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Pervenire alla perfezione e quindi alla felicità attraverso la ragione
La felicità e perfezione sono due temi pervasivi della filosofia Occidentale e, da un certo punto di vista, essi sono i due obiettivi stessi della filosofia. Si può dire, infatti, che un certo modo di pensare la filosofia sia terminato nella biforcazione attuale di analitici e continentali che condividono un comune punto di vista: la filosofia non serve a portare alla felicità o alla perfezione. Si può, infatti, concludere che la filosofia contemporanea o, genericamente, post-classica è fondata proprio su questa diversione generale dalle fondamenta stesse della tradizione filosofica. Qualsiasi cosa la filosofia analitica e continentale siano, e si può discutere a lungo sulla loro natura, di sicuro esse non hanno come scopo la felicità o la perfezione di chi le segue e non hanno alcuna pretesa in tal senso. Questo non era il caso della filosofia dell’età classica, identificando proprio l’età classica della filosofia con il periodo in cui la filosofia Occidentale riteneva infatti che il supremo scopo del pensare fosse infatti quello di pervenire alla perfezione e quindi alla felicità attraverso la ragione.
Almeno sin da Socrate la filosofia si orienta verso l’identificazione della perfezione con la felicità mediante l’uso della ragione. Il Socrate dell’apologia è liberatorio addirittura rispetto alla morte, giunta per la sua spasmodica ricerca della perfezione, intesa in quel caso come virtù civica vissuta e praticata. Ma Socrate libera sé dal pensiero della morte suggerendo che (a) di essa non si sa nulla o abbastanza e quindi (b) non si può addirittura neppure escludere che essa sia il migliore dei beni (perché ci si ricongiungerebbe pure col mondo delle idee). Dopo Socrate è tutto un fiorire di riflessioni sull’identificazione de facto della perfezione e della felicità. Ovvero, l’idea che la perfezione – una sorta di generale concezione di rispecchiamento tra il pensiero e la realtà dove pensiero e realtà diventano l’una una prosecuzione dell’altra – e la felicità siano semplicemente due facce della stessa medaglia coniata dall’unico mezzo capace di forgiare una simile moneta: la ragione. La conquista della perfezione è, in tutte le varianti filosofiche occidentali, il risultato dell’attività razionale perseguita praticamente – quale che sia la sua dimensione di volta in volta intesa (sociale, politica, epistemica, morale…). Questo comune punto di vista, ovvero, la ricerca della perfezione e quindi della felicità per mezzo della ragione è probabilmente il punto comune di tutte le teorie filosofiche dell’età classica.
Aristotele, Epicuro e gli Stoici ma anche gli scettici e i cinici (addirittura) non condividerebbero quasi niente rispetto alle loro reciproche versioni teoriche se non che concordano che la perfezione è lo scopo stesso della filosofia la cui caratteristica principale è proprio l’uso finale e strumentale della ragione, la sola capace di conseguire alla felicità in quanto conseguenza o naturalmente connaturata con la perfezione. Questa concezione sopravvive a tutte le intemperie della storia che, naturalmente, influenzano la concezione della vita e del pensiero umano, giacché vita e pensiero sono direttamente dipendenti dalla realtà, che è principalmente segnata dall’insoddisfazione, incertezza, ansia e paura, proprio come riconoscono gli Epicurei e gli Stoici prima di tutti gli altri. Eppure, infatti, la scommessa stessa della filosofia come ricerca di senso di se stessa è proprio il rifiuto dell’accettazione passiva della vita e di quel particolare dolore chiamato “mal di vivere” laddove con “accettazione passiva” si intende l’adeguamento sistematico di sé alle proprie passioni e alle cause esterne prive di controllo.
Questa concezione della perfezione umana è così pervasiva da essere ovvia in gran parte delle teorie filosofiche classiche con una parziale e relativa eccezione nei filosofi cristiani che, per primi, operarono un’importante dissociazione, sebbene non senza opportune ambiguità. Se Dio sta da un’altra parte, e se Egli è l’unica certa fonte di felicità eterna – qualunque cosa questa locuzione “felicità eterna” possa significare al di là delle parole – allora non può esistere felicità piena e totale da questa parte della barricata. Ovvero, il pensatore cristiano deve ammettere che la felicità nell’al di qua è condizionata da una realtà sostanzialmente malevola in cui il male è ovunque e in diverse forme. E data la natura umana, comparata a quella della natura stessa del male e l’unica perfezione è quella di Dio, è necessario che la felicità sia solo passeggera e condizionata dal fatto che Dio si renda di quando in quando accessibile. Infatti, l’usuale definizione di felicità come soddisfazione sensuale è, naturalmente, parte anch’essa di quei mali che irretiscono e illudono l’essere umano nelle sue infinite debolezze causa ed effetto del suo vivere nel male. Ora, la dissociazione tra perfezione e felicità da parte della filosofia cristiana è, appunto, ricca di ambiguità nel senso che non è impossibile essere felici anche da questa parte perché (a) la vita santa (perfetta) è possibile per alcuni e (b) Dio si può rendere accessibile – se ritiene – anche al più nefasto dei peccatori – ma tendenzialmente a chi è disposto ad accettarne la Grazia. Sicché la felicità nel pensiero cristiano è una nozione ambigua, a differenza della perfezione. La felicità vera e propria è una condizione ultraterrena di cui noi possiamo solamente avere idee vaghe e indistinte. Invece, la perfezione è possibile, pur essendo difficile. Ma la perfezione tende a portare il marchio della felicità – sebbene questa “tendenza” non sia garantita dalle leggi stesse del mondo. Tuttavia, la vita santa – perfetta – è già di per sé intesa come “beata” – ovvero felice. Quindi, se la felicità viene mandata nell’al di là dalla porta, dalla finestra rientra surrettiziamente. Naturalmente, il fatto che il pensiero cristiano riconosca nella felicità una condizione rara è cosa affatto unica, ma piuttosto condivisa, dalle teorie filosofiche dell’età classica.
Questo punto di vista rimane perfettamente intatto anche nella filosofia moderna, caratterizzata da una serie impressionante di nuove interpretazioni dello stesso principio, ovvero che la perfezione e quindi la felicità siano alla portata di mano dell’uomo razionale. L’idiota o l’essere irrazionale è condannato alla miseria. Su questo sono tutti d’accordo e l’idea che l’essere irrazionale si possa pascere di una soddisfazione supplementare è di là da venire, quando ormai la dissociazione tra perfezione e felicità è stata pienamente compiuta e la perfezione è venuta meno per lasciare il passo alla sola felicità che è, naturalmente, la più elusiva condizione di vita tra le due: la perfezione è la condizione di impiego completo e totale delle proprie facoltà indipendentemente dalle necessità della vita, cosa che infatti richiede sforzo e fatica. In una parola, disciplina. La perfezione è in gran parte ottenuta mediante una particolare forma di autoeducazione disciplinare imposto dalla ragione. Difficile, ma chiaramente non impossibile, certo non tutti sottoscriverebbero l’abbonamento. Ma la felicità, invece, quella sì, sembra un bene alla portata di tutti. Infatti, con la dissociazione della perfezione per mezzo di razionalità e felicità il risultato è stato solamente rimettere nella pura opinione – e nel soggettivo – quello che è, statisticamente parlando – estremamente improbabile perché indipendente da noi: la felicità – slegata dalla perfezione – diventa una scommessa sul vago.
La filosofia moderna trova un naturale complemento nell’illuminismo, il quale sostiene che, di nuovo, la perfezione sia possibile perché la razionalità umana è sufficiente a garantirne l’esistenza e, con essa, la felicità. Se Spinoza identificava perfettamente la felicità con la perfezione – felicità appunto intesa come “forma di beatitudine” – invece Kant rappresenta la prima incredibile eccezione rispetto a questo supremo ideale. Perché Kant concorda solo con la prima parte dell’idea classica: la perfezione è possibile all’uomo di ragione, la felicità no. In Kant la felicità ritorna ad essere interpretata in modo che diventa elusiva: di essa non si può predicare con certezza niente perché le parole che ne formulerebbero le leggi pratiche morali per ottenerle sono intrinsecamente ambigue: oggi conseguono nell’individuare esattamente ciò che ci rende felici, ma domani no. Ovvero, la stessa regola di comportamento consegue a due risultati opposti e, naturalmente, reciprocamente incompatibili. Sicché da una siffatta legge ne segue qualsiasi cosa. E questo è un punto interessante. Quindi, si potrebbe ben dire che per Kant, infelici per essere infelici tanto vale far la cosa giusta. La moralità – e quindi la suprema forma di perfezione per Kant – e la felicità non sono affatto la stessa cosa. Non solo, a rincarare la dose Kant nega che fare la cosa giusta sia a sua volta causa di felicità perché, se lo fosse, allora non sarebbe un atto puro morale ma condizionato dalla ricerca stessa di un vantaggio che, di nuovo, di perfetto non ha niente. In Kant la perfezione morale è il silenzio dei sensi i quali sporcano inevitabilmente tutto. L’altro lato della barricata, ovvero l’utilitarismo, sposta la perfezione mantenendo la felicità: la perfezione è, secondo loro, il polo elusivo dei due concetti e, invece, la felicità è ciò che fonderebbe la vita di ogni essere umano, che lo sappia o no. La perfezione diventa solamente r-inscritta nella capacità umana di ottenere quella felicità.
Ora, alla fine dell’età classica, come si vede, cade una delle idee cardine della filosofia che diventa una sorta di perpetuo stato di riflessione su porzioni sempre più ristrette di mondo, e il cui impatto e interesse è inversamente proporzionale alla loro utilità. Anzi, propriamente, la filosofia perde la sua intrinseca funzione di salvaguardia del valore individuale per mezzo della ragione. Essa, infatti, diventa un’attività principalmente burocratica il cui meccanismo diventa identificabile con tutto il resto. Eppure la filosofia Occidentale è la promessa di un mondo in cui la felicità è possibile in quanto risultato collaterale dell’esercizio della razionalità con lo scopo del raggiungimento della perfezione. Il mio parere, in questo senso, è il seguente: la distinzione tra un filosofo (occidentale) e una qualunque altra persona è ancora oggi l’idea che la perfezione sia uno scopo raggiungibile mediante l’uso della ragione la quale, di conseguenza dischiuda anche la felicità, almeno in via potenziale. Chiunque non abbia almeno sposato per un certo periodo questa concezione non può dichiararsi un filosofo Occidentale ma qualcos’altro. Un pensatore o uno scrittore, ma non un filosofo perché la filosofia Occidentale ha fondato se stessa su questa sorta di fiaba per esseri razionali educati alla razionalità.
Ho parlato di “fiaba” per esseri razionali perché nessuno vive senza fiabe e ogni cultura ha la sua. Ad esempio, l’idea che la felicità sia ottenibile mediante la perfezione conseguita per mezzo e non per rifiuto della razionalità è qualcosa di intrinsecamente alieno, ad esempio, al Buddismo che, nelle sue varianti, ritiene sostanzialmente che la razionalità categorizzante crea la realtà nella sua diversificazione e così i desideri e la volontà di dominarne una parte. La soluzione è il rifiuto della razionalità intesa come mezzo e fine: essa è solamente il modo in cui noi crediamo di risolvere un problema di cui essa è, invece, causa in gran parte. Inoltre, la filosofia Occidentale ha la soluzione al male di vivere proprio nell’idea che la vita stessa è condizione necessaria della felicità. In questo la tradizione classica della filosofia si discosta nettamente dal pensiero cristiano, almeno in una delle sue interpretazioni: la scommessa è che la felicità sia possibile tramite la perfezione nell’al di qua che, senza la ragione, non è ottenibile. A dimostrazione del disprezzo che la filosofia classica ha sempre gettato sull’intuitivo modo di concepire la felicità ci stanno a monito le stesse parole che ancora noi oggi usiamo senza averne più alcuna cognizione: barbarie, viscerale, idiozia, pazzia etc. sono termini che negano la possibilità stessa della felicità in quanto in negazione con la razionalità e perfezione intesa in questo senso. Ma oggi chi non crede di non poter accedere alla felicità sfruttando azioni e idee che, appunto, si sarebbe volentieri attribuiti alla barbarie?
Quindi, la filosofia nell’età classica si è concepita in questo modo e i suoi risultati sono in linea con una sorta di fede fondamentale di stampo immanentista (non necessariamente materialista) in cui la perfezione è il risultato supremo della vita razionale in cui la felicità ne è parte o conseguenza. Questa fiaba non è del tutto sparita, nel senso che chi fa filosofia oggi è, senza saperlo, costretto a riconoscere in questo principio qualcosa che, magari, non aveva pensato ma che fa parte di lui. Chiunque si immerga in riflessioni così lontane dal senso comune lo fa, almeno in parte, per il suo naturale scetticismo in quel che il senso comune appunto gli offre. E quindi la filosofia – anche quando sempre più limitata ad un voto nel libretto – rimane capace di questa promessa, per quanto essa infatti non faccia più parte degli scopi e della narrativa delle due principali alternative filosofiche. Eppure, allora, l’idea che qualcosa di meglio che vivere a caso rimane ancora attrattiva per l’occidentale perché, ancora, egli non riesce veramente a rifiutare l’idea che la razionalità non consegua a nulla di buono, tendenzialmente alla felicità per tramite la perfezione. Oggi non è né la felicità né la razionalità ad essere necessariamente passate di mente, quanto l’idea stessa della vita retta che sembra meno allettante di un tempo a chi, appunto, crede nella filosofia. Dove con “crede nella filosofia” si intende proprio il fatto che, in fondo, la filosofia dell’età classica mantiene intatto il valore ultimo del suo principio fondativo. E qui arriva la mia principale osservazione filosofica.
Ho parlato di “fiaba” perché, a pensarci, l’idea che la felicità – qualunque cosa sia – sia possibile per mezzo e non per il rifiuto della ragione è qualcosa di così straordinario e potente che chiunque non sia un idiota – appunto, vorrebbe crederci. Si tratta di un pensiero così intrinsecamente positivo che chiunque dovrebbe crederci almeno come ideale: “se sei razionale allora diventerai felice” è un messaggio universale di speranza perché sostiene che la felicità è alla portata dell’uomo, a condizione di essere razionale. Questo non è poi un requirement così spinto perché, in fondo, per essere individui razionali non è richiesto altro che l’esercizio di una delle facoltà naturali della mente. Non solo, ma la “fiaba” è ancora più ottimista. Essa sostiene che la perfezione sia possibile, perfezione che si può intendere nel duplice senso di morale e conoscenza. Quindi, se tu sei un uomo buono perché eserciti la tua razionalità morale ed epistemica, allora la salvezza è alla portata di mano. Questo era il messaggio dell’età classica, un messaggio di speranza universale nella vita a dimensione umana. Non richiede altro che essere umani. Ma, nonostante tutto, anche questa a me sembra una fiaba.
La fiaba sta nel fatto che, come notava Kant, definire la felicità è impossibile. Quando si diceva “la felicità – qualunque cosa sia” si stava iniziando a suggerire che se nessuno sappia definire la felicità, ipso facto dovremmo porci la domanda se essa esista. La domanda più corretta per formulare questo quesito sarebbe il seguente: “Come sarebbe il mondo se la felicità non esistesse?” e “Come sarebbe la mia vita se non potessi sperare di ottenere la felicità?” Alla prima domanda mi pare che la conoscenza della vita altrui e della storia parli chiaro: senza felicità, il mondo apparirebbe esattamente per quello che è con l’unico caveat che la felicità rimanga un generico ideale possibile. E quindi qui la risposta automatica sembra suggerire: “Se non esistesse la felicità, allora sarebbe meglio morire”. Ma perché? In fondo, anche rimanendo nell’iper-vago, i momenti di vera felicità nella vita si ricordano distintamente nella memoria proprio perché così rari. Così, come minimo, dovremmo concludere che la felicità è una cosa rarissima, se capita, statisticamente parlando. E potrebbe non esserci mai ma questo non eliminerebbe l’altra parte dell’equazione, ovvero la perfezione per mezzo della razionalità. Infatti, questa era l’ambiguità della concezione classica: la felicità è una conseguenza o parte della natura della perfezione per mezzo della razionalità. Senza la felicità rimarrebbe ancora una vita perfetta la cui definizione potrebbe essere questa: “Cerca di essere la migliore versione di te stesso senza ulteriore compenso”. Questa formulazione esprime una possibile fuoriuscita dalla fiaba dell’età classica perché ne mantiene la parte più solida e ne toglie la parte ingenua.
Infatti, la felicità è una questione di concordanze tra noi e la realtà in cui la perfezione e razionalità possono essere cause necessarie ma affatto sufficienti della felicità – come in fondo la vedeva in parte Aristotele. Spiegare la felicità è come spiegare una tegola in testa in modo dettagliato: richiede l’intera storia dell’universo! Dovevamo passare in quella strada (quindi le strade, le case, i tetti devono esistere, quelle tecnologie pure) quando la tegola ha perso l’equilibrio (e quindi la forza di gravità ha agito etc.) proprio in quel momento quando noi stavamo passando (perché dovevamo andare in quel posto il cui scopo era stato definito la sera prima perché etc. etc.). Nessun altro doveva essere proprio dove noi stavamo passando e alla caduta della tegola non si doveva apporre niente etc. etc.. Ecco, la felicità è come una tegola in testa: richiede un allineamento di cause ed effetti in cui noi ci ordiniamo parzialmente con la realtà in modo che la nostra perfezione quel giorno ha conseguito anche ad una forma di felicità: la felicità allora diventa solamente il sintomo di un armonico allineamento tra noi e la realtà, niente di più e niente di meno.
Ma la perfezione della ragione non è sufficiente e allora infelici per essere infelici tanto vale fare la cosa giusta, ovvero essere la migliore formulazione di se stessi per quanto possibile all’interno di una condizione in cui la perfezione si consegue attraverso la razionalità. Questo è ancora possibile e, in fondo, rimane un ideale di una vita spesa per un buon motivo. La felicità – qualunque cosa essa sia – non sembra mantenere le promesse e, verosimilmente, la sua esistenza non sembra interessare in realtà molto l’esistenza degli esseri umani rispetto alla loro condizione ordinaria di vita: la vita degli altri è bella sin tanto che esiste quel velo di ignoranza che non ce la fa vedere abbastanza da vicino. E, quindi, in ultima analisi, si può dire che la gran parte dell’esistente umano vive non sapendo bene cosa cerca e solamente alla domanda sulla felicità egli si aspetta di dover rispondere che, sì, egli la sta cercando e la sua vita è lo specchio di tale ricerca, quand’anche ogni sua azione sia così chiaramente cieca rispetto a questo presunto obiettivo che ne smentisce praticamente l’assunzione. Accettare che la felicità non esiste è una conquista liberatoria, contrariamente a chi ci pensa per la prima volta, che è comunque un primo passo verso la ricerca della perfezione visto che, chiunque non si ponga manco in questa condizione rientra in quel barbarico ordinario che fonda la nostra esistenza sociale. Se così non fosse, in fondo, dovremmo stupirci della costante incapacità degli esseri ordinari di essere felici quando il loro dolore e la loro infelicità sono cose così ordinarie che le diamo per scontato tanto quanto il cielo sopra di noi e la Terra sotto di noi, in fondo cose che scontate non sono in un universo di cui sappiamo solo che è molto più vasto di noi.
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