Occorre penetrare l’essenza del diritto, per comprendere e la ragione dell’estrinsecazione delle norme, di cui esso si compone. Per Cotta, il principio costitutivo del diritto, quale forma coesistenziale, è la regola[1]. La regola è presente anche in altre forme coesistenziali (si pensi al rapporto amicale, familiare o politico), ma nel rapporto giuridico essa è presente nella suo concetto più puro, esteso in tutte le direzioni. Il rapporto interpersonale assume la massima estensione e stabilità. Occorre esplicitare la distinzione tra giuridicità generica (esistono delle regole in altre forme della coesistenza, ma si rimane su un’indole prevalentemente formale, benché si ripercuota sull’autenticità della relazione) e la giuridicità specifica del diritto in sé. Quando di esamini la giuridicità in sé del diritto, la sua funzione propria è di realizzare la legalità universale, basata sul riconoscimento che il primo, elementare elemento di struttura del diritto è l’universalità degli uomini. L’analisi strutturale del diritto è confermata sia del sentire comune, sia della riflessione della filosofia classica del diritto. Il diritto ha una propria funzione, vale a dire di attuare la legalità universale secondo giustizia, superando la realtà del diritto degli Stati. L’analisi cottiana prende così le mosse dalla regola ma approda alla giustizia.
La struttura logica di un testo, che si basi su formulazioni prescrittive, ne marca la differenza, rispetto alle proposizioni di verità. La struttura di una norma aderisce alla formulazione prescrittiva sanzionabile. Il diritto, pertanto, è prescrizione sanzionatoria, emanata dall’autorità legislativa riconosciuta. Possiamo aderire a una concezione teleologica del diritto, in cui scopo del medesimo, sempre in adesione, sul piano morfologico, al modello prescrittivo (vedremo più avanti come si possa superare il paradigma prescrittivo) è stabilire un sistema di condotta per regolare in modo ordinato i comportamenti dei consociati.
La conoscenza dell’oggetto-diritto e del soggetto che vive il diritto (la connessione è fortemente intima, tanto che, accanto al brocardo ubi societas ibi ius, si potrebbe costruire un brocardo ulteriore di questo tenore: ubi homo ibi ius) consentono di penetrare meglio il senso del diritto, implicandosi a vicenda. L’ontologia del diritto si innesta nell’ontologia dell’uomo. La verità del diritto, o una possibile ricostruzione di essa, può elaborarsi se si indaga sull’essenza dell’uomo, in connessione con il modo attraverso cui questi può esporre un discorso esterno per manifestare la sua volontà, nel senso di legiferare. E’ in tal senso auspicabile un progressivo avvicinamento fra l’ideale della giustizia e il diritto empirico e sembrano funzionali a favorire tale avvicinamento l’invasione di clausole extragiuridiche (equità, buona fede) che talvolta vengono utilizzate come complemento della sola mera applicazione delle norme giuridiche in senso stretto. In realtà, questo avvicinamento in passato si è verificato ed è massimo nel giusnaturalismo, in cui vi è continuità fra sentire comune e pensiero riflesso. Il diritto, nella “giurisprudenza” dei romanisti, viene esposto e studiato in rapporto con l’intimo ordine della giustizia. Lo storicismo (sec. XIX) metabolizza un anti-naturalismo e determina un’emancipazione dal diritto naturale del diritto empirico e positivo, dopo che i fermenti illuministici hanno favorito un paradigma opposto. Accanto allo storicismo, il positivismo giuridico favorisce un restringimento della considerazione del diritto in senso proprio solo al diritto positivo, reputando meramente ideale il diritto naturale.
L’emancipazione dal giusnaturalismo deriva anche dalla complessificazione della società e dall’intrecciarsi di più culture, (si anticipa la globalizzazione), con norme sempre più tecniche e anche con il rischio della tecnocrazia, presenti in nuce nelle teorizzazioni sulla lex mercatoria di Francesco Galgano[2], che diventa legge del tecnocrate (il rischio è che diventi anche legge del più forte). La valenza coercitiva del diritto deriva dal riconoscimento di un’autorità, che ha il potere di creare norme..
In occasione dell’assolutismo monarchico sei-settecentesco, la legislazione statale prevale sul diritto naturale. Con l’affermazione dello Stato sovrano, si acquisisce un monopolio statale del diritto. Hegel[3] riduce il diritto alla dimensione statale, in quanto solo nello Stato si rende configurabile la “universalità e determinatezza” della legge. Il diritto della famiglia e della società sono incorporati in quello dello Stato. E allora nasce la divaricazione, di matrice kantiana, fra l’indagine sul diritto positivo, immanente in un ordinamento giuridico posto, e la teoria generale del diritto, che, pur facendo riferimento ai diritti positivi, si occupa di definire cosa è il diritto.
Si può concepire un discorso astratto sul giuridico, ma possiamo e dobbiamo cogliere la realtà giuridica nelle stesse proposizioni in cui la medesima si estrinseca. Il diritto risponde alla domanda: “quid iuris”?, con la conseguenza che si dà il fatto che gli A sono B o che se A, allora B (le due strutture sono identiche e, di là dalla complicazione che si può riscontrare nella ricostruzione del tessuto normativo, attraverso un’opera di sintesi e semplificazione si perviene e a tali strutture). Se sottraggo un bene altrui commetto furto (se A allora B, gli A sono B): A è una condotta o un fatto (sottrazione del bene altrui) e B è la fattispecie giuridica (commissione del furto): ne discende un’implicazione materiale o inferenza logica, ossia si produce una conclusione a partire da delle premesse.
La giuridicità di una situazione deriva dalla circostanza che una norma contiene un fatto istituzionale che la presuppone. La struttura di una norma contempla la fattispecie legale (A), la previsione dell’oggetto da disciplinare; vi è poi la qualificazione o conseguenza della qualificazione (B); il nesso tra A e B rappresenta la causalità normativa.[4]
Ci proponiamo in questa indagine di riflettere, in particolare, sulla categoria delle norme di invalidazione e validazione. Il carattere dell’invalidazione e della validazione possono coesistere e avremo allora delle norme miste, in cui convivono validazione e invalidazione. Una norma, in altri termini, potrà reputare valido un certo comportamento o potrà circoscrivere la sfera di competenza di una certa figura organizzatoria, con la conseguenza che le norme emanate da tale figura entro la propria sfera di competenza saranno valide, mentre quelle che oltrepassano tale delimitazione dovranno considerarsi invalide. Questa è una delle ipotesi in cui validazione e invalidazione coesistono nel medesimo testo normativo e l’interprete deve essere attento a rilevare i profili di invalidazione e di validazione, contemplati dalla stessa norma.
Non è detto che la negazione di invalidità (o validità) sia esplicita, nel senso che può essere compito dell’interprete individuare il carattere implicito di una norma di invalidità (ciò vale anche per le norme di validazione). Quanto affermato fa comprendere come, in sede di ermeneusi delle norme, l’argomento letterale non sia sufficiente per comprendere il senso da ricavare dalle disposizioni o statuizioni legislative[5]. L’interpretazione è uno stato di dubbio: occorre, pertanto, superare il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, Questo criterio non è certamente applicabile, quando il significato letterale dell’espressione legislativa sia più o meno carico di ambiguità, ma il supporto degli altri criteri ermeneutici vale anche quando apparentemente il significato letterale non sia ambiguo. Questa necessità di un’armonizzazione dei criteri ermeneutici si pone in primo luogo proprio per le norme di validazione e di invalidazione, perché il senso della validazione o dell’invalidazione può essere non palese e, quindi, facilmente sfuggire alle maglie dell’esegesi letterale.
Occorre, adesso, riflettere, sulla distinzione fra norme primarie e secondarie, presente nel pensiero di vari filosofi del diritto, sia pure con accezioni diverse. Le prime (norme primarie) sono quelle che prevedono come qualificazione o conseguenza il sorgere di un obbligo (di pagare una certa somma di denaro), a carico di uno o più consociati, mentre norme secondarie sono quelle che stabiliscono effetti giuridici differenti dall’obbligo (la qualificazione di un bene come mobile o immobile). Esistono anche altri criteri di teoria generale, per elaborare e giustificare la distinzione fra norme primarie e norme secondarie: infatti, le prime sono, su queste diverse basi, quelle che riguardano la generalità dei cittadini (divieto di rapina), norme secondarie sono le norme, in base alle quali l’Autorità giudiziaria deve intervenire, per irrogare la sanzione (in questo caso, nei confronti di coloro che hanno compiuto la rapina). Esiste un’altra dottrina, che annovera fra le norme secondarie quelle esplicative, permissive e abrogative[6].
Hart ha elaborato la distinzione fra norme primarie e secondarie nei termini, in cui stiamo riferendo: infatti, per tale filosofo, le norme primarie impongono obblighi, che gli uomini possono compiere o non compiere, le norme secondarie attribuiscono poteri, o determinano le condizioni di validità delle norme primarie (e qui emerge di nuovo la categoria delle norme di validazione). Le norme secondarie, pertanto, in Hart, possono essere definite solo in negativo, comportano conseguenze diverse dall’imposizione di obblighi, mentre permane la nozione di norme primarie come norme racchiudenti degli obblighi. La suddetta distinzione fra norme primarie e secondarie è una petizione teorica, che ha indubbiamente influenzato la filosofia del fenomeno giuridico, ma parte da opzioni interpretative dell’Autore (o degli Autori), che la formulano e non sempre ha un referente empirico univoco. Pertanto, residuano spazi di nebulosità. Si sono sollevati dei dubbi sulla distinzione, per come impostata da Hart, in quanto, in una prima accezione, le norme primarie, prevedendo un obbligo positivo, o l’astensione da un’azione, tendono ad andare contro la volontà del soggetto che è destinatario delle norme medesime, mentre le norme secondarie sono quelle che consentono una maggiore apertura, per la possibilità di svolgere ciò che si intende realizzare, in quanto vengono attribuiti dei poteri. Lo stesso Hart afferma che le norme primarie regolano la condotta, mentre le norme secondarie sono norme su norme (metanorme). E’ dubbia la compatibilità di questa distinzione con la precedente, in quanto una norma primaria impositiva di un obbligo di applicare altra norma può considerarsi al contempo norma primaria e norma secondaria, il che fa dubitare rispetto all’apparato giusfilosofico dell’indagine, a meno che si ammetta che possono coesistere plessi normativi che racchiudano contestualmente norme primarie e secondarie (il che non è inverosimile). Lo stesso Hart asserisce che le norme secondarie emergono nel passaggio da una società semplice a una più evoluta, ma afferma contestualmente che le norme primarie sono di per sé autosufficienti, in quanto è ipotizzabile un ordine sociale retto solo da norme primarie, anche se non si raggiungerà il massimo dell’efficienza, utilizzando solo questa categoria di norme. Nel contempo, l’Autore afferma che le norme secondarie sono accessorie alle norme primarie.[7] L’emersione del fenomeno giuridico nelle società umane è indagatoin modo non esaustivo, attraverso la sopra richiamata dicotomia norme primarie – norme secondarie e non è detto che tale modello ricostruttivo valga per ogni contesto sociale. Vi è poi una ipotesi, che avremo modo di analizzare, la c.d. norma di riconoscimento, che si trova in una posizione di preminenza rispetto alle norme primarie e giuridicizza le medesime. Si aggiunga che i modelli delle norme sono determinati dalle proposizioni prescrittive. Questo può apparire stridente con l’affermazione secondo cui le norme secondarie non prevedono obblighi, ma le risorse disponibili, in merito alla tipologie proposizionali, almeno fino a una determinata epoca storica, (v. infra) consentono di attingere solo al prescrittivismo.
Nella terminologia di Hart, norma di riconoscimento è quella tipologia di norma secondaria, che consente di enucleare i criteri per individuare la validità o meno delle norme primarie. Rientriamo, sia pur con altro lessico, nell’ambito dell’oggetto principale della nostra indagine. La presenza di norme di validazione rende di grado maggiormente evoluto l’ordinamento. La validazione viene a livello di diritto positivo svolta, attraverso l’indicazione dei requisiti, di cui una disposizione deve essere provvista, per poter contenere una norma valida. La produzione normativa può essere regolata da disposizioni che si occupano del mutamento delle norme all’interno del sistema giuridico: in questa ipotesi, la norma di riconoscimento dovrà indicare le modalità attraverso cui le norme di mutamento sono operative, impostando una gerarchia delle fonti del diritto, nelle ipotesi in cui queste costituiscano una pluralità. La norma di riconoscimento (validazione) è immanente nell’ordinamento, ma non è esplicitata e deve essere inferita dall’attività dell’autorità giurisdizionale. Nonostante Hart affermi che la norma di riconoscimento (validazione) attribuisca validità solo alle norme primarie, il ragionamento resta monco: occorre pensare che essa validi anche le norme secondarie.
Una norma di validazione può imporre limiti alle norme ricavabili dalle fonti, come nel caso di una Costituzione rigida e fungere da norma sull’interpretazione, ossia fornire i criteri, attraverso cui l’esegeta può ricavare norme valide dalle fonti. Hart omette questi profili (o quantomeno tratta in modo marginale il primo e omette del tutto il secondo), con la conseguenza che la norma di validazione (riconoscimento) teorizzata dal filosofo è norma che si occupa prevalentemente di fonti cui attribuire il crisma della validità, piuttosto che di norme, ricavabili dall’esegesi delle fonti.
Riguardo alla esatta natura delle norme di riconoscimento, si può pensare che le medesime siano norme che impongono obblighi (ma in tal caso si crea una contraddizione logica, perché Hart annovera la norma di riconoscimento fra le norme secondarie, mentre sono quelle primarie a essere produttive di obblighi), anche perché l’esistenza della norma di riconoscimento è esteriormente percepita solo sul piano sociale, per quanto detto sopra (non vi è in altri termini una sua esteriorizzazione in termini giuridici) e, pertanto, essa può identificarsi solo con una norma (sottintesa) che impone obblighi, rendendo il diritto normativo. Peraltro, emerge come sia schizofrenico nel pensiero di Hart inserire siffatta norma fra le norme secondarie e poi concludere che essa abbia la caratterizzazione delle norme primarie, con l’ulteriore considerazione che la medesima non sia esteriormente percepibile. Si dovrebbe, forse, per esigenze di coerenza, attribuire qualificazione di norma primaria alla norma di riconoscimento. Manca un criterio o una griglia di criteri, attraverso cui individuare le norme valide, che impongono un’integrazione della norma di riconoscimento, eventualmente con fonti a essa esterne. Si può concepire la norma di riconoscimento come contenente obblighi e regole di validità. Si contemplano i requisiti che una norma deve soddisfare per potersi considerare valida e si impone l’obbligo del rispetto di quella norma, ove ricorrano i suddetti requisiti. Residua, talvolta, l’obbligo per il Giudice di applicare diritto non valido (norme incostituzionali, su cui la Consulta non si sia pronunziata) o di ricorrere a parametri metagiuridici, come il giudizio di equità (che, peraltro, è solo parzialmente metagiuridico, potendosi intendere il medesimo come tecnica di auto integrazione del regolamento negoziale e delle parti)
Si potrebbe riflettere sul ruolo della norma di riconoscimento e considerarla come norma di chiusura, in quanto contemplante i princìpi che discriminano fra norme valide e non valide, con la conseguenza che le Corti dovranno applicare solo le norme valide, ma in tal modo si chiude del tutto la possibilità di attingere a realtà extra-giuridiche (ma ciò è totalmente vero?). Si può attribuire alla norma di riconoscimento la natura di norma attributiva di potere. Si resta in superficie. Occorre domandarsi quale tipo di potere sarebbe racchiuso nella norma di riconoscimento. Potrebbe trattarsi del potere di dichiarare il diritto valido, ma la giurisprudenza applica e non dichiara il diritto valido. Se si concepisse in questi termini la norma di riconoscimento, si creerebbe una frattura insanabile con il principio di separazione dei poteri, attribuendo al potere giudiziario ciò che riguarda la sfera di competenza del Legislativo. A ciò si può, in parte, porre rimedio, se ci si ferma al caso concreto deciso dalla Corte, per affermare che attraverso la norma di riconoscimento si attribuisce alla giurisprudenza il potere di applicare le norme valide, per decidere il caso concreto, ma così si sovrappone una norma di giudizio alla norma di riconoscimento. Residua il dubbio se la norma di riconoscimento sia oggettivamente distinguibile dalle altre norme, qualora la produzione delle norme sia attribuita a organi diversi dalle Corti (come richiede il principio della separazione dei poteri).
Sotto altra angolazione, la norma di riconoscimento potrebbe essere considerata come norma che impone obblighi (e accostata alle norme primarie nella dicotomia di Hart) e contestualmente attribuisce poteri. Le fonti del diritto contenenti norme valide sono vincolanti e il diritto medesimo viene identificato dalle Corti mediante atti autoritativi. Occorre, peraltro, evitare il rischio di sovrapposizioni fra norme di riconoscimento e norme di giudizio. Si può concepire la norma di riconoscimento come quella contenente i criteri per qualificare una norma come valida o meno. L’intersecarsi fra norma di riconoscimento e norma di mutamento è il punto debole di questa costruzione: i poteri di produzione normativa, appartenenti alle norme di mutamento, e l’indicazione dei criteri di validità, si intersecano in modo non armonico con il rischio di ridondanze, ai fini di una proficua esistenza di entrambe le categorie (norme di riconoscimento e norme di mutamento)
La ridondanza può, forse, superarsi attribuendo alle norme di riconoscimento la funzione di fornire il crisma di validità esclusivamente alle norme di produzione giuridica apicali. La Costituzione in tal modo, proprio in quanto diritto apicale, diviene diritto valido, ma in tal caso nasce un problema di ridondanza con la stessa: infatti, se i Giudici accettano la Costituzione come vincolante, quale ruolo residuo va attribuito alla norma di riconoscimento? Sarebbe una norma fondante non esteriorizzata.
Un modo per superare i punti contraddittori nell’indagine finora svolta è opinare che, negli ordinamenti evoluti, il parametro della validità delle norme non sia svolto dalla norma di riconoscimento, ma dalle norme di mutamento, che svolgono l’attività della produzione giuridica. La norma di riconoscimento racchiuderà un insieme di criteri di applicabilità o doveri da concepire in senso non rigido. Essa conterrà l’indicazione gerarchica delle fonti del diritto e i criteri ermeneutici da preferire e sarà frutto di un’accettazione politica. Questi argomenti non persuadono esaustivamente. Ove si dissoci la questione della validazione dalla norma di riconoscimento e la si attribuisca alle norme di mutamento, che riguardano la produzione giuridica, perché insistere nel cristallizzare la terminologia adoperata da Hart, volendo in ogni caso operare un salvataggio della norma in parola, la quale può considerarsi pleonastica? Forse, la funzione di validazione negli ordinamenti evoluti, in cui è applicato il principio della separazione dei poteri (sia pure con interferenze funzionali) passa alle norme di mutamento e la norma di riconoscimento perde una sua posizione speculativa. Questa impostazione, sulla quale in questa sede si esprimono delle riserve, considera, in tale operazione di “salvataggio”, la norma di riconoscimento come disposizione che riassume la “ideologia giuridica” delle Corti (l’espressione è di Pino, Autore citato in nota 7; ma l’espressione “ideologia giuridica delle Corti” non è forse un ossimoro, in quanto l’interpretazione della legge deve prescindere da opzioni politiche o, in ogni caso, deve metterle da parte ?).
Pertanto, volendo conservare alla medesima norma un ruolo, la norma di riconoscimento indica le categorie del gioco, nell’ambito del ragionamento giuridico, ed esse vengono accettate dagli operatori ed eventualmente sintetizzate con quelle che sono le proprie opzioni in materia, pur rimanendosi nell’ambito dell’ortodossia.
Per Hart, come già rilevato, le norme primarie vanno integrate con quelle secondarie: le prime impongono obblighi, le seconde conferiscono poteri[8]. Le due tipologie di norme svolgono una funzione diversa. Le norme primarie impongono ai soggetti di compiere o di astenersi dal compiere un determinato comportamento, con la caratterizzazione che le norme medesime non assecondano, almeno tendenzialmente, le inclinazioni dell’interprete. Le norme secondarie attribuiscono dei poteri e facilitano la realizzazione di ciò che si intende effettuare. La tesi di Hart implica che le norme di obbligazione, di qualificazione ed entificazione stanno in piedi sul fondamento delle norme primarie. Tuttavia lo stesso Hart non fornisce una precisazione esaustiva del concetto di norme secondarie. E’ assai importante, peraltro, l’osservazione dello Studioso, secondo cui il passaggio da un assetto in cui siano presenti solo norme primarie (ordinamento primitivo), impositive di obblighi, a un sistema in cui siano presenti anche norme secondarie, corrisponde al passaggio da una società basata sulla consuetudine (nasce il dubbio se le norme primarie siano di matrice consuetudinaria) a un assetto in cui si sono create delle norme riflesse, le secondarie, con un apparato burocratico e legislativo e giudiziario, che garantisca un livello minimo di certezza del diritto. Le norme secondarie consentono di creare un’organizzazione, laddove prima vi era un sistema primitivo. Ciò è in assonanza con la teoria di Hayek, il quale configura le norme di comportamento, che possono preesistere in una società di matrice primitiva. Il passaggio successivo è la costruzione di un ordine, in cui assumono rilievo le norme di organizzazione, per implementare l’ordine costruito (peraltro, sulle differenza fra le analisi di Hart e Hayek cfr. nota 6)
[1]Cfr. COTTA Il diritto nell’esistenza, Linee di ontofenomenologia giuridica,seconda edizione, Giuffré, Milano, 1991, pag 16, pag.21, pag. 49, pag. 66, pag. 69 pagg. 76 e ss, pagg. 90-92, capitolo V “Della struttura ontologica della giuridicità”, pagg. 169 e ss. pag. 217, passim. L’Autore individua il fondamento del diritto nell’uomo e la regola giuridica si conforma a giustizia e per questa ragione precipua occorre riconoscere una eguaglianza “ontologica” a tutti gli uomini, a prescindere dalle differenze “ontiche”, dovute a specifiche conoscenze o a condizioni psico-fisiche. La relazione coesistenziale è sostrato di base del fenomeno giuridico e di altre modalità di vita. Essa è elemento costitutivo dell’autocoscienza del soggetto. La natura umana è portata necessariamente a realizzare vari gradi di accoglienza reciproca, come l’amicizia o la politica, che sono forme coesistenziali particolari ed esclusive e la carità e il diritto, che hanno una valenza “diffusa”. Il diritto è categoria integrativo includente, nel contesto di una metafisica dell’essere (cfr. https://dadun.unav.edu/bitstream/10171/19039/1/32473749.pdf, ARFGIROFFI, Il diritto nell’esistenza di Sergio Cotta e la tarda modernità secondo Gunther Anders). Cotta si avvicina al pensiero di Rosmini, nel senso che la persona è protagonista dell’intera trama della giuridicità. La funzione del diritto come forma integrativo includente è quella di favorire la cooperazione, in quanto l’uomo si deve aggregare all’interno di una comunità. L’uomo supera la propria onticità fattuale, in quanto la sua posizione è diversa da quella del vivente non umano, necessitato deterministicamente, non avendo questo capacità speculative; l’uomo può partecipare della libertà come partecipazione creatrice.
A differenza della politica, categoria coesistenziale integrativa, ma escludente, il diritto è aperto e includente, ossia tende al riconoscimento e all’accoglienza del’altro. Nel IX capitolo, relativo alla “funzione del diritto”, Cotta si rivolge alla polemica contro il giusnaturalismo, che risale a Hume e all’elaborazione della critica al medesimo, fondantesi sulla c.d.”fallacia naturalistica”. Per Cotta il diritto naturale è coesistenziale e occorre superare un diritto politico e statuale.
[2]Cfr. GALGANO Lex mercatoria,il Mulino, 2016, in cui l’Autore studia il diritto, creato dalla societas mercatorum, avente portata universalizzante. Il ceto imprenditoriale si sostituisce al ceto dei mercanti e regge, di là dal mercato nazionale, il diritto sovranazionale. Per approfondimenti, cfr. MARRELLA,La nuova lex mercatoria, Princìpi unidroit e usi dei contratti nel commercio internazionale, 2002 in Trattato pubblico di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, volume trentesimo, disponibile integralmente al link https://core.ac.uk/download/pdf/41104896.pdf
[3]Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, pag. 238 Lo Stato è la realtà dell’idea etica; lo spirito etico, in quanto volontà manifesta, evidente a se stessa, sostanziale, che si pensa e si conosce, e compie ciò che sa e in quanto lo sa. Nell’éthos, esso [lo Stato] ha la sua esistenza immediata, e nell’autocoscienza del singolo, nella conoscenza e attività del medesimo, ha la sua esistenza mediata, cosí come questa [l’autocoscienza] mediante il principio, ha nello Stato, in quanto sua essenza, fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. […]
Lo Stato, in quanto è la realtà della volontà sostanziale, che esso ha nell’autocoscienza particolare, elevata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è fine a se stessa, è un assoluto, immoto, nel quale la libertà giunge al suo diritto supremo, cosí come questo scopo finale ha il piú alto diritto di fronte ai singoli, il cui dovere supremo è di essere componenti dello Stato.
Lo Stato è la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile; la medesima unità, che è nella famiglia come sentimento dell’amore, è l’essenza dello Stato; la quale però, mediante il secondo principio del volere che sa ed è attivo da sé, riceve insieme la forma di universalità saputa. Questa, come le sue determinazioni che si svolgono nel sapere, ha per contenuto e scopo assoluto la soggettività che sa; cioè vuole per sé questa razionalità.
Lo Stato è 1) dapprima la sua formazione interna, come svolgimento che si riferisce a sé, il diritto interno degli Stati o la costituzione. È poi 2) individuo particolare, e quindi in relazione con altri individui particolari, il che dà luogo al diritto esterno degli Stati. Ma 3) questi spiriti particolari sono solo momenti nello svolgimento dell’idea universale dello spirito nella sua realtà; e questa è la storia del mondo, o storia universale […].
[4]Cfr CARCATERRA, Corso di filosofia del diritto, Bulzoni, 2008, pagg 113 e seguenti, il quale ha modo di precisare come quelle adesso delineate siano le strutture elementari delle norme giuridiche, e come ne siano enucleabili altre, più articolate, riconducibili, peraltro, a negazioni, congiunzioni, disgiunzioni della struttura fondamentale; per es. gli A non sono B; gli A, che siano A^ sono B; gli A sono B e i non A non sono B, il che è come asserire che gli A sono B e i B sono A; gli A, e solo essi, sono B. Vi sono disposizioni a struttura incompleta, in cui si tace delle ipotesi non comprese nella struttura A, senza includerli nella disciplina B, ma senza escluderli da essa. Esistono norme a struttura completa , in cui vi è una parte inclusiva e l’altra esclusiva. Un esempio può essere rappresentato dalla disposizione che stabilisce l’età a 18 anni (art 2 cod. civ.); in tale disposizione non vi sono lacune dell’ordinamento da colmare.
[5]Cfr. CARCATERRA la logica nella scienza giuridica, Estratto da Presupposti e strumenti della scienza giuridica, Giappichelli, 2015, pagg. 79 e sgg e passim
[6]Cfr. DEL VECCHIO, Lezioni di filosofia del diritto, Milano, 1950, pagg. 221-223
[7]Cfr. PINO, Norme primarie, norme secondarie, norme di riconoscimento, in MAZZARESE (a cura di) Teoria generale del diritto e filosofia analitica. Studi in ricorso di Giacomo Gavazzi,Giappichelli, Torino, 2012, , passim, rinvenibile in http://www1.unipa.it/gpino/Pino,%20Norme%20primarie,%20secondarie,%20di%20riconoscimento.pdf, in cui si legge: Giacomo Gavazzi pubblica nel 1967 il suo libro su Norme primarie e secondarie, in cui sottopone a rigoroso scrutinio, con stile analitico, la varietà degli usi che la distinzione tra norme primarie e secondarie ha ricevuto nella teoria generale del diritto dalla seconda metà dell’800 in poi. Un capitolo del libro (il secondo) è ovviamente dedicato al modo in cui la distinzione figura nel Concetto di diritto di Herbert Hart, opera apparsa sei anni prima e già notevolmente influente nel dibattito giusfilosofico. (…) Gavazzi ha efficacemente notato che la trattazione hartiana della distinzione tra norme primarie e secondarie soffre di alcune rilevanti ambiguità. Hart infatti, nota Gavazzi, distingue tra norme primarie e secondarie in non meno di tre modi diversi, e potenzialmente incompatibili. In primo luogo, Hart traccia la distinzione in termini funzionalistici, o teleologici: i due tipi di norme svolgono una funzione sociale diversa. Le norme primarie impongono ai soggetti di compiere (o, più spesso, di astenersi dal compiere) un comportamento che essi probabilmente tenderebbero a non compiere (o, rispettivamente, a compiere); in tal senso, le norme primarie vanno contro i desideri dei soggetti, ed è esattamente questa la loro funzione. Le norme secondarie, invece, sono norme che permettono ai soggetti di realizzare più efficacemente ciò che essi desiderano fare (approntano delle “facilitazioni” allo svolgimento delle attività dei soggetti), tramite l’attribuzione di poteri. Questo modo di distinguere tra norme primarie e secondarie è chiaramente calibrato sul modo in cui le norme si indirizzano ai soggetti privati: le une imponendo loro obblighi e divieti, le altre conferendo loro poteri (variamente modellati sullo schema dell’autonomia privata). In secondo luogo, Hart afferma che le norme primarie sono norme che regolano la condotta, mentre le norme secondarie sono norme che vertono sulle norme primarie (sono metanorme). Qui la differenza tra i due tipi di norme non è più funzionalistica, ma contenutistica. Inoltre, questa distinzione è potenzialmente incompatibile con la precedente: si pensi al caso di una norma che impone un obbligo di applicare un’altra norma: essa sarebbe norma primaria nel primo senso (perché impone un obbligo), e norma secondaria nel secondo senso (perché verte su un’altra norma). Infine, Hart imposta talvolta la distinzione tra norme primarie e secondarie anche su un piano cronologico, e talvolta anche assiologico. Nel primo senso, Hart afferma che le norme secondarie emergono nel passaggio da una società “semplice” ad una società più evoluta e complessa, per rimediare ai difetti che affliggono un corpus di sole norme primarie. Nel secondo senso, Hart afferma che le norme primarie sono in teoria autosufficienti (è possibile, anche se non molto efficiente, un ordine sociale retto da sole norme primarie), mentre le norme secondarie esistono solo perché accessorie alle norme primarie. Anche questi due ulteriori criteri di distinzione non sono esenti da problemi: il primo perché finisce con l’offrire un quadro storicoantropologico eccessivamente semplificato dell’emersione del fenomeno giuridico nelle società umane; il secondo perché vi è almeno un senso in cui un tipo di norma secondaria, la norma di riconoscimento, ha decisamente un tipo di priorità rispetto alle norme primarie: e cioè che, senza una norma di riconoscimento, non sarebbe possibile definire le norme primarie come norme giuridiche.(pag. 2)
[8]Cfr. HART, Il concetto di diritto,Einaudi, 2002, passim; HAYEK, The principles of a liberal social order, in “Il Politico”, trad. it con titolo Il liberalismo, in Friedich A Hayek,, in “Biblioteca della libertà”, IV, 1967, pagg 28 e ss, ID, Constitution of liberty, 1960 e Law, Legislation and Liberty (3 voll, 1973-1979), trad it. Monateri, , Milano, 1986, parte 1^ “Regole e ordine” BOBBIO, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, in cui l’Autore riflette sulla teorizzazione di Hart, che utilizza la dicotomia norme primarie – norme secondarie, per caratterizzare, da un lato, le società primitive, ivi compreso l’ordinamento internazionale, in cui è prioritaria la presenza di norme primarie, e gli ordinamenti evoluti, in cui è prevalente la presenza di norme secondarie. Accanto a questa dicotomia si pone quella di Hayek, il quale focalizza la propria attenzione sulla distinzione fra società aperta e società chiusa, in cui sono presenti norme di organizzazione
Peraltro, le due dicotomie, quella di Hart, focalizzantesi effettivamente sul dualismo fra società primitiva e società evoluta e quella di Hayek, che si riferisce soprattutto al dualismo fra società aperta e società chiusa o tribale si incrociano, in quanto alla società primitiva di Hart, in cui prevalgono le norme primarie, corrisponde la società tribale del secondo, in cui sono presenti norme di organizzazione in prevalenza; per contro, alla società evoluta di Hayek, caratterizzata dalla presenza massiccia di norme di condotta, corrisponde in Hart un apparato ricco di norme secondarie.
Hart concepisce lo sviluppo della normatività come categoria generale in un sentiero che va dalle norme primarie alle norme secondarie; per Hayek, invece, si va dalle norme di organizzazione alle norme di condotta, Una volta che si sviluppi un certo parallelismo fra norme primarie e norme di condotta e norme secondarie e norme di organizzazione, si comprende che per Hart lo sviluppo storico procede dalle norme primarie a quelle secondarie, per Hayek in senso opposto. Sul piano gius-fiolosofico, si propende per la prima delle ricostruzioni, in quanto la delimitazione degli obblighi rappresenta pur sempre una priorità.
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