[1]In astratto, l’efficacia di un principio si auto-conferma, e quindi appare se si manifesta come vigente, anche quando quel principio è adoperato per validare o invalidare norme secondarie in conflitto con quel principio. E’ questa funzione della validazione o dell’invalidazione l’essenza del principio su cui poggiano siffatte norme primarie, sicché si comprende il senso per il quale la realtà stessa della validazione o invalidazione, nel suo operare costante e concreto, conferma il principio e la ratio delle disposizioni in questione. Si tratta, essenzialmente, di metanorme, ossia di norme che si occupano di altre norme.
Esistono delle norme di validazione che plasmano l’ordinamento, rendendolo organico: si tratta di norme trasformative, in cui si collocano le norme di razionalizzazione, che danno una impronta razionale al sistema normativo, in ossequio al principio costituzionale di ragionevolezza.(art 3 Cost, sul presupposto dell’esame del fenomeno delle norme validative all’interno dell’ordinamento italiano).
Le norme trasformative regolano la dinamica dell’ordinamento, consentendo l’accesso di nuove norme o ponendo degli ostacoli all’entrata a tale accesso. Le norme di trasformazione invalidative consentono i cambiamenti dell’ordinamento.
La validazione presuppone che la norma N che viene dichiarata valida entri a far parte dell’ordinamento, per effetto della dichiarazione di validità, quando prima essa non rientrava in tale ordinamento. Una norma di invalidazione può avere una caratterizzazione diversa : per esempio, la norma di abrogazione, per avere l’effetto abrogante, deve presupporre che la norma abrogata prima facesse parte dell’ordinamento (effetto di cancellazione). In altri casi, vi può essere un’invalidità come norme di preclusione e si parte dall’idea che N non è valida e non lo diventerà (norma di preclusione). Ad Hart risale la dicotomia fra norme di mantenimento e norme di mutamento.
Possono, pertanto, configurarsi norme soppressive (in cui si inseriscono le norme abrogative), che rendono invalide norme prima pienamente valide e norme di invalidazione preclusive, che escludono dall’ordinamento norme non preesistenti, nel senso che introducono degli ostacoli all’entrata alla circostanza che queste disposizioni entrino a far parte dell’ordinamento, innovandolo. Le norme soppressive hanno, pertanto, una funzione conservativa. Abbiamo un Legislatore che si oppone alle innovazioni, ritiene che esse siano deleterie, mediante un giudizio di valore (o di disvalore normativo), formulato in termini generali. Si reputa che un atteggiamento conservatore sia adatto all’introduzione di innovazioni che potrebbero portare il caos. Si è argomentato nel senso che l’art. 139 Cost., a mente del quale ”La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” è proposizione da cui può ricavarsi una norma di invalidazione, perché è preclude qualsiasi mutamento del regime repubblicano. Va aggiunto che la suddetta norma può interpretarsi in senso restrittivo, come a voler intendere che con la medesima è preclusa la restaurazione monarchica, anche se una esegesi di tale tipo, ove si guardi al “sistema”, appare priva di fondamento. Così come appare contro il testo costituzionale argomentare nel senso che limiti alla revisione, ulteriori a quello esplicitamente contenuto nell’art. 139, non possano enuclearsi.
Il discorso può espandersi: si sono teorizzati limiti espliciti e limiti impliciti alla revisione costituzionale. Anche l’art 3 Cost. è una norma di validazione e invalidazione, in quanto il nucleo essenziale dell’uguaglianza implica anche la ragionevolezza, da cui traggono fondamento normativo le norme di invalidazione trasformative razionalizzanti. L’uguaglianza deve essere rispettata dai Magistrati e dagli Amministratori, ma è anche un imperativo, rivolto al Legislatore. Si tratta, sotto questo aspetto, di una norma primaria: solo una giustificazione razionale rende coerente con l’ordinamento un trattamento diversificato. Il principio di uguaglianza è contemporaneamente norma primaria, nel senso adesso specificato e norma secondaria (ma anche qui forse si complica il ragionamento, concependo questa natura ibrida), nel momento in cui dispone della validità o invalidità delle norme, che determinino un’irragionevole disuguaglianza. Se tali norme sono presenti, o sono invalide tutte le norme, fonti della disciplina differenziata, che non si costituisce per nessuno, o sono invalide quelle che contengono l’esclusione. Nasce, pertanto, una nuova norma (valida) che estende ai soggetti discriminati la posizione favorevole. Questa disposizione nasce senza il medium del Parlamento o di altro titolare della funzione legislativa.
Può affermarsi che la Costituzione è fonte del diritto, in quanto le norme che la compongono hanno l’idoneità ad invalidare o abrogare norme emanate in un tempo anteriore, contenutisticamente incompatibili con le prime o norme successive di rango inferiore e contenutisticamente incompatibili con le medesime.[2] Questa opinione stride con la tesi, avallata da parte della dottrina e della giurisprudenza, quanto meno con riferimento a talune (molte) norme costituzionali, in quanto, prima della messa in funzione della Corte costituzionale (1966), la Cassazione distingueva fra norme precettive (rare), immediatamente vincolanti e norme programmatiche, che necessitavano delle leggi, ai fini di una loro applicazione[3]. Queste ultime non potevano considerarsi norme di invalidazione, in quanto si limitavano a stendere un progetto di normazione, da realizzare attraverso la successiva emanazione di norme legislative precettive o con la trasformazione delle suddette norme programmatiche in precettive.
Si riscontrano norme di invalidazione anche nel diritto privato, ambito in cui si colloca l’art., 1418 cod civ.: è preclusiva la norma che sancisce la nullità di contratti gravemente viziati, per contrasto con norma imperativa. La struttura della disposizione è articolata: infatti, la nullità del contratto è presente quando vi sia la violazione di norme imperative, ma il principio può essere derogato, con la previsione di sanzioni diverse dalla nullità (“salvo che la legge disponga diversamente”). Pertanto, l’esegesi della norma dipende dal rilievo che si dia all’inciso finale della medesima. Ai sensi, dell’art. 1418, il contratto è altresì nullo quando manchi degli elementi essenziali, si riscontri illiceità della causa o frode alla legge o mancanza nell’oggetto dei requisiti di cui all’art 1346 cod. civ., illiceità dei motivi, ex art. 1345, previsione di una nullità testuale, espressamente comminata da altra norma (commi 2° e 3° art. 1418).
L’art. 1418 è norma di invalidazione complessa, in quanto si costruisce una teoria generale della categoria della nullità, in seno alla disciplina generale del contratto, attraverso la dicotomia nullità testuale – nullità virtuale (il problema della cui individuazione diventa questione di interpretazione del silenzio del legislatore, sul solco di quanto abbiamo già asserito, secondo cui una norma di invalidazione può essere anche implicita). Il paradigma di riferimento sarà pur sempre la norma violata e anche all’interno del genus norme imperative viene a crearsi una dicotomia, fra norme imperative da cui scaturisce la nullità virtuale e norme da cui essa non promana, in quanto sul piano ermeneutico è ricavabile una sanzione diversa (ad esempio, proprio l’anniullabilità). L’invalidazione è plurima: infatti può esserci nullità del contratto, ma anche annullabilità e risarcimento del danno, ove si ritenga di dover applicare altre sanzioni. La validità dell’atto verrà valutata attraverso il raffronto con la norma violata, di cui occorrerà interpretare la ratio. Può affermarsi come questa sia una delle ipotesi in cui, ai fini di una conducente esegesi della norma incorporata in una disciplina, il solo argomento letterale non sia di per sé decisivo, ma occorra attingere alla “ratio” e al sistema, a partire dalla norma fondante o potere costituente.
Il principio della nullità virtuale attribuisce particolare fisionomia alle norme di invalidazione in ambito civilistico e si distacca dal regime precedente. Il Codice civile del 1865 e il Codice napoleonico francese non disciplinavano in termini generali il giudizio di nullità. Si cercano altri paradigmi e si percepisce il negozio giuridico come fattispecie. Il Codice del 1942 respinge l’idea della tipicità” delle ipotesi di nullità, attraverso una dilatazione di tale categoria per il medium della nullità virtuale, mentre prima esisteva solo la nullità testuale. La fattispecie è incompleta e bisogna verificare se è possibile in qualche materia identificare fisionomia ed effetto di tale fattispecie e, quindi, quando ciò non sia un difetto strutturale e funzionale del contratto, di notevole entità, sulla base del confronto con la norma da interpretare, non si applica in concreto il paradigma della nullità virtuale. La previsione della nullità testuale rende la norma di invalidazione dell’art. 1418 ibrida, attraverso la coesistenza della dicotomia nullità virtuale e nullità testuale, l’art. 1418, 3 c. con il suo riferimento alla nullità testuale segna un punto di coerenza con il passato.
In termini generali, si può affermare che nel diritto costituzionale i concetti di validità e invalidità vengono normalmente riferiti alle norme, Nel diritto privato, ci si pone in termini di invalidità dei contratti e dei negozi giuridici. Le norme sulla nullità si collocano nell’invalidazione preclusiva, in quanto sin dall’inizio si esclude ogni effetto giuridico dell’atto. Non vi è possibilità di mutare l’assetto normativo anteriore. L’atto non racchiude in sé gli elementi di una fattispecie compiuta, perché monco, ossia privo di taluni elementi essenziali, In taluni ipotesi, l’ordinamento assume un atteggiamento ostinatamente conservatore, rifiutandosi di introdurre l’innovazione e la norma di invalidazione assumerà un carattere preclusivo (divieto dei patti successori; art.458 cod civ.). La nullità può derivare dall’incompatibilità di una norma definitoria con una fattispecie concreta, ad esempio assumendo come paradigma la nozione di contratto che fornisce l’art. 1321 cod. civ.
E’ nota la differenza di regime fra nullità e annullabilità, in quanto l’atto nullo non è sanabile, mentre l’atto annullabile può non essere impugnato dal soggetto, nei cui confronti è apprestata la tutela, da cui scaturisce eventualmente il giudizio di annullamento (per es, errante, soggetto ingannato, soggetto vittima di violenza). L’atto annullabile può produrre effetti nei confronti dei terzi di buona fede e può essere convalidato.
Se la norma di invalidazione può comportare nel caso concreto l’annullamento dell’atto, vi è un’omologazione fra trattamento dell’invalidazione consistente nella nullità e invalidazione consistente nell’annullamento. La preclusione si identifica con un vizio dell’atto, meno grave rispetto a quello riguardante l’atto nullo, altrimenti non sarebbe prevista la possibilità di sanare l’atto annullabile.
Altro concetto che è stato introdotto è quello di permesso forte, che nasce da una norma che esclude il divieto e si distingue dal permesso debole, che è solo collegato all’assenza di un divieto. La norma permissiva è espressa, di là dalla variabilità delle forme linguistiche, attraverso le formule “è permesso, non è vietato l’atto A”. E’ emerso il tentativo di esprimere le norme permissive, invertendone la semantica, nel senso della sussistenza di un divieto di impedire il comportamento consentito. Ma questo è qualcosa che si riscontra di solito e che, quindi, non può essere inerente alla struttura dell’atto permissivo. Orbene, la norma permissiva può anche accompagnarsi all’obbligo ai cittadini di non impedire con la forza l’atto permesso e per l’autorità di non impedirlo con un divieto. Tuttavia, il nucleo centrale è che si tratta di una norma di invalidazione generale, con riferimento a qualsiasi comportamento che ostacoli la condotta permessa. In questa ipotesi, oggetto dell’invalidazione è il divieto del permesso forte e la norma invalidativa fornisce tutela al permesso stesso, impedendo una sua vanificazione sul piano del diritto positivo. In certo senso, le norme permissive abrogano o derogano a divieti concernenti il permesso medesimo, ma bisogna andare oltre la riflessione che riduce le norme permissive a norme di obbligazione.
Ci si esprime in termini di facoltà forte, quando non solo non vi è assenza di obblighi (facoltà debole), ma vi è una esplicita facoltizzazione del comportamento. Si può ribadire quanto affermato a proposito del permesso forte, nel senso che spesso la facoltà forte è accompagnata dal divieto per i consociati di tramutare in obbligatorio l’atto facoltativo e dal divieto all’autorità di imporre il medesimo, ma l’essenza della prescrizione non si colloca in questi aspetti, in quanto anche in questo caso si è in presenza di invalidazione generale che rende, appunto, invalido, qualunque precetto, presente, passato o futuro che renda obbligatorio il comportamento facoltativo. Dall’intersecarsi fra norme di permesso forte e di facoltà forte può enuclearsi la c.d. “libertà forte”, la quale presuppone un facoltà e un permesso in senso forte e che siano contestuali.
Vanno menzionate le norme validative di trasformazione, che determinano effetti innovativi nell’ordinamento giuridico e sono essenziali per prevenire uno svuotamento dello stesso. Può pensarsi al dispositivo di “adattamento automatico”, di cui all’art. 10 Cost., un “trasformatore permanente “, che adatta l’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.
In ogni modo, assumono rilievo prioritario le ipotesi in cui un potere delega a un altro la potestà normativa, come nell’ipotesi della delegazione legislativa. Si attribuisce a determinati soggetti la competenza a introdurre delle variazioni nell’ordinamento, che verranno considerate valide, sulla base ed entro i parametri dell’investitura, che consente al soggetto destinatario della medesima di esercitare il potere normativo.
Vi è stato il tentativo di ricondurre le norme attributive di potere a imperativi, con l’utilizzo dell’espressione “comandi di obbedienza” Pertanto, conferire a un soggetto il potere di emanare norme nei confronti di certe persone è equivalente a imporre a quelle persone l’obbedienza agli imperativi normativi del soggetto (Tutti gli imperativi posti da S devono essere obbediti). La spiegazione si presenta completa solo con riguardo all’emanazione di norme imperative, ossia si legittima attraverso una procedura di “investitura” quella determinata autorità ab origine priva di potere normativo, ad emanare norme di obbligazione. Il fenomeno è illustrato parzialmente, in quanto esula dall’indagine la possibilità che l’autorità in questione emani norme non imperative, fra cui norme di invalidazione e norme abrogative. Il potere è l’attitudine che si conferisce al soggetto di emanare norme valide, ossia di produrre effetti giuridici, ivi compressa l’attitudine a emanare norme di validità, sia che si tratti di norme di validazione, sia che si tratti di norme di invalidazione. Il potere va inteso come attitudine a produrre determinati effetti giuridici. La titolarità del potere consente di produrre un certo effetto giuridico, senza l’intervento di altri soggetti, con conseguente soggezione di coloro che sono sottoposti al potere. Il titolare del potere è in una posizione di inerzia giuridica priva di impulso normativamente rilevante, nel senso che non deve né operare giuridicamente né frenarsi dall’operare. L’azione del soggetto titolare del potere può produrre un obbligo positivo o negativo, ma potrà produrre anche norme, come per esempio norme di validazione o invalidazione.
E’ palese il nesso fra permesso forte, per come è stato sopra definito, e norma di invalidazione, che colpisce la validità giuridica di eventuali divieti. Norma attributiva del potere normativo e attribuzione del potere si trovano talvolta in contrapposizione dialettica, in quanto si attribuisce il potere ma si può enucleare un esempio di norma di invalidazione mista, che presenta in sé i caratteri della validazione dell’invalidazione: infatti, sulla base di quella norma, saranno validi certi poteri e non altri, nel senso che si va per tipologie. Si delimita la sfera di competenza del soggetto attributivo del potere: per es. il Governo non può emanare decreti legislativi, che oltrepassino i criteri direttivi indicati puntualmente nella legge di delegazione. La legge di delegazione è contemporaneamente norma validante e invalidante e delimita la competenza del Governo, cui viene attribuito eccezionalmente il potere legislativo. Il potere pubblico attribuisce a certi soggetti, che acquisiscono la qualità di “autorità”, la potestà di emanare norme valide, per una pluralità più o meno ampia di consociati. Si può muovere il parallelo con la capacità di agire in diritto privato.
Per comprendere la “logica” sottesa a un ordinamento giuridico, vanno anche recuperati i principi aristotelici di non contraddizione, del terzo escluso e di identità. Questo presuppone che ci si muova all’interno di logiche, in cui il principio di non contraddizione abbia il suo ruolo cardine, in quanto generalmente i princìpi formali non sono compatibili, appunto, con le contraddizioni. Ove nel sistema formale si intercetti una contraddizione, diventa possibile dedurre qualsiasi implicazione e questo genera il caos.
Possono venire in considerazione, inoltre, il principio di conservazione degli atti giuridici o i princìpi di uguaglianza, secondo le coordinate già delineate. Talvolta, tali princìpi non sono espressamente previsti dall’ordinamento (e questo è una ulteriore conferma dell’insufficienza della mera interpretazione letterale) e possono essere un sottoinsieme di princìpi più ampi espressamente previsti. In certi casi, può venire in aiuto lo strumento dell’analogia, sia legis, sia iuris (e cfr. art. 12 preleggi), in altre ipotesi, occorre muovere da ragionamenti induttivi a partire da norme valide, ad esempio generalizzando la norma di partenza. Anche se si perviene a conclusioni più ampie, rispetto a quelle contemplate dalla norma da cui muova il processo induttivo, si tratta pur sempre di norme di razionalizzazione, ricavabili dalle maglie dell’ordinamento giuridico. In ogni caso, in alcune ipotesi, occorre superare l’ambito delle norme previste, attingendo alla dimensione della morale, traendo spunto dalla coscienza sociale. Ciò presuppone l’adesione all’ordine di idee, per la quale è possibile operare un nesso fra diritto e morale. Il problema è rinvenire lo spazio in cui collocare la coscienza sociale. Si deve trattare di una dimensione metagiuridica? Peraltro, può enuclearsi una realtà sociale che integra l’ordinamento normativo (ubi societas ibi ius). Il diritto riceve linfa vitale dalla coscienza sociale, dalla parte di consociati che lo osservano e che danno al medesimo rilevanza. Non occorre, pertanto, collocarsi nel metagiuridico.
Si è già asserito che un ordinamento per non essere non schizofrenico (intrinsecamente contraddittorio) deve rispettare il principio di non contraddizione, il che può tradursi nell’affermazione, secondo cui occorre eliminare le antinomie, ossia l’incompatibilità fra le norme. E’ noto che come criterio di soluzione dei contrasti normativi (antinomie) si applica anzitutto il principio gerarchico: le norme gerarchicamente superiori prevalgono su quelle inferiori. Questo principio risiede nella natura stessa del rapporto gerarchico, che mancherebbe, ove non si applicasse questa soluzione, in caso di contrasto fra norme appartenenti a livelli gerarchici diversi. Una conferma di questo criterio di soluzione delle antinomie si può trovare nell’art. 136 Cost., secondo cui sono illegittime le leggi in contrasto con la Costituzione. L’art 4 delle Preleggi è una conferma ulteriore del principio gerarchico. Accanto a questa modalità di risoluzione dell’antinomia fra plessi normativi riscontriamo l’invalidità di norme anteriori in conseguenza di norme successive, emanate da un’autorità di pari livello (criterio cronologico, art 15 Preleggi). In astratto, delle novità nelle scienze empiriche possono accumularsi senza esclusione del materiale precedentemente raccolto. Applicare un’impostazione di tale tipo nell’ambito della risoluzione delle antinomie fra le norme sulla base del criterio cronologico implica con sé il rischio di attuare solo modifiche superficiali del sistema normativo e di raccogliere materiale eterogeneo, ammassando una mole caotica di informazioni. Vi sarebbe un rinnegare la categoria delle norme di invalidazione sotto questo particolare aspetto e, nel contempo, un rinnovo del sistema giuridico solo secondo i meccanismi del secundum legem o del praeter legem. Un’impostazione di tale genere bloccherebbe la possibilità di evoluzioni (si spera non si tratti di involuzioni) normative organiche sufficientemente articolate. Ulteriore metodo di risoluzione delle antinomie è il criterio di specialità. L’invalidazione opera secondo un particolare meccanismo: la norma generale resta parzialmente invalidata, in caso di contrasto con una norma speciale afferente alla stessa materia. Per comodità di esegesi, la regola generale e l’eccezione sono verbalmente separati, almeno nella maggior parte dei casi, con la conseguenza che la norma generale afferma tutti gli A sono B. Essa norma deve armonizzarsi con la norma speciale gli A^ non sono B. Accorpare all’interno di una stessa statuizione regola generale ed eccezione implica difficoltà esegetiche, per la tortuosità dell’espressione che emerge, le quali vengono attenuate, attraverso questo processo di scissione delle norme da interpretare. Il processo si appesantirebbe indefinitamente se le eccezioni fossero multiple.
Va esaminato il principio di completezza, il quale si collega al principio aristotelico del terzo escluso: infatti, l’alternativa fra A e non A deve essere risolta in un senso o nell’altro, non potendosi ammettere logiche “sfocate” o paraconsistenti nell’ordinamento giuridico. Le norme a struttura completa non generano lacune (Gli A e solo essi sono B), in quanto l’esempio ricomprende che i non A non sono B. se, invece, si asserisce che gli A sono B, non si sta affermando alcunché sui Non-A e sorge la questione se per essi valga la disciplina B. Viene in considerazione il principio di esclusione, secondo cui i casi non previsti da una norma hanno la disciplina opposta a quella norma. Se si pone mente al principio del terzo escluso di matrice aristotelica, ove si riscontrino due giudizi di ugual soggetto e di ugual predicato, è necessario che uno di essi sia vero e l’altro necessariamente falso.
L’analogia opera per i casi che presentino affinità di ratio. Nel nostro ordinamento, tendenzialmente, prevale il principio di analogia, rispetto a quello di esclusione. L’analogia presuppone dei tratti da confrontare, per riportare il caso sotto un altro concetto. Vi sono lacune di specificazione, quando è obbligatoria o autorizzata una scelta fra diverse alternative, senza che la scelta sia indifferente, ma contestualmente senza che la norma identifichi il criterio di scelta. Vi saranno lacune istituzionali, per l’ipotesi, in cui si fissino finalità, ma non contestualmente le norme di attuazione, e lacune istituzionali di altra natura, quando manchino, per esempio, nella previsione dell’indizione di un’assemblea, le norme indicative di chi debba convocare l’assemblea stessa. In tal caso, lo strumento per colmare le lacune sarà l’analogia. L’incompletezza del sistema normativo può essere superata, selezionando il sistema normativo vigente e applicando canoni ermeneutici per risolvere i conflitti, o derogando ai punti fermi della logica classica. Applicando tale paradigma, la conoscenza “generale” subisce eccezioni. Si può avere una norma di validazione che, in circostanze ordinarie, svolge in modo egregio il suo ruolo. L’invalidazione avviene nel momento in cui venga in essere un evento eccezionale; si ritiene opportuno applicare l’eccezione in casi specifici e, quindi, la norma di validazione viene invalidata.
Esistono degli argomenti, attraverso cui l’uso della logica è stato contestato, per fondare il linguaggio giuridico. Il peccato originale di tale fondazione, si rinviene nel fatto che si rischierebbe di portare all’adesione a una concezione deduttivista del pensiero giuridico, ossia un uso esclusivo del modello deduttivo in ambito giuridico, con l’applicazione di ragionamenti che conducono dal generale al particolare. I processi ermeneutici delle leggi di validazione e invalidazione, per il tema che ci occupa, potrebbero essere affrontati con i problemi della deduzione e tanto basterebbe. Pertanto, la formalizzazione consentirebbe di dare una veste esteriore rigorosa all’impostazione della disposizione, ma l’inconveniente di adottare il deduttivismo potrebbe comportare l’omissione della valutazione dei problemi socio-politici, collegati a quei plessi normativi, in particolare quelli concernenti le norme validanti e invalidanti, quando già si è ragionato sull’importanza che i risvolti socio-politici hanno sull’individuazione della ragion d’essere di tali tipologie di norme.
Si sono esaminati i princìpi che mettono in luce la necessità delle norme di validazione e invalidazione. In cima a tutto questo si colloca l’esistenza che un ordinamento giuridico rispetti il principio di identità. La pluralità di norme deve poter essere inglobata e sussunta in un unico diritto oggettivo che esprima la peculiarità dell’ordinamento. La sintesi del molteplice consiste nel principio di identificazione dell’ordinamento. Attraverso l’esplicitazione di tale principio è possibile individuare i criteri, da cui si desume quali norme siano valide e quali no, sempre per il tramite del paradigma della validazione-invalidazione. Nell’ordinamento italiano, la Costituzione assume un ruolo prioritario e fanno parte del medesimo le norme della Carta e tutte quelle che si conformano a essa. Il potere fondante è una estrinsecazione del principio di identità, per cui A è A. Lo stesso principio di identificazione è una norma di validità. La coscienza sociale incorpora la regola del principio di identificazione ed è una norma effettivamente presente, che in tal senso differisce dalla teorizzazione di Kelsen, il quale ipostatizza che si debba osservare un certo ordinamento normativo, senza che si renda concreto il medesimo. L’ordinamento normativo cambia fisionomia e si inserisce nel tessuto sociale. Ove si prenda in considerazione l’art. 2043 del cod civ, si può inferire che per il diritto colui che cagiona il danno è obbligato a risarcirlo, ma sul piano sociologico, posto che il diritto si converte nell’organizzazione sociale, questa tende a far sì che l’individuo effettui il risarcimento del danno in modo spontaneo.
Il principio di identità di un ordinamento giuridico presuppone l’esistenza di una norma fondante, che sia immanente nel sistema, anche se non espressamente prevista. Per Kelsen si tratta di una norma primaria (Grundnorm), attingendo all’idea del Costituente originario, anche per evitare un regressus ad infinitum. Hart considera secondaria la norma fondante, che discrimina quali norme fanno parte del sistema e quali no. La norma fondante individua quali norme sono valide all’interno dell’ordinamento, attraverso una formulazione come “sono norme dell’ordinamento quelle di un certo tipo”. Le norme che derivano direttamente o indirettamente dal costituente originario sono valide per l’ordinamento, le altre norme no. Attraverso questa definizione attribuiamo carattere secondario alla norma costitutiva e utilizziamo una matrice kelseniana, integrandola con l’asserzione che solo le norme derivanti dal potere costituente sono valide. Il comando originario è l’unico punto, da cui promana l’ordinamento giuridico nella sua interezza. Secondo Carcaterra, è maggiormente conducente configurare la norma fondante come norma secondaria piuttosto che come norma primaria, in quanto in quest’ultimo modo si impone l’obbedienza alle norme derivanti dal costituente originario, considerando le medesime valide. Considerando la norma fondante come norma primaria, resta l’interrogativo se le disposizioni derivanti dal potere costituente compongano la totalità delle norme valide. Per esplicitarlo, occorrerà affermare che le norme diverse da quelle derivanti direttamente o indirettamente dal potere costituente non sono valide e a ciò si perviene, configurando la norma fondante come norma secondaria[4]. Il dualismo norma primaria – norma secondaria si modera nell’intensità, ove si attribuisca natura costitutiva a entrambe le categorie configurate. Questa asserzione si giustifica, in quanto anche a un primo esame le norme si considerano produttive di effetti. Una norma determina una modificazione del mondo (materiale e/o giuridico). Un problema che tentiamo di collocare a questo è comprendere la natura logica delle norme. Prima di Wittgenstein[5], i mezzi della logica proposizionale erano piuttosto limitati: infatti, si disponeva delle proposizioni descrittive (asserzioni), legate alla comunicazione di conoscenza, le proposizioni espressive, riguardanti gli stati d’animo, e le proposizioni prescrittive, che contengono comandi. Si è utilizzato quest’ultimo paradigma, per la normatività, generando il prescrittivismo o imperativismo. Le norme primarie, nella loro struttura elementare, hanno una componente prescrittiva. I vari concetti deontici possono essere illustrati per il medium del normativismo. Le norme secondarie, secondo la concezione che qui si richiama, non prevedono un obbligo e adattare a esse la formula prescrittiva presenta delle difficoltà. Per le norme definitorie si è tentato di affermare che esse contengono la prescrizione di intendere le medesime in un senso determinato; da ciò la prescrittività della disposizione. Si tratta, secondo una critica, di un ragionamento, che può essere esteso a tutte le prescrizioni, che “prescrivono” di essere intese in un certo modo, ma così si omette di considerare il caso, non infrequente, che la disposizione abbia una lettera ambigua e allora la prescrizione di interpretare quella norma in quel modo e non in un altro diventa fragile. Quanto alle norme abrogative, si è asserito che le medesime sono prescrittive nel senso che contengono l’ordine di non applicare più la norma abrogata, ordinando di considerare espunte dall’ordinamento certe altre norme. La norma abrogativa, di cui si vuole dare la definizione, è utilizzata all’interno della definizione stessa e si crea una tautologia.
Esistono altri tentativi, per ricondurre le norme secondarie alle norme primarie. Si può ragionare nel senso che anche dalle norme secondarie scaturiscono degli obblighi. Chi diviene parlamentare, secondo la procedura che occorre seguire per l’elezione a tale carica, ha degli obblighi, esercita la sua funzione nei confronti della Nazione, senza vincolo di mandato. Di conseguenza, la disciplina per eleggere un parlamentare sarebbe primaria, in quanto contenente, secondo la distinzione convenzionale fra norme primarie e secondarie, degli obblighi, ma così non si considera che gli obblighi provengono non da tale disciplina, ma da altre norme, che a essa si collegano, ma che restano pur sempre distinte. Un’altra ricostruzione mira a integrare norme primarie e secondarie (“frammenti di norme”)[6]. Detto altrimenti, un ordinamento composto da norme primarie e secondarie (sempre che sia necessaria questa distinzione) può essere convertito in un ordinamento, di eguale valenza normativa, in cui si eliminano le norme secondarie. Si può affermare come tale sintesi non sia sempre possibile . o “(norme di validità e norme di conformazione). Se poniamo, “Gli A hanno il permesso B”, si può costruire una norma primaria del tipo “sussistono degli obblighi a carico dei cittadini e delle autorità, per tutelare i beneficiari del permesso B”, ma non restano individuati i beneficiari del permesso “B”, ossia gli “A”. Ci si può domandare, ancora, quali siano le ragioni, per privilegiare un sistema in cui vi sia la fusione lessicale di norme primarie e norme secondarie, piuttosto che un sistema, in cui permanga la distinzione fra le prime e le seconde, che, secondo una prospettiva, è più aderente alla realtà della normazione positiva (Hart).
Nessuno dei generi proposizionali ricostruiti finora sembra adattarsi alle norme secondarie. Si è affermato precedentemente come possa considerarsi immanente sia nelle norme primarie, sia in quelle secondarie il carattere della costitutività. Al riguardo, le analisi linguistiche di Wittgenstein hanno portato all’elaborazione degli enunciati performativi e, in termini generali, a un allargamento netto, tendenzialmente indefinito, delle possibilità di espressione. I performativi sono enunciati con cui il loquente fa un’azione mentre lo dice: per es. “prendo in sposa”, mentre sono nell’atto in cui realizzo questo fatto. I performativi possono essere invalidi, per ragioni affini alle cause di invalidità dei negozi giuridici (per es. mancanza delle necessarie qualità nell’agente, mancanza dell’oggetto, vizi della volontà), error in procedendo. La forma del performativo può essere esplicita o implicita. Ogni discorso ha un atto proposizionale, ma occorre che vi sia anche la chiarificazione del pensiero.
Paradigmi come l’”io penso” kantiano o il “cogito” cartesiano rendono immanente l’atto di pensiero nella descrizione, che si attua con i performativi espliciti, ossia “ti prego di chiudere la porta”, piuttosto che “chiudi la porta”.
Vi possono essere performativi descrittivi, esortativi, prescrittivi, promissivi e costitutivi (questi ultimi assumono la forma di “dico che…, nel senso di “dispongo che…). Pertanto, i performativi costitutivi formano una categoria a se stante, in quanto hanno l’obiettivo di realizzare e, sussistendo il contesto, realizzano il disposto, che consiste nella prosecuzione della premessa “prescrivo, dispongo che…”. Nel linguaggio comune e nel linguaggio giuridico ci troviamo spesso in presenza di performativi impliciti. Si usa il modo indicativo, con valore costitutivo.
Le norme costitutive determinano determinati effetti giuridici, ma al di sopra di esse di colloca l’ordinamento: “con la presente norma si dispone che l’ordinamento giuridico contenga la disposizione che…”. In questa maniera si comprende come anche nelle norme costitutive vi sia una dimensione di prescrittività.
Occorre esaminare un altro aspetto, ossia che le norme giuridiche, una volta emanate, secondo una possibile ricostruzione, non coincidono, o coincidono solo parzialmente, con la effettiva volontà dei legislatori storici (il concetto di “intenzione del Legislatore”, adoperato, per es., nell’art 12 Preleggi al codice civile viene fortemente ridimensionato), in quanto la norma ha una logica oggettiva, che supera la volontà di chi crea la norma, appare logicamente anomalo che chi norma stabilisca regole nei confronti di se stesso. Inoltre, gli atti normativi sopravvivono alla volontà e all’esistenza del normatore, con la conseguenza che si crea un’ulteriore, insanabile contraddizione con l’osservazione che l’atto di normazione coincida con la volontà dell’autore delle norme, in quanto tale atto sopravvive a chi lo ha creato talvolta per lunghissimi periodi (secoli). Pertanto, l’insieme delle norme viene concepito come realtà trascendente, rispetto ai destinatari e ai legislatori. Il diritto oggettivo preesiste a ogni atto di normazione. Fra l’autorità normativa e la comunità dei consociati si innesta il sistema giuridico, con la conseguenza che l’azione diretta sarà sul contenuto del sistema, il quale assume il ruolo di prodotto culturale ed è indipendente, sul piano logico semantico, dall’autore del medesimo, nel senso che il senso del sistema viene intercettato dall’interprete in consonanza con i tempi. Il diritto viene descritto in una dimensione culturale, con riferimenti al presente, passato e futuro, così come si descrive che uno dei punti importanti del pensiero di Nietzsche è la volontà di potenza e la fedeltà alla terra. Il prodotto culturale “sistema giuridico” si avvicina ai sistemi morali e alle dottrine politiche e, in ogni caso, per quanto già affermato, sorpassa il suo autore iniziale, adoperando un linguaggio sostanzialmente e contenutisticamente diverso, diverso da quelle che erano le intenzioni del suo Autore. Si può adoperare il paradigma della ricerca dell’autore implicito, che accomuna lo studio del sistema giuridico allo studio di altre dimensioni culturali, come l’arte, la musica, la letteratura. L’autonomia fra autore e testo resta un caposaldo dell’ermeneutica contemporanea. Un testo scritto non è l’esplicitazione dei convincimenti soggettivi dell’autore del medesimo
[1]Cfr CARCATERRA Corso di filosofia del diritto, cit, pagg. 147 e sgg. Le norme di validità talvolta disciplinano norme, talaltra atti normativi, intesi a produrre norme. Le norme in questione sono metanorme, , avendo a oggetto altre norme. La nozione di validità utilizzata in questo ambito comprende anche l’efficacia e la vigenza, la invalidità comprende la nullità, l’annullabilità e l’inefficacia..
[2]Cfr. GUASTINI, Filosofia del diritto positivo, Lezioni, a cura di Velluzzi, Giappichelli, 2017, pag. 210
[3]Cfr per es. Cass. Sentenza 15-24 gennaio 1969, secondo cui “Come chiaramente risulta dalle espressioni adoperate, infatti, l’ultimo comma dell’art. 24 e’ disposizione rivolta al legislatore, cui prescrive il raggiungimento di un certo fine e percio’ l’adozione di discipline conformi al principio affermato e idonee a renderlo effettivamente operante. E poiche’ tale natura del principio enunciato nell’art. 24 non osta all’esercizio del sindacato di legittimita’ costituzionale, di competenza di questa Corte, deriva da quanto osservato che, ove la nuova disciplina legislativa fosse in contrasto con il principio stesso, dovrebb’essere dichiarata costituzionalmente illegittima. Ma una siffatta evenienza non ricorre nella specie”.
[4]Cfr CARCATERRA, Corso di filosifia del diritto cit., pag. 170-174
[5]Cfr WITTGENSTEIN Tractatus logico-philosophicus, traduzione di Gian Carlo Maria Colombo, Roma-Milano, Fratelli Bocca, 1954.
[6]Cfr KELSEN,Dottrina pura del diritto, 2000, passim; per questo Autore, l’illecito non viola la norma primaria , ma la soddisfa. Le norme che non prevedono sanzioni non soddisfano il carattere della coattività, sono dei frammenti di norme primarie, che compongono l’antecedente
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