Giuseppe Riggi, Michele Porceddu, Francesco Rizzo, benvenuti su Scuolafilosofica. Siete coautori del volume “Perché non mi rispondi? Psicologia e psicopatologia dei contatti frequenti con il cellulare” (in.edit edizioni 2018). In breve, come presentereste voi e il vostro lavoro?
Grazie, è un piacere dialogare con voi.
Siamo tre giovani psicologi con un background formativo comune. Pur seguendo percorsi lievemente diversi in relazione alle circostanze, abbiamo un interesse condiviso per la psicoanalisi, e ciò ha senz’altro reso possibile la stesura di un lavoro a sei mani. A ciò si è aggiunta un’inclinazione comune a osservare criticamente i recenti sviluppi tecnologici (nessuno di noi è mai stato particolarmente “social”!), e speriamo che questa continuità di pensiero emerga dal nostro saggio. Riteniamo che la nostra generazione, ossia quella di chi, come noi, si aggira intorno ai trent’anni, sia forse l’ultima ad avere la possibilità di guardare con un sano sospetto il modo in cui la comunicazione sta andando modificandosi. Siamo nati e siamo stati educati in un mondo in cui i telefoni cellulari e internet erano non più di una curiosa novità, e, allo stesso tempo, abbiamo vissuto la loro esplosione durante la nostra adolescenza, rimanendone quindi fortemente impressionati. La nostra fortuna, o comunque ciò che potrebbe rendere interessante il nostro punto di vista, è quella di avere un piede in entrambi i mondi.
Perché e come un approccio psicoanalitico può aiutarci a comprendere i modi con cui ci relazioniamo allo smartphone, ma soprattutto attraverso di esso?
La psicoanalisi è sempre stata controcorrente. Mettere in discussione ciò che appare scontato è uno degli intenti principali della pratica psicoanalitica; ciò si applica soprattutto all’individuo e alle convinzioni che matura su se stesso e sul mondo, ma può anche riguardare alcuni fenomeni sociali che, proprio in virtù della loro larga condivisione, si circondano di un alone di indiscutibilità. Oggi avere uno smartphone è così “normale” che non viene nemmeno da chiedersi perché sia così difficile farne a meno. Però, se ci fermiamo un po’ a riflettere sulle evoluzioni più o meno recenti, come le “spunte blu” di WhatsApp o l’invenzione del Power Bank, ci rendiamo conto che spingono tutte nella stessa direzione: quella di garantire e pretendere dagli altri una costante presenza – o presunta tale. A nostro modo di vedere l’approccio psicoanalitico, studiando le traiettorie dei bisogni, dei desideri e delle angosce dell’essere umano fin dalla primissima infanzia, può fornire un grande contributo alla comprensione di ciò che rende così seducente questa promessa di presenza. Freud riteneva che ci siano fortissimi parallelismi tra filogenesi e ontogenesi, cioè tra lo sviluppo del genere umano come specie e lo sviluppo del singolo individuo, e così, seguendo questo filo di Arianna, abbiamo tentato di evidenziare la capacità dello smartphone e delle sue funzioni di rispondere, almeno superficialmente, ad alcuni bisogni fondamentali dell’uomo-specie e dell’uomo-individuo.
Nel libro, lo smartphone è presentato come uno strumento che risponde al desiderio e bisogno dell’uomo di comunicare. Non è però una rara opinione che sia stato lo strumento poi a plasmare la comunicazione, più che esserne un mero veicolo. Cosa rispondete a chi dice che “gli smartphone fanno male”?
Infatti questa opinione è molto diffusa, e di fatto ci porta a chiederci se sia nato prima l’uovo o la gallina. Ovviamente è una questione complicata, che può potenzialmente abbracciare il tema molto più ampio dei rapporti uomo-tecnologia e natura-cultura. Comunque l’ottica psicoanalitica che noi utilizziamo è molto chiara su questo punto: le pulsioni fondamentali dell’uomo, per quanto possano interagire con la tecnologia da un certo punto dello sviluppo in poi, non sono soggette a modificazioni, o almeno non lo sono in un orizzonte temporale che sia per noi utile esplorare. Il bisogno di presenza di cui parliamo emerge fin dal momento della nascita, ed è in relazione con la rudimentale attività psichica che il piccolo umano presenta già nella vita intrauterina. Qualunque sviluppo tecnologico rappresenta intrinsecamente un “terzo”, cioè qualcosa che può essere riconosciuto e diventare rilevante solo in seguito alla creazione di uno spazio tra l’individuo – che deve quindi innanzitutto potersi definire come separato da ciò che lo circonda – e il mondo. I bisogni di cui parliamo iniziano a premere prima che questo spazio si crei, quindi prima che qualunque strumento possa essere riconosciuto come tale. Dal nostro punto di vista, dunque, un neonato di oggi non è psichicamente diverso da un neonato di diecimila anni fa. Questo ci permette anche di non colpevolizzare lo strumento, riflettendo su come lo smartphone non sia pericoloso di per sé, ma solo in relazione alla sua capacità di toccare qualcosa di profondamente radicato in noi, presente a prescindere da qualunque sviluppo tecnologico. Se noi vediamo una persona “drogata” di smartphone o uno stalker – figura che abbiamo discusso nella parte finale del saggio – pensiamo innanzitutto che la sua vulnerabilità a questo strumento tragga le sue origini non dal suo rapporto con la tecnologia, ma dal rapporto che, all’inizio della vita, ha intrattenuto con altri esseri umani. Naturalmente la potenza dello strumento non può essere trascurata, ma facciamo fatica a pensare che, da sola, possa spiegare un utilizzo smodato.
Nell’amicizia, ma anche nel lavoro, la possibilità di essere immediatamente raggiungibili si è andata a tradurre nella pretesa di una continua disponibilità. Siamo davanti a una condanna della solitudine, e di chi la cerca?
Decisamente. La capacità di stare soli è un’acquisizione tutt’altro che scontata, e richiede una sorta di fiducia nella consistenza dei propri confini di essere umano autonomo e separato dagli altri. Purtroppo separarsi da qualcosa che percepiamo come costantemente disponibile è un compito per niente semplice. Abituarsi a una presenza continua porta a vivere anche la più piccola assenza come una grande frustrazione o, in alcuni casi, come un vero e proprio attacco all’integrità dell’individuo. Il titolo del nostro saggio gioca proprio su questo punto: oggi non rispondere in tempi brevissimi a un messaggio sembra quasi un affronto. E, in questo clima di costante pretesa, il volersi legittimamente fare da parte per stare in pace con se stessi viene quasi criminalizzato.
Ma dobbiamo anche chiederci quanto questa disponibilità sia consistente. Rispondere a un messaggio o a una mail a qualsiasi ora del giorno e della notte significa davvero essere disponibili e presenti? Uno degli aspetti su cui ci siamo focalizzati è proprio l’evoluzione del concetto di “presenza” in relazione agli sviluppi tecnologici. Per i nostri antenati la presenza era necessariamente presenza fisica, mentre oggi ci accontentiamo, per così dire, di un’immagine su uno schermo, di una voce senza corpo e perfino di una semplice scritta. Ma quante volte rispondiamo a un messaggio su WhatsApp distrattamente, tenendo il telefono in mano mentre stiamo facendo altro? Forse vale la pena di fermarsi un momento e prendere in considerazione l’idea, apparentemente controintuitiva, che l’essere perennemente raggiungibili possa, se non prestiamo attenzione, peggiorare la qualità della nostra comunicazione.
Siamo giornalmente bombardati da notizie di cyberbullismo, Revenge porn, troll e web shaming. A vostro parere le nuove piattaforme di comunicazione hanno creato qualcosa di nuovo o sono meri mezzi per sfogare patologie o disagi preesistenti?
Oggi parliamo di clinica dei nuovi sintomi, ma la storia della psicopatologia ci insegna che ogni periodo storico offre agli individui modi particolari per incanalare le loro sofferenze e manifestarle esteriormente. Va da sé: un uomo arrabbiato e violento con un bazooka in mano è più pericoloso di uno armato di coltello; possiamo ripeterlo: la potenza degli strumenti a nostra disposizione non può essere trascurata. Ma sappiamo anche che l’uomo è malleabile, e che ha raggiunto la sua attuale posizione proprio grazie alla sua capacità di adattarsi. Disarmare il nostro uomo, qualunque sia la sua arma, non lo renderà sicuramente più sereno. Se pensiamo che gli strumenti tecnologici di turno siano “la causa” dei fenomeni spiacevoli che ci troviamo ad affrontare, rischiamo di entrare in un’ottica proibizionista. Ma dobbiamo fare attenzione, perché, come si suol dire, ciò che cacciamo dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra. Dal nostro punto di vista, il modo migliore per arginare un fenomeno preoccupante, il “sintomo” di un individuo o di un gruppo sociale, è quello di lavorare su ciò che sta alla sua radice. Strappare gli smartphone dalle mani dei nostri figli quando scopriamo qualche malefatta può essere relativamente semplice; capire perché l’hanno combinata è senz’altro più faticoso, ma dovrebbe valerne la pena. Anche per questo motivo non abbiamo voluto stilare una sorta di lista di consigli per un “buon utilizzo dello smartphone”. Siamo convinti che il punto non sia questo. Naturalmente questo tipo di approccio richiede di andare a toccare corde profonde nelle persone, riguardanti punti come la natura del proprio rapporto con l’altro in quanto tale e del proprio essere figli, genitori, educatori o terapeuti, per le quali la lettura di un libro è evidentemente insufficiente. Speriamo almeno di poter dare qualche spunto di riflessione.
In chiusura e ringraziandovi del vostro tempo, vi chiedo: come descrivereste in 5 parole la vostra relazione con lo smartphone?
Michele Porceddu
- Cerco
- di
- non
- razzolare
- male
Giuseppe Riggi
- Relazione
- Evasione
- Reperibilità
- Funzionalità
- Svago
Francesco Rizzo
- Necessità (ahimè)
- Opportunità
- Efficienza
- Distrazione
- Complicità
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