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La vittoria non è un accidente (parte 1)

“Vincere non è un episodio sporadico, è una cosa di sempre. Non vinci una volta ogni tanto, non fai bene le cose una volta ogni tanto, le fai bene sempre. Vincere è un’abitudine. Sfortunatamente lo è anche perdere.”

Vince Lombardi

In termini Clausewitziani la vittoria in campo politico militare è il prevalere della volontà di un contendente su quella dell’altro, una definizione molto semplice, che, come tutte le cose semplici, cela una grande complessità. Come si consegue una vittoria?La vulgata spiega questo avvenimento come il risultato di una strategia. L’idea che si ha della strategia è piuttosto banale; si rifà alla metafora del gioco degli scacchi e spiega il successo come una serie di “mosse giuste”, ma essa è molto di più. Conseguire una vittoria è sempre un insieme complesso ed articolato di scelte e di azioni, che formano una catena causa-effetto, che porta all’affermarsi di una della volontà a confronto, ma siccome le parti quasi mai scompaiono ma si perpetuano nel tempo, spesso la vittoria la si vede nel tempo e non è conseguenza immediata di questa catena. Per fare un esempio, alla fine della Seconda Guerra Mondiale pareva che i vincitori, oltre ad Americani e Russi, fossero Inglesi e Francesi, gli sconfitti i Tedeschi. Oggi possiamo constatare, pur con qualche approssimazione, che la Germania è una potenza economico-finanziaria di gran lunga superiore ad Inghilterra e Francia, le quali hanno pagato la loro vittoria con un inesorabile tramonto imperiale. Per conseguire la Vittoria è necessario che obiettivi politici, militari, economici lavorino insieme. Al fine di allineare questi obiettivi è necessario apprestare una serie di risorse (mezzi) che siano coerenti con i fini (obiettivi). Esistono differenti livelli, che potremmo dire ordinati gerarchicamente, per dimensioni e per specializzazione, in cui opera questo processo. Il più elevato, che è anche il più complesso e meno specialistico, è quello della Politica. Gli obiettivi di chi governa devono rientrare in un quadro strategico, che comprende gli aspetti geopolitici, cioè la collocazione geografica ed i relativi condizionamenti dovuti a caratteristiche oro-geografiche, es. sviluppo delle coste, dimensioni e topografia del territorio, latitudine, clima, presenza di risorse naturali e loro disponibilità, dimensione e composizione demografica della popolazione, oltre alle  relazioni e ai caratteri geopolitici degli Stati vicini. Ma non basta, agli aspetti in parte deterministici della geopolitica, bisogna affiancare quelli politico economici, cioè la capacità che uno Stato ha di generare risorse o di estrarle dal proprio territorio. Al di sotto di questi livelli si articolano quelli relativi agli aspetti più prettamente militari: strategico, relativo ad un teatro di operazioni, cioè un ampio spazio geografico, quindi connesso all’aspetto geopolitico; operativo, relativo alle modalità di agire in ciascun teatro ed al tipo di strategia da usare; tattico, relativo cioè al vero e proprio impiego delle forze e alla conduzione dei combattimenti. Tutto ciò deve muoversi in un quadro coerente ed è questo che intendo per vittoria come fenomeno non casuale. Se è vero che all’avanzare tecnologico delle società, la complessità della guerra è aumentata sempre in modo esponenziale, è però dimostrato che il fenomeno della guerra ha sempre richiesto impegno e preparazione: lo spiegava Sun Tzu nel suo celeberrimo trattato scritto circa tremila anni fa, e che ancora oggi è totalmente attuale (vedi Sun Tzu, L’arte della guerra).  Gli Stati dell’antichità non sfuggivano al modello dei livelli strategici: contava principalmente il valore individuale e la forza fisica, ma questo non escludeva la necessità della preparazione. Le incredibili vittorie greche di Maratona e Platea, in cui poche migliaia di opliti sconfissero alcune decine di migliaia di combattenti persiani, erano il risultato della facilità dell’impiego della Falange e della sua efficacia (cioè basso costo ed alta produttività), oltre che della determinazione degli opliti, che altro non era che preparazione psicologica, addestramento e invenzione di un metodo adatto ad una cultura che rifiutava l’aristocrazia, in  conseguenza del modello socioeconomico di organizzazione della società greca.

Proprio la Cina modificò ed adattò la sua politica militare all’evolversi delle relazioni con i vicini nomadi al nord del paese, che periodicamente, al momento del raccolto, saccheggiavano le province imperiali, poste in aree geografiche dove il regime delle piogge consentiva una ricca ed estesa agricoltura. Contro questi nemici, furono costituiti verso il 220 a.C., i primi reparti di cavalleria, che sostituirono le fanterie. Dal 6000 A.C. al 220 D.C. tutta la politica estera cinese fu condizionata da questa difficile relazione con i nomadi delle steppe dell’Asia Centrale. Verso il 140 avanti Cristo, l’impero Han, nel tentativo di sconfiggere l’impero dei nomadi Xiongu, costituì un sistema di collegamento e sancì rapporti diplomatici, con piccoli regni nell’area che oggi si chiama Sinkiang, per minacciare il fianco meridionale dell’impero nemico. Lungo questi collegamenti si sviluppò la “via della seta”. Cinquant’anni dopo, un po’ più ad est, Roma e l’Impero Partico vennero allo scontro nella battaglia di Carrae: la cavalleria partica portava insegne tessute di seta, e da quel momento in poi cominciarono a comparire anche a Roma panni di questo tessuto. Roma si dotò di una politica difensiva che era conseguenza della sua espansione. La composizione di tipo falangitico dell’esercito si modificò per adattarsi ai terreni montani dell’Italia del sud, verso cui Roma fu quasi forzata a dilatare il proprio dominio, dai conflitti con le altre popolazioni italiche, che ne minacciavano l’esistenza. Si dotò di una flotta, utilizzando il know how dei federati di Neapolis, per fronteggiare i Cartaginesi, verso i quali da prima aveva mantenuto un profilo di relazioni amichevoli, ma che degenerarono per la questione del controllo della Sicilia. Cartagine perse il conflitto (guerre puniche) perché il senato della città non volle investire il denaro necessario a sostenere la politica militarmente aggressiva della famiglia Barca (Asdrubale, Amilcare, Annibale). La politica difensiva dell’Impero Romano fu la conseguenza dell’espansione mediterranea successiva alle guerre puniche. Roma aveva due modi di assicurare la propria egemonia: attraverso il governo diretto, che si basava sulla cooptazione delle classi dirigenti locali, o mediante il mantenimento di governi autonomi e religioni autoctone. Da queste aree Roma estraeva risorse e tasse. L’altra area era quella degli Stati clienti, totalmente indipendenti, liberi di gestire le proprie risorse e non soggetti a tasse, ma vincolati a trattati e alla protezione militare della Caput Mundi. Veri e propri Stati cuscinetto, lungo le frontiere estreme, dove questo era possibile: Germania, Africa settentrionale; frontiera del Danubio; Giordania; Siria. Attraverso questa politica la grande città poteva permettersi di mantenere un esercito di dimensioni limitate, fra le 23 e le 30 legioni, pari a circa 150mila uomini, ma di alta qualità ed affidabilità, grazie ad organizzazione, addestramento e selezione etnica dei suoi membri, in grado di presidiare aree strategiche specifiche ed anche di impegnarsi in operazioni aggressive di espansione dell’impero, occupando un territorio che, al culmine della sua estensione, andava dal Nord Inghilterra alla frontiera della Persia. In seguito, con l’avvento degli imperatori ed a causa dell’incapacità di creare un efficace sistema di successione imperiale (periodo dell’anarchia militare), le legioni furono richiamate al centro, per proteggere il sovrano. Il presidio delle aree periferiche fu gradatamente affidato a reparti stanziali, di tipo miliziale. Le legioni scomparvero, gli eserciti romani furono costituiti di “catafratti”, cioè cavalieri con pesanti armature, sul modello mutuato dalle armate persiane, forze mobili per intervenire là dove servivano, ma non bastarono a salvare Roma. Nel corso del medioevo, sebbene le guerre fossero divenute un fatto privato dei grandi feudatari e dei re, esse non escludevano la necessità di investire risorse e di disporre di una adeguata logistica, quindi di forme anche sofisticate di organizzazione. Per fare un esempio parleremo dei cavalli, il principale strumento di guerra del medioevo. Un cavaliere disponeva in genere di più di un destriero, cioè cavallo da guerra, da due a tre.  Un cavallo di questo tipo ha bisogno di mangiare circa 15 chili di foraggi vari al giorno. Un cavallo occidentale, essendo domestico, non poteva nutrirsi di erba, se non raramente. Aveva, inoltre, bisogno di essere ferrato almeno due volte al mese, cioè quattro ferri più sei chiodi a ferro. Per applicare questi ferri servivano almeno due maniscalchi, probabilmente da tre a cinque ogni cento cavalli.

A Crecy (battaglia della Guerra dei Cent’anni, 1346) l’armata francese era composta di 4000 cavalieri, in totale dodicimila cavalli, o forse più perché i ranghi più alti disponevano di più monture.

Dodicimila per 15 chili al giorno per un mese, quindi 15X12000X30, dà l’impressionante cifra di 5400 tonnellate di foraggi al mese. Quanto alla ferratura abbiamo 12milax4x2 cioè un totale di 48mila ferri, più 6 chiodi X4x2x12mila, per un totale di 576mila chiodi. Un totale di quasi 400 tonnellate di ferro. In più servivano 3mila maniscalchi. Questo spiega perché gli eserciti medievali fossero poco numerosi, almeno in termini di uomini combattenti, ma avessero lunghe e complesse colonne logistiche al loro seguito (vedi www.warfare.it). Spiega anche perché Sun Tzu, che parlava di eserciti notevolmente organizzati, quindi di numeri elevati e di complessità logistiche importanti, affermava: “Il trasporto su lunghe distanze degli approvvigionamenti necessari alle operazioni militari, impoverisce gli Stati: trasporta lontano carri e salmerie, e ridurrai il popolo in miseria.” L’avvento della polvere da sparo cancellò la cavalleria e portò il crescere degli eserciti professionali, aumentando il costo della guerra e la necessità di prepararla. La crescita dei costi richiese sempre più organizzazione e pianificazione, ma anche sempre maggiore organizzazione delle entità statuali, fino a produrre lo Stato nazione, mentre le scoperte geografiche apportavano risorse consolidando le economie commerciali e finanziarie, con il conseguente declino delle economie agricole, e la rivoluzione industriale cambiava il volto delle nazioni. I perdenti di questo confronto furono i sistemi di tipo feudale e le città – Stato, travolte dalla fame di potere dei monarchi nazionali: nasceva il mondo moderno.


Giovanni Ingrosso

Giovanni Ingrosso è nato a Bari il 16 aprile 1953, si è laureato a Pavia in Scienze Politiche indirizzo politica economica, a Torino in Scienze Strategiche e ha conseguito un MBA alla Scuola di Direzione Aziendale, dell’Università Bocconi. E’ autore di diversi articoli, su strategia militare e management, di un libro sull’evoluzione della guerra nel mondo moderno e post-moderno, di due romanzi di spionaggio. Ha vissuto tra il 2008 e il 2016 nel Canton Vaud e oggi vive nei pressi di Porto, Portogallo.

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