Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.
Non così poco si conosce di Niccolò da non potersene creare una rappresentazione mentale abbastanza definita verso la quale poter, nel caso, anche prendere posizione di simpatia, d’aperta ostilità o, infine, d’indifferenza.
A me Niccolò sta simpatico. Questo fatto soggettivo è probabilmente dovuto, e, se possibile, anche l’ipotesi (probabilmente vera) che questo fatto sia generalmente diffuso in chi si trovi per caso o per fortuna a conoscere Niccolò, è dovuto all’accidentalità che si conosce il poeta più attraverso l’immagine che di esso ne danno i suoi carmi che attraverso dati biografici di altra (prosaica) provenienza, dunque all’intrinseca poeticità (per non dire probabile distorsione fantastica, ma la questione forse non è così semplice) della figura del Nostro.
Intendo dare prima qualche cenno di biografia, per poi passare ad occuparmi (liberamente e piuttosto) del contesto storico-culturale e della poesia di Niccolò.
Con l’epoca moderna abbiamo i primi segni dell’incrinatura del dominio del paradigma razionalista[1]. Si può già vedere, in pensatori come Pascal e Nicole, i quali riprendono diverse direzioni del pensiero di Agostino, una sorta di recupero del sentimento contro la ragione, o per lo meno il superamento temporaneo della tradizionale contrapposizione tra sentimento e ragione. Non sono d’accordo con questa interpretazione. Penso piuttosto che queste filosofie possano essere tranquillamente catalogate come filosofie della retta ragione, per cui è sempre all’istanza della ragione che è demandato il compito di guidare l’azione. Per quanto riguarda l’amore di cui molto parlano queste filosofie credo basti quanto già osservato a proposito di Agostino; l’amore per il dio non va confuso con l’amore terreno. Che poi la ragione sia inerme senza la grazia del Dio, è una questione del tutto irrilevante per i nostri particolari interessi.
È senz’altro ridicolo tentare di riassumere il pensiero filosofico etico medievale in poche parole. Per questo non tento qui tanto un riassunto, quanto piuttosto di mostrare attraverso le figure filosofiche più importanti o significative, sempre selezionando i contenuti in ragione di una risposta alla nostra domanda, come questo – il pensiero – si muova attraverso i secoli fino alla modernità tenendo per lo più fermo un suo comune dominatore, che è allora in grado di unificarlo: la retta ragione (recta ratio). Preliminarmente possiamo dire che, rispetto all’etica antica, l’etica medievale non concepisce più il peccato come sopraffazione della parte irrazionale dell’anima su quella razionale, ma piuttosto come libera volontà di fare il male. La categoria della volontà è senz’altro una grande novità del pensiero etico medievale. Punto di continuità con il pensiero antico è invece proprio la recta ratio. Mostreremo che anche il pensiero etico medievale per lo più privilegia la componente della ragione a discapito della componente emotiva del processo di presa di decisione e azione morale.
Entrambe le grandi tradizioni antiche, quella platonica e soprattutto quella aristotelica, rimangono ben vive nel pensiero medievale. La prima si impone soprattutto nella prima fase del pensiero medievale, dopo Agostino, che propriamente è un filosofo del tardo antico; la seconda si impone nella seconda parte del pensiero medievale, con particolare forza dopo la traduzione in latino dell’Etica Nicomachea. Contrariamente alle tradizioni antiche, si afferma spesso, durante il medioevo, la visione per cui il sommo valore non è la felicità ma l’amore, atto della volontà. Sicché la volontà riceve un’attenzione prima sconosciuta. Sottolineo questo solo per dire che questo primato della volontà, spesso sostenuto (da Agostino prima di tutti), non è di per sé in contraddizione con il pensiero per cui deve essere la razionalità a guidare il processo di presa di decisione e quello d’azione. La contrapposizione volontà ragione non è la contrapposizione passione (o emozione, sentimento) ragione, a meno di non concepire la volontà come determinata dalla passione. A noi interessa il rapporto ragione passione.
La storia della filosofia morale è senz’altro molto lunga e complessa, dunque ogni tentativo di ridurla a schema evolutivo secondo categorie dal potenziale dicotomico come quelle di ragione ed emozione non può che portarci ad una conoscenza parziale della complessità che compone il percorso della filosofia morale dal suo nascere ad oggi. La riduzione è nondimeno necessaria, e le categorie riducenti possono senz’altro avere due vantaggi: primo, agevolano la nostra comprensione della storia, altrimenti difficilmente raggiungibile; secondo, permettono alle volte, quando le categorie sono inusuali rispetto alla norma, di scoprire fatti nuovi o portare alla luce fenomeni prima all’oscuro, attraverso il darsi di nuove interpretazioni. Tolto l’ausilio della semplificazione e della categoria rimaniamo in preda al caos e all’indeterminazione più assoluti, i quali non permettono la nostra comprensione dei fatti. Il farsi carico di questa necessità però non implica sfigurare i fatti della storia attraverso le proprie categorie e il proprio metodo di comprensione – nonostante si ammetta questo sia in certa misura necessario o costitutivo al darsi della realtà – ma anzi tendere verso una sempre maggiore aderenza alle vicende storiche del pensiero.
Esaminate le vicende del pensiero filosofico morale, azzardo un’asserzione audace, che cercherò di supportare mostrando l’andamento della storia, interpretata alla luce della risposta che le varie filosofie nel loro susseguirsi hanno dato alla domanda del ruolo relativo di emozione e ragione nel processo di presa di decisione e azione morale. L’asserzione audace è che la storia della filosofia morale occidentale, almeno fino alla modernità, è caratterizzata da un pensiero che enfatizza ed esalta la componente della ragione nel processo di presa di decisione e azione morale, mentre demonizza e scredita la componente emotiva, alla prima opposta. Se la ragione ci mette in contatto con le idee più alte e nobili (es. con la divinità stessa), l’emozione non è che il ricordo nell’uomo della sua animalità. Dove la ragione è l’alta manifestazione dell’anima, l’emozione è la bassa manifestazione del corpo. La ragione favorisce e arricchisce la nostra vita morale, mentre l’emozione per lo più impedisce il suo corretto darsi. La moralità stessa è concepita come un sistema di principi coglibile astrattamente dalla ragione, e le emozioni come motivazioni che possono favorire o sovvertire la nostra decisione razionale, motivazioni che sono però moti (ciechi) non-razionali che tendono a dominarci. Questa tendenza generale della filosofia morale rappresenta per noi il paradigma della tradizione, messo in discussione dalla filosofia sentimentalista del XVIII secolo. A questa discussione del paradigma, o rivoluzione, come più avanti l’ho chiamata, segue la risposta della tradizione, che si compie in Kant. Il pensiero post-kantiano però vede il superamento del paradigma tradizionale, nel solo senso che tendenzialmente l’emozione non è più ignorata come elemento di disturbo o inessenziale alla morale.
Di seguito si propone un sunto, ragionato ma fedele, del discorso Concetti filosofici e risultati pratici, tenuto da James nel 1898 all’Unione Filosofica dell’Università di California. Il testo del discorso, pubblicato nel 1904 con il titolo The Pragmatic Method, secondo una visione diffusa «sancisce ufficialmente la nascita del pragmatismo» (Vimercati, 2000).[1]
In via introduttiva è utile chiarire quale sia la posizione di James nei confronti del pragmatismo di Peirce. Posto che, come afferma Peirce, il significato di una concezione (metafisica, ad esempio) è chiaribile solo attraverso la comprensione della condotta (o dell’abito) che essa ispira o comunque che da essa discende, per James è naturale allora prendere in esame, nella considerazione e di fronte ai dilemmi metafisici o più in generale filosofici, la condotta pratica, ovvero propriamente la vita, piuttosto che la logica. In sostanza, James si propone di ampliare il messaggio e il metodo di Peirce; dove Peirce intende il pragmatismo come un metodo sperimentale non tanto volto a stabilire verità, quanto piuttosto a chiarire concetti e dissolvere problemi, mostrandone l’inconsistenza, James opera uno spostamento di obbiettivo: il praticalismo o pragmatismo, o meglio, la massima pragmatica di Peirce, servirebbe a chiarire e distinguere il vero dal falso. Di fronte al dilemma, il filosofo deve stabilire quali siano le condotte che discendono da entrambi i corni, e stabilirne le differenze, per poi operare una scelta in favore della concezione che implica per noi la condotta più conveniente e a noi più consona: e questo corno del dilemma sarà quello vero, dal momento che la nozione di verità è chiarita nei termini delle conseguenze pratiche sensibilmente apprezzabili prodotte dalla teoria. Ma vediamo con maggior chiarezza come si delinea, nello scritto, questa visione ed evoluzione del pensiero di Peirce.[2]
Obbiettivo dello scritto è chiarire cosa si intende per “filosofia sperimentale”.
La filosofia sperimentale (anche detta x-phi, abbreviando la denominazione inglese) è una nuova tendenza d’indagine filosofica che integra l’ormai tradizionale metodologia d’indagine della filosofia analitica con il metodo scientifico della scienza cognitiva. La filosofia sperimentale è diffusa soprattutto negli Usa (Yale, Arizona, Buffalo), mentre in Italia viene sostanzialmente ignorata.
Il punto centrale è questo: il filosofo è detto sperimentale quando si occupa di indagare attraverso la ricerca e il metodo empirico, ovvero attraverso uno studio sistematico, rigoroso e scientifico, il pensiero e le intuizioni dell’uomo comune sulle questioni che stanno a fondamento della discussione filosofica.
Questo lavoro vuole risolvere, attraverso un’argomentazione storica, il problema se si possa veramente parlare di evoluzione sostanziale dei rapporti tra Stato Italiano e Chiesa, così dei rapporti tra Chiesa e cittadino italiano.
Non è possibile risolvere in modo netto il problema. Dobbiamo distinguere due elementi nella questione.
Da una parte non c’è un sostanziale mutamento di atteggiamento da parte della Chiesa nei confronti del cittadino, se non quello imposto necessariamente dalla storia dello Stato. Considerando globalmente gli avvenimenti storici riguardanti l’Italia e la Chiesa, avvenuti negli ultimi centocinquanta anni, si può concludere che la Chiesa si apre al cambiamento quando, ormai, non può più fare altrimenti, e che, dunque, si pone costantemente come forza reazionaria, salvo poi, di fronte all’oggettiva impossibilità di cambiare la realtà, in primis con lo scopo nemmeno troppo dissimulato di tutelare i propri interessi, si adatta ai cambiamenti avvenuti. Dall’altra parte sì, i rapporti tra Stato e Chiesa, come quelli tra Chiesa e cittadino, e quelli tra Chiesa e sistema politico italiano, cambiano senz’altro negli ultimi centocinquanta anni, ma non certo nella direzione voluta dalla Chiesa. Molte conquiste laiche dello Stato, come il divorzio e l’aborto, si sono di fatto ottenute nonostante la contrarietà esplicita e influente della Chiesa. Quello che però va detto è che c’è questa contrarietà, e che è costante durante tutta la storia del nostro paese, determinando un rallentamento nel cammino laico e liberale del paese, di ieri e di oggi.
S. Alexander è stato un filosofo australiano nato nel 1859 e morte nel 1938 che studiò prima in Australia e poi in Inghilterra.
Alexander (d’ora in poi Ale, ma avrei potuto chiamarlo ‘il contraddetto’) è ricordato per aver sostenuto una tesi emergentista (i.e. una tesi per cui le proprietà di un sistema complesso non sono ottenibili dalla semplice somma né dipendono immediatamente dalle proprietà delle sue parti – le proprietà emergenti dunque non sono riducibili alle proprietà da cui emergono) del rapporto mente cervello – o più in generale, fisica-chimica vita. Ale, come ogni buon emergentista che riflette sull’essere vivente e sulla sua di questo possibile coscienza, se ne sta in bilico tra l’affermare che non esiste altro oltre ai processi chimico-fisici e l’affermare che, nonostante tutto, i processi detti mentali non si riducono semplicemente ai processi chimico-fisici, piuttosto emergono come qualità distinte, come nuove realtà. Il fenomeno mentale (e così la ‘vita’) emergerebbe dalla complessità del fenomeno fisico-chimico.
L’ardore soprattutto, tra disarmonie dalla puntuale determinatezza e sboccatamente sempre provocanti giochi di stropicciate – però molto naturalmente, come una camicia di lino – citazioni. Allora molto cinema: a partire dalla frigida ma felina figura del ruggente (anche?) Man with No Name, attraversando classicissimi Citizen Kane e Gone with the wind, sguardi sex tutto felliniani, un finale che ricorda una performance dada – un pò alla Antonioni di Blow-up –, e prima (?) un inizio di provocatorie (?) scomposizioni di certi a priori eternissimi anche nel cinema – seppur già discussi in modo drammaticamente onirico dal Lynch che forse poi non fa che ripetere ancora ed ancora quei primi 15 minuti di Bunuel che già da subito discutono tutto – tra duelli che francamente somigliano più a scontatissime (ormai) variazioni madelaine che a momenti d’intramontabile pathos tutto west (però qui sta l’abilità del rinnovare consapevole?): e forse qualcosa di nuovo sotto il sole: ovvero una contro-geometria rigorosissima tutta imposta – al cinema – però molto delicatamente.
L’incredibile … che cosa? Esso stesso – questo è subito detto, qui però mostrato: il che significa trasfigurato in un divenire che già diviene essenzialmente immagine. Ovvero altrimenti detto: un’indicazione viva del trasformarsi del tutto attraverso una sorta d’autodigestione (detto per inciso, ricorda da vicino il Re Baldoria del giovane Marinetti, che terribile divora se stesso) – con un ‘Prost!’ a Kubrick e al suo (e nostro) vertiginoso eterno ritorno (dell’eguale?), Kubrick che siede magari al tavolaccio improbabile dove discutono (sempre delle stesse cose?) importuni ma liliali e Vico e Arbasino e Nietzsche (che stupendo tavolaccio!).