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Categoria: I Grandi Temi della Filosofia

Levels of Human Action – Stages and Interplays of Human Reality

Photo: Chesswarehouse.com

Humans purposefully act every day and all the time. They act differently, however, every single time, as they are all immersed in a changing environment.[1] As such, all actions are different, at least, according to time, where ‘time’ here is intended as conventional and landscape-time (meaning, the natural flow of events).[2] Instead, from a human perspective, it is the action taken that determines the perception of time flow and the related awareness and meaning of time change.[3] This is a flat way to understand different types of actions, however, because the order in which actions are executed does not tell anything about their different nature, that is, the type of causal events they are immersed and part of in relation to some desired effect to be determined.

As Ludwig von Mises argued, human action is based on the premise of change: “Human action is purposeful behavior. Or we may say: Action is will put into operation and transformed into agency, is aiming at ends and goals (…) [human action] is a person’s conscious adjustment to the state of the universe that determines his life.”[4] Although all actions are taken according to specific dispositional belief, that is, according to a given intention formulable in a sentence in which the factual components indicate the desired state of affairs to be reached,[5] they can be classified according to what piece of reality they are intended to bring change.

Preconditions and Premises for Understandability of Human Actions

The best way to understand the different typologies of actions is to divide them into causal/effect categories. Any purposeful human action is rationally calculated in function of given desired effects intended to be reachable through a given intention to be fully translated into the realm of extension.[6] For understanding how humans act, it is necessary to assume that they know how they can make a meaningful difference in the world of the extension.[7] In other words, they assume that they can translate their intentions into proper action, where the action is causally determined by a correspondent state of the mind, whose factual determination is also the definition of the goal to be achieved through the action itself.[8] It is assumed that any mental state is part of a chain of causes whose result is action and its associated state of mind.[9]

La trasparenza della plastica che sublima la “macchia d’olio” sul potere

A Roma, presso l’Associazione Operatori Culturali “Flaminia 58”, dal 2 al 20 Dicembre era stata allestita la mostra Pretty power, con le opere dell’artista Ron Laboray. Esteticamente, a lui interessa che la trasparenza della plastica sublimi la “macchia d’olio” sul potere. A parità di serialità, la praticità del pop al materialismo avrebbe il contraltare all’influenza d’una costellazione, astrattamente. Christo alla land art soleva impacchettare gli edifici, affinché noi evitassimo di dare per scontato il nostro sguardo. Il potere metaforicamente si spiega attraverso la ciliegia, se una tira l’altra. Ron Laboray esporrebbe la figura della pietra preziosa. La plastica (derivata dagli idrocarburi) ci permette di confezionare un funzionamento di sistema, per un oggetto artificiale che eluda i limiti della Natura. Ron Laboray tamponerebbe l’istinto al potere (che è molto radicato nella storia umana). Quasi alla specularità installativa con Christo, si tratta di svelare per dilatare. Questo può accadere nella classica teca. Alla teoria, un confezionamento aumenta il suo potere mediante la celebrazione. Alla prassi, si rispetterà un paradigma (che la plastica sa emblematizzare). La stella si percepisce come un tampone per la luce, che scoppia blandamente (al paradosso) come una sorgente d’influenza. Le figure al surrealismo di Ron Laboray rivisiterebbero le carte da gioco: fra l’uomo con l’armatura, od i semi (sia cristallizzati a “fiocchi” di neve, sia “sgommanti” alla vegetazione d’un dado). Alla sociologia, la pop art “smonta” tranquillamente il potere invasivo della pubblicità. Nel telo di plastica, l’alchimia della vernice sul pennarello trasformerebbe la costellazione solo orientante in un accattivante intarsio da sbandierare. Lo riassumeremo dalla griglia di partenza per le ruote sgommanti. Infatti l’artista ha disegnato Shirley Muldowney: la prima donna a competere per le corse col dragster. La vernice del telo per lei sarà stata tramutata in carburante fucsia (alla gustosità della ciliegia), dalla combustione del rosa. Più genericamente, il pubblicitario dovrà celebrare un logo. Ma un artista sublima anche il consumismo. A Ron Laboray interessa la rivalsa per iniziativa personale, anziché l’intrattenimento da uno status quo. La carta da gioco servirebbe a “rimbalzare fuori” dal caleidoscopio ipnotizzante? Ron Laboray celebra sia chi ha vinto (come Shirley Muldowney, contro il maschilismo), sia chi ha provato a vincere (come Kurt Cobain, contro le majors). A Roma, la mostra era stata curata da Camilla Boemio.

L’incoronazione della Vergine di Alessandro Bonvicini in una visione alchemica

File:Incoronazione della Vergine con i santi Michele Arcangelo, Giuseppe, Francesco e Nicola di Bari.jpg
Illustrazione 1: Alessandro Bonvicini detto il Moretto (1498-1554), l’Incoronazione della Vergine coi Santi Giuseppe, Francesco, Nicola e l’Arcangelo Michele. Dipinto olio su tavola del 1534 esposto nella Chiesa dei Santi Nazaro e Celso di Brescia. Crediti: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Incoronazione_della_Vergine_con_i_santi_Michele_Arcangelo,_Giuseppe,_Francesco_e_Nicola_di_Bari.jpg

La Basilica dei SS. Nazaro e Celso di Brescia

Entrando nella basilica dei SS. Nazaro e Celso di Brescia e procedendo sul lato di sinistra della navata, a ridosso del secondo altare decorato in marmo, si ammira la pala del Moretto del 1534, L’Incoronazione della Vergine coi Santi  Giuseppe, Francesco, Nicola e l’Arcangelo Michele (illustr. 3).

La “Via della Seta” per cui Venere nasce da un sole di stracci

Alla Biennale di Venezia 2024, presso la sezione dell’Arsenale è visitabile il Padiglione Nazionale dell’Uzbekistan, avente gli allestimenti dell’artista Aziza Kadyri. Esteticamente, a lei preme una dialettica fra l’appartenenza ad un segnale (secondo la teoria) ed il condizionamento da una guida (secondo la prassi). Ad esempio: quanto una cultura nazionale potrà essere interpretata liberamente? A livello sociale la mitologia sviluppa l’appartenenza, mentre a livello individuale l’identità sviluppa il condizionamento. Va ricordato che nei Paesi dell’Asia Centrale (come l’Uzbekistan) c’è la tradizione della migrazione, dal nomadismo della tenda (chiamata yurta). Nell’allestimento di Aziza Kadyri accade che l’abitabilità ha una teatralità. Le donne subirebbero il pregiudizio culturale d’un confino al < tutta casa e chiesa >. Loro, lavorando sul tessuto (chiamato suzani) porterebbero virtualmente in dote un sipario dei capelli. Questo condizionerebbe anche il visitatore della mostra, quantunque preservandogli il diritto all’indipendenza fra l’entrata e l’uscita. C’è un allestimento a gioco di specchi. Il visitatore ha anche una guida nascosta, giacché ripreso da una telecamera. Il suo volto è sovrapposto ad una rielaborazione del suzani, da parte dell’intelligenza artificiale. I pregiudizi culturali diventano teatrali al condizionamento delle aspirazioni private. Ad esempio s’imporrà alla donna di lavorare a casa per allontanarla dall’emancipazione politica: se lei la ottenesse, i suoi diritti si rinnoverebbero per “corredo” esponenziale. Il visitatore è libero, ma anche circuito dai segnali a causa del turismo, tramite cui la pubblicità migra. Dormendo nella yurta, si percepirà un esproprio al < tutto casa e museo >. Pertanto gli allestimenti di Aziza Kadyri coordinano il ricamo affinché questo condizioni dallo specchio. I pregiudizi culturali circuiscono anche negativamente, instillando il dubbio che una loro critica non possa mai attecchire. In filosofia politica, il radicalismo decostruisce l’appartenenza alla nazionalità. Se il nomade gira, rispetto a lui l’antropologo girerebbe… a vuoto, identificandosi come un giudice imparziale. Ma nell’allestimento di Aziza Kadyri la novità dell’intelligenza artificiale non sarà soltanto da consultare. Essa ricombina parecchio: ad esempio perché il volto umano ha i “ricami” dell’indole, fra la schiettezza e l’ipocrisia.

La ferrovia d’un altoparlante per trivellare le stelle (i Nativi Americani alla “Biennale di Venezia 2024”)

A Venezia, dal 20 Aprile al 24 Novembre, si segnala una coppia d’artiste, le quali espongono, separatamente, rappresentando la cultura dei nativi americani: Erin Genia (per il popolo dei Sisseton Wahpeton Oyate, dal Dakota del Sud) e Kay Walkingstick (per il popolo dei Cherokee, dall’Oklahoma). Bisogna ricordare che l’evento “collettore” della Biennale è stato ufficialmente denominato Stranieri ovunque. Erin Genia espone un’installazione; Kay Walkingstick invece lo fa con la pittura. I nativi americani si tramandano una variegata mitologia, che la storiografia occidentale rischia di confinare al paradosso laicistico della libertà, con la caratteristica riserva. A Venezia, Erin Genia espone per la collettiva d’artisti Personal Structures, che è allestita presso il Palazzo Mora. La sua installazione s’intitola Cultural emergency response vest, e concerne la tessitura per le tribù diffuse dei Dakota. Kay Walkingstick partecipa direttamente alla Biennale di Venezia, presso la sezione dei Giardini. Lei dipinge ad olio su pannello, raffigurando paesaggi del Far West (sebbene senza la traccia dell’uomo): dal Montana, dall’Arizona, dall’Idaho ecc…

Natalia Ginzburg, “La città e la casa” – Una nota linguistica

Esame linguistico del medium epistolare

 

  • 1. Introduzione e status quaestionis:

Sin dalla pubblicazione del romanzo epistolare La casa e la città (1984) di Natalia Ginzburg (1916-1991), la critica ginzburghiana ha concentrato la propria lente d’esame sulla questione spaziale, una dimensione senz’altro centrale nei romanzi della Ginzburg, accentuata dalle indagini critiche che hanno fatto seguito alla spatial turn: «La svolta “spaziale” […]. Un’inversione di tendenza, iniziata negli anni Novanta in ambito soprattutto Statunitense, e poi a partire dagli anni Zero giunta anche in Europa» (Tortora 2022: 281), un incrocio delle direttrici di ricerca tra critica letteraria e geografia, in questo caso nella sua indagine urbana. La critica che ha abbracciato la spatial turn ha visto nomi eccelsi, tra cui quelli di Pierre Bourdieu, Edward Said ed Edward Soja: un compendio dei critici della spatial turn è presentato da Enric Bou (2020: xi), e da Massimiliano Tortora (2022) in maniera ancor più dettagliata. Il contributo di Bou si inserisce nell’ambito degli studi di Emanuela Forgetta (2022) sulla questione degli “spazi urbani”, andando ad arricchire un patrimonio già notevolmente ricco di studi in prospettiva “spaziale” sui romanzi della Ginzburg.

Si inserisce in tale schiera di studi anche il contributo di Elisabetta Mondello (2017) che, pur contribuendo alla questione “spaziale”, non tralascia di sollevare all’attenzione della critica anche la questione linguistica della letteratura ginzburghiana. Lo status quaestionis degli studi linguistici su Natalia Ginzburg ha visto contributi importanti da curatori di edizioni, tra cui spicca quella di Cesare Segre di Lessico famigliare (2010), a cultori della lingua letteraria, tra cui Eugenio Montale, che ha parlato, in proposito, della «arte sua [della Ginzburg, N.d.R.] di mimare la cadenza del chiacchiericcio» (1963: 7). Le analisi linguistiche hanno coperto in particolare Lessico famigliare, e le sue «forme verbali idiolettiche» (Casadei 2013: 11). Si segnala inoltre il contributo di Elina Suomela-Härmä (2003) in analisi dell’uso di Natalia Ginzburg dei pronomi allocutivi. Il presente saggio si propone l’obiettivo di approfondire un’analisi linguistica del romanzo epistolare La città e la casa, ponendo in luce l’arte ginzburghiana della strutturazione del medium linguistico epistolare.

Il surrealismo d’una battaglia navale per l’oblò dell’occhio

Durante la Biennale di Venezia 2024, si può visitare alla sezione dell’Arsenale il suggestivo Padiglione Nazionale di Malta, con le installazioni dell’artista Matthew Attard. In particolare, la sua mostra s’intitola I will follow the ship, sotto la curatela di Elyse Tonna e Sara Dolfi Agostini. Esteticamente, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale si conferisce una rotta all’occhio umano. Fenomenologicamente, l’impressione è fluttuante. Questa inizia a stabilizzarsi tramite la memoria da esplorare. Il bulbo oculare non è retrattile nel volto, ma si scuoterebbe come un timone passando dall’attrazione al desiderio, in chiave psicanalitica. La navigazione avviene in seguito, quando addirittura si trasforma l’appagamento, sul realismo. Il desiderio è razionalizzato dall’utilità. Matthew Attard ricorre alla tecnologia digitalizzata dell’eye-tracker per consentire ai graffiti navali di salpare, virtualmente. Il desiderio dell’archeologo è risvegliato dalla contestualizzazione storica. Tramite questa, si poteva accettare la dura vita del pescatore, per esempio. Il graffito navale in chiesa fungeva quasi da amuleto, materializzando un occhio come specchio dell’anima con l’impressionismo della fede. Si scongiuravano le brutte tempeste! Specialmente, all’artista interessa la “rotta” dell’ex voto (col ricordo funzionale ad una stabilizzazione). La moderna meteorologia ha migliorato l’affidabilità delle proprie previsioni. Ma resta emozionante immaginare che la lente del vecchio cannocchiale (senza il radar digitalizzato) perda improvvisamente l’orientamento della costa. Un uomo in mare va sempre salvato. In genere, s’ammette che la nave goda dell’immunità politica, perdendo il proprio Stato fra le acque internazionali. Al massimo, quella sarà seguita dalla capitaneria di porto. Per il futuro, il cambiamento climatico comporta l’innalzamento delle acque. La lungimiranza della politica richiederebbe che s’esplorassero nuovi posizionamenti: ad esempio tramite le isole artificiali. Molte di queste sono tracciate riproducendo figure comuni (astratte o viventi), quantunque cedendo al marketing. Nella contemporaneità la digitalizzazione lancia continuamente il suo “amo” in un “oceano” dell’informazione. Pure ispirandosi a questo, l’artista ha scelto di disegnare attraverso un tracciamento oculare.

Dire, fare e baciare dalla terra madre alla ruggine spettrale

Alla Biennale di Venezia 2024, si può visitare il Padiglione Nazionale di Timor Est, con l’installazione in site-specific dell’artista Maria Madeira, la quale s’intitola Kiss and don’t tell. La curatela è di Natalie King, una professoressa australiana, e presso lo Spazio “Ravà”. Timor Est divenne indipendente dall’Indonesia nel 1999. Tornatavi, Maria Madeira dormiva in una stanza piena di segni colorati, lungo le pareti, all’altezza delle ginocchia. Lei era fuggita da bambina, con l’evacuazione durante l’invasione indonesiana. A Timor Est, le donne rimaste subivano l’umiliazione di mettersi il rossetto, in ginocchio, per poi baciare i muri.

L’oasi umile ma reale del porto non è un paradiso appena transitorio

Alla Biennale di Venezia 2024, sino al 24 Novembre è visitabile il Padiglione Nazionale dell’Oman, presso il Palazzo Navagero, avente le opere degli artisti Alia Al Farsi, Ali Al Jabri, Essa Al Mufarji, Sarah Al Olaqi ed Adham Al Farsi. La loro mostra s’intitola Malath – Haven. La traduzione dei due termini, fra la lingua araba e quella inglese, eleva l’oasi “umile” ma reale del porto al rango di paradiso non solo intermedio. Ricordiamo anche che la Biennale di Venezia 2024 s’intitola Stranieri ovunque. Tradizionalmente l’Oman è considerato molto ospitale, coi suoi giardini (contraddicendo l’immaginario collettivo, riguardo la desertificazione della Penisola Arabica). Noi lo percepiamo di passaggio, fra l’Oriente e l’Occidente. Se la teoria parte da una condizione per cui si è stranieri ovunque, allora l’Oman alla prassi sviluppa l’ammissione per cui si accoglie chiunque sosti. Ovviamente nessuno desidera andarsene da un paradiso. Ma la vita comporta l’ineluttabilità d’una transitorietà: dalla nascita alla morte. Quindi il paradiso intermedio (come per l’Oman) ci spinge ad una comprensione, trasformando la finitudine (negativamente) in socializzazione (positivamente). Chi accoglie gentilmente, può abituare ad affezionarsi. Magari l’Oman diventerà una sosta in cui ritornare, per motivi privati e senza fretta (aggiungendo il godimento). Virtualmente dal suo “gomito” a “sestante”, ad est della Penisola Arabica, il marinaio scandirebbe la tabella di marcia, per un servizio commerciale. Normalmente nessuno immagina che il porto possa verdeggiare, come un giardino. Al contrario l’acqua blu dell’oceano avrebbe le onde ristagnanti, passando dalle dune alle lamiere d’un container. L’arte permette “magicamente” di sospendere la finitudine umana (spesso al “palliativo” dei pregiudizi culturali per “tiranti”). In Oman, quella addirittura trasformerà il porto: appunto in giardino. Alla miniatura immaginiamo una tenda d’artigianato locale, per riposare liberamente al vento, la quale ramificherà le radici, appena ingabbianti, delle ancore seriali (siccome le catene devono rispettare le misure internazionali). A Venezia, la mostra Malath – Haven è curata da uno degli artisti: Alia Al Farsi.