli uomini – James, W. (1907). The Energies of Men. The Philosophical Review, Vol. 16, No. 1; pp. 1-20.
La tesi di James è che l’uomo vive, per cattiva abitudine, molto dentro i propri confini energetici, ovvero che l’uomo non adopera l’energia, che pure possiede, al suo massimo, e, così, agisce al di sotto del suo ottimo. Espressa in modo tanto vago la tesi sembra senz’altro vera. Dobbiamo però notare che essa racchiude in sé due tesi: una di tipo descrittivo, e una di tipo normativo. La tesi descrittiva è che l’uomo abitualmente non esprime tutta l’energia che possiede. La tesi normativa è che l’uomo dovrebbe esprimersi al massimo e che l’abitudine di vivere molto dentro i propri confini è cattiva.
Pensiamo che entrambe le tesi presentino dei problemi. La prima tesi presenta problemi che discendono dal fatto di non aver definito con precisione i termini usati. La seconda tesi presenta problemi che discendono dal fatto di non aver sviluppato a fondo le sue implicazioni pratiche. Ma prima di venire alla critica, riassumo brevemente l’argomentazione di James.
Il discorso che riassumo (e commento) è stato tenuto da James a Roma in occasione del V Congresso Internazionale di Psicologia del 1905, ed è un testo centrale per capire la filosofia pragmatista e quella di James (pensatore dalle idee chiare ma non sempre chiaramente espresse). Il testo dà un’analisi perfettamente pragmatista d’uno dei postulati ancor’oggi centrali della psicologia, m’anche della filosofia.
Molto spesso capita di ritrovarsi in disaccordo con il proprio partner. Di fronte all’analisi, uno dei due può capitolare con un ultimo straordinario argomento: “hai ragione, ma sono fatto così”. Di fronte a questo controargomento molto spesso ci si sente con le spalle al muro ed è, in vero, l’ultima spiaggia per chi lo pronuncia. Abbiamo detto che si tratta di un “controargomento” perché, in realtà, è una formulazione di una posizione che nega la possibilità di una discussione ulteriore per due ragioni (a) riconosce le ragioni dell’altro rispetto alle proprie (dunque, non c’è più bisogno di continuare a discutere) e (b) ciò nonostante afferma che tali ragioni non sostituiranno la propria precedente convinzione. L’argomento nasconde, naturalmente, una sfida implicita: se mi vuoi, devi prendermi così come sono, anche quando non ho ragione, so di non averla e non farò nulla per modificare il mio comportamento. Chi proferisce una frase del genere è all’ultima spiaggia perché formula un argomento che nega qualunque altra possibilità di replica perché sostiene la validità della posizione dell’avversario e, tuttavia, non la riconosce sufficiente per cambiare idea o atteggiamento. Da un punto di vista più rigoroso, si potrebbe tradurre la frase come segue: io possiedo una credenza a tale che essa ha un certo peso all’interno delle credenze che reputo importanti; la tua credenza non a risulta vera o valida e squalifica la mia precedente credenza a; ciò non di meno, la forza della credenza a è tale per cui la manterrò come se fosse vera o valida, così che il mio comportamento, per quanto irragionevole o sbagliato, sarà reiterato sulla base della non cancellazione della credenza a.
Presentiamo un paradosso emerso dalla posizione di chi sostiene che per dirimere le questioni umane sia sufficiente adottare il codice legale, sia esso civile o penale, prescindendo da un’accurata analisi a livello morale. L’idea è quella che, stando alle controversie sui problemi morali, essi risultano insolubili sul piano della semplice analisi razionale, postulando che tale analisi sia impossibile per via del fatto che non sussiste alcuna ragione morale (sia essa intesa in modo forte, come possibilità di formulare leggi pratiche morali, sia essa intesa in modo meno forte, come possibilità di trovare accordo perché la morale è fondata su basi irrazionali). L’argomento può essere presentato come segue:
Il legalista nudo e puro riconosce la validità della seguente frase (a):
(a) Ogni legge vale solo se è inscritta nel codice legale di uno Stato.
Il testo di Max Scheler (principale fonte d’informazione sulla sua antropologia filosofica) risponde alle domande che cos’è l’uomo e qual è la sua posizione nell’essere.
La mancanza d’un’idea unitaria dell’uomo è determinata in buona misura dall’incuranza reciproca tra antropologia teologica, filosofica e scientifica; ovvero, manca una concezione unificante. L’uomo appare a se stesso ancora come un enigma. Questi fatti giustificano il tentativo intrapreso da Scheler di sviluppare un’antropologia filosofica, basandosi su conoscenze provenienti da diversi campi del sapere, in particolare di integrare scienza e filosofia.
Per capire qual è la particolare posizione metafisica dell’uomo, dobbiamo chiarire il termine e il concetto di ‘uomo’. Il concetto di uomo è ambiguo. Di fronte ad un termine designante qualcosa di appartenente al (vertice del) genere animale, abbiamo un termine designante qualcosa che si oppone all’animale. Se l’uomo abbia una posizione particolare del tutto differente da qualsiasi altro essere vivente nel mondo, è la questione, risolta la quale avremo il concetto di ‘uomo’.
Con l’epoca moderna abbiamo i primi segni dell’incrinatura del dominio del paradigma razionalista[1]. Si può già vedere, in pensatori come Pascal e Nicole, i quali riprendono diverse direzioni del pensiero di Agostino, una sorta di recupero del sentimento contro la ragione, o per lo meno il superamento temporaneo della tradizionale contrapposizione tra sentimento e ragione. Non sono d’accordo con questa interpretazione. Penso piuttosto che queste filosofie possano essere tranquillamente catalogate come filosofie della retta ragione, per cui è sempre all’istanza della ragione che è demandato il compito di guidare l’azione. Per quanto riguarda l’amore di cui molto parlano queste filosofie credo basti quanto già osservato a proposito di Agostino; l’amore per il dio non va confuso con l’amore terreno. Che poi la ragione sia inerme senza la grazia del Dio, è una questione del tutto irrilevante per i nostri particolari interessi.
E’ bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo.
Epicuro
L’analisi dei modi della felicità, delle sue condizioni e della sua ricerca è un discorso moralmente vincolato in modo limitato. Il vincolo è imposto dal fatto che gran parte delle azioni umane sono eticamente connotate. Useremo la parola “morale” come se fosse equivalente a “etica” e così gli aggettivi relativi. All’interno dell’etica si distinguono le azioni intenzionate al bene dell’umanità nel suo complesso. Tali azioni sono consapevoli e frutto della ragione indirizzata verso sé come scopo ultimo.
È senz’altro ridicolo tentare di riassumere il pensiero filosofico etico medievale in poche parole. Per questo non tento qui tanto un riassunto, quanto piuttosto di mostrare attraverso le figure filosofiche più importanti o significative, sempre selezionando i contenuti in ragione di una risposta alla nostra domanda, come questo – il pensiero – si muova attraverso i secoli fino alla modernità tenendo per lo più fermo un suo comune dominatore, che è allora in grado di unificarlo: la retta ragione (recta ratio). Preliminarmente possiamo dire che, rispetto all’etica antica, l’etica medievale non concepisce più il peccato come sopraffazione della parte irrazionale dell’anima su quella razionale, ma piuttosto come libera volontà di fare il male. La categoria della volontà è senz’altro una grande novità del pensiero etico medievale. Punto di continuità con il pensiero antico è invece proprio la recta ratio. Mostreremo che anche il pensiero etico medievale per lo più privilegia la componente della ragione a discapito della componente emotiva del processo di presa di decisione e azione morale.
Entrambe le grandi tradizioni antiche, quella platonica e soprattutto quella aristotelica, rimangono ben vive nel pensiero medievale. La prima si impone soprattutto nella prima fase del pensiero medievale, dopo Agostino, che propriamente è un filosofo del tardo antico; la seconda si impone nella seconda parte del pensiero medievale, con particolare forza dopo la traduzione in latino dell’Etica Nicomachea. Contrariamente alle tradizioni antiche, si afferma spesso, durante il medioevo, la visione per cui il sommo valore non è la felicità ma l’amore, atto della volontà. Sicché la volontà riceve un’attenzione prima sconosciuta. Sottolineo questo solo per dire che questo primato della volontà, spesso sostenuto (da Agostino prima di tutti), non è di per sé in contraddizione con il pensiero per cui deve essere la razionalità a guidare il processo di presa di decisione e quello d’azione. La contrapposizione volontà ragione non è la contrapposizione passione (o emozione, sentimento) ragione, a meno di non concepire la volontà come determinata dalla passione. A noi interessa il rapporto ragione passione.
La storia della filosofia morale è senz’altro molto lunga e complessa, dunque ogni tentativo di ridurla a schema evolutivo secondo categorie dal potenziale dicotomico come quelle di ragione ed emozione non può che portarci ad una conoscenza parziale della complessità che compone il percorso della filosofia morale dal suo nascere ad oggi. La riduzione è nondimeno necessaria, e le categorie riducenti possono senz’altro avere due vantaggi: primo, agevolano la nostra comprensione della storia, altrimenti difficilmente raggiungibile; secondo, permettono alle volte, quando le categorie sono inusuali rispetto alla norma, di scoprire fatti nuovi o portare alla luce fenomeni prima all’oscuro, attraverso il darsi di nuove interpretazioni. Tolto l’ausilio della semplificazione e della categoria rimaniamo in preda al caos e all’indeterminazione più assoluti, i quali non permettono la nostra comprensione dei fatti. Il farsi carico di questa necessità però non implica sfigurare i fatti della storia attraverso le proprie categorie e il proprio metodo di comprensione – nonostante si ammetta questo sia in certa misura necessario o costitutivo al darsi della realtà – ma anzi tendere verso una sempre maggiore aderenza alle vicende storiche del pensiero.
Esaminate le vicende del pensiero filosofico morale, azzardo un’asserzione audace, che cercherò di supportare mostrando l’andamento della storia, interpretata alla luce della risposta che le varie filosofie nel loro susseguirsi hanno dato alla domanda del ruolo relativo di emozione e ragione nel processo di presa di decisione e azione morale. L’asserzione audace è che la storia della filosofia morale occidentale, almeno fino alla modernità, è caratterizzata da un pensiero che enfatizza ed esalta la componente della ragione nel processo di presa di decisione e azione morale, mentre demonizza e scredita la componente emotiva, alla prima opposta. Se la ragione ci mette in contatto con le idee più alte e nobili (es. con la divinità stessa), l’emozione non è che il ricordo nell’uomo della sua animalità. Dove la ragione è l’alta manifestazione dell’anima, l’emozione è la bassa manifestazione del corpo. La ragione favorisce e arricchisce la nostra vita morale, mentre l’emozione per lo più impedisce il suo corretto darsi. La moralità stessa è concepita come un sistema di principi coglibile astrattamente dalla ragione, e le emozioni come motivazioni che possono favorire o sovvertire la nostra decisione razionale, motivazioni che sono però moti (ciechi) non-razionali che tendono a dominarci. Questa tendenza generale della filosofia morale rappresenta per noi il paradigma della tradizione, messo in discussione dalla filosofia sentimentalista del XVIII secolo. A questa discussione del paradigma, o rivoluzione, come più avanti l’ho chiamata, segue la risposta della tradizione, che si compie in Kant. Il pensiero post-kantiano però vede il superamento del paradigma tradizionale, nel solo senso che tendenzialmente l’emozione non è più ignorata come elemento di disturbo o inessenziale alla morale.
La Virtue Epistemology (VE) è una branca dell’epistemologia analitica che abbraccia vari ambiti della teoria della conoscenza (teoria della giustificazione, definizione di conoscenza). L’idea comune a tutte le posizioni di VE è che l’Epistemologia sia una ricerca normativa di tipo individualistico tale che la conoscenza scaturisca dall’uso di particolari virtù epistemiche, virtù variamente identificate come un tratto tipico di un soggetto cognitivo umano. La differenziazione principale, nonché distintiva, è appunto la caratterizzazione dei vizi e delle virtù epistemiche. Si tratta, dunque, comunque di un approccio individuale alla teoria della conoscenza e non sociale, nonostante ci sia chi, come Kvanving [1992], ha cercato di proporre problematiche non propriamente di epistemologia individuale.