Siamo sicuri di sapere come ragioniamo? Non come dovremmo ragionare, non come crediamo di ragionare, ma come ragioniamo effettivamente. Per almeno un secolo e mezzo, cioè dalla metà del XIX secolo siamo dominati dal paradigma della logica formale, che già si riallacciava al modello della geometria euclidea: pochi assiomi, pochissime definizioni, poche regole di inferenza e molti teoremi, la cui garanzia risiede nella trasparenza dei pochi assiomi, delle poche definizioni e delle poche regole di inferenza. L’idea era fondare l’intera matematica, qualsiasi cosa essa sia, su poche nozioni teoricamente trasparenti o inoppugnabili, la cui combinazione doveva essere garantita dai principi della logica. Da qui il celebre detto di Russell e Wittgenstein che nella logica non ci devono essere salti perché è il regno della banalità.
Il passo successivo è stato riuscire ad implementare tale linguaggio formale di natura combinatoria nei computer, che altro non sono se particolari sistemi formali (macchine di Turing universali). Alla fine, siamo arrivati a domandarci se queste macchine pensino, visto che seguono le nostre stesse regole quando ragioniamo. Non intendo addentrarmi in quest’ultimo problema, che va affrontato con altre risorse filosofiche (per esempio, Pili (2012), cap. 8 o per esempio il video qui), prendendo sul serio le teorie dell’intelligenza artificiale e del funzionalismo della filosofia della mente analitica. Invece vorrei dedicare questo articolo all’altro problema che, per altro, è raramente considerato, ovvero il ragionamento umano per come si presenta.