Il potere non si deve intendere come una forma unica e determinata. Il potere è la risultante di un complesso di forze di ampio e di breve respiro, poste dalla storia. Tipi di forze di a lungo termine sono la mentalità, le credenze e i valori di una società, i bisogni collettivi e i problemi di risoluzione della produzione. L’economia è uno sviluppo di una serie di condizioni culturali, dunque di carattere sia materiale che immateriale, così ha sia uno sviluppo in sé centrifugo e indipendente dal resto delle cose e contemporaneamente uno sviluppo centripeto fortemente radicato e dipendente dal resto delle cose. La cultura è dunque società e ambiente e l’economia è sempre legata alla cultura, dunque ne è una sua fuoriuscita, la sua determinazione pratica. In senso proprio, l’economia è lo sviluppo pratico della cultura. Ciò non significa che poi non ci sia una forza retroattiva di spinta reciproca, ovvero l’effetto poi influenzerà a sua volta quella che era la causa. La cultura, l’economia determinano il potere e non viceversa. Certo, come per l’economia sulla cultura, c’è poi un trapasso profondo del potere sul resto ma comunque è esso una risultante di quelle e non viceversa. Bisogna pensare che esistono come due realtà connesse e distinte: connesse per causalità reciproca ( ma non in senso temporale quanto in senso materiale ), distinte perché in una certa misura autonome e quindi parametro esse di sé. Ma questa connessione, dalla quale poi si determina il potere, pone irrimediabilmente molti problemi, per esempio i problemi di come debba sussistere questa connessione, di quanto la prima causa debba influenzare l’effetto e di quanto questo effetto, di ritorno, debba influenzare quell’altra. La società e l’ambiente, insomma, come devono influenzare l’economia e quanto questa quelle? Il potere è dunque una visione globale, giacché di potere, come si vede, non ne esiste uno, ma tanti. E una forza di alto livello va gestita secondo una visione di alto livello. Ed ecco il problema della politica.
La politica è dunque, come gestione del potere, implicata dal potere, è la risposta umana al problema della sua stessa organizzazione. Come dobbiamo gestirlo questo potere? Come è presumibile, la politica non può prescindere né dalla cultura né dalla relativa economia e dalle reciproche connessioni, determinazioni ed influenze. Le contraddizioni culturali e economiche si pongono così in scontro e in accettazione e così pongono sia il problema che la soluzione. D’altronde si deve porre per necessità una organizzazione che ponga limiti e concessioni a questo scontro-incontro tra le varie componenti.
Come la struttura profonda della politica vede due livelli, uno profondo, radicale e lento nei cambiamenti, l’altro superficiale, sfrangiato e continuamente cangiante, anche la politica si struttura allo stesso modo: esistono correnti superficiali che rispondono a problemi prettamente contingenti, che variano così di giorno in giorno, quasi, e esistono flussi molto più profondi e radicali che toccano i problemi secolari, più difficili. Tra questi problemi si pone dunque la relazione cultura-economia e la relativa legittimità del potere. A questo livello entra in gioco il potere come forma di dominio e il potere come forma di controllo.
Cosa intendiamo per politica di dominio e politica del controllo già lo si è detto in altro luogo e così l’altra concezione. Diremmo qui solo che la politica di dominio crede nello status quo, mentre la politica di controllo crede fondamentalmente nella necessità di uno sviluppo. I primi tenderanno a cercare di mutare le condizioni sono nel segno del presente mentre i secondi nello spirito di un cambiamento a breve o a termine. I primi cioè crederanno nella fondamentale giustezza del presente e di una ingiusta conduzione di esso, se c’è, i secondi invece crederanno nella ingiusta condizione presente e in una giusta condizione futura. Le prospettive sono dunque molto diverse e così le stesse interpretazioni del presente. Riducendo all’osso, i primi cercheranno di usare il potere per dominare, anche se questa è indiscutibilmente una parola forte, mentre i secondi cercheranno di controllare. Chi ha interesse nel mantenimento della condizione presente saranno tutti quelli che avranno una qualche convenienza al suo permanere. Tutti coloro che hanno un potere, che sia dunque di natura prettamente sociale, economica o politica, a meno che non vedano, a prescindere da quella loro natura di maggiore forza, una qualche ingiustizia, tenderanno a mantenere quel loro potere o ad accrescerlo. In questo modo si sforzeranno di imporsi sull’opinione pubblica per cercare di mantenerla alla condizione presente. Gli strumenti a loro disposizione sono molti ma fondamentalmente si radicano sulla concezione che essi hanno dell’uomo, della riduzione che essi operano. L’uomo è un essere che si sforza di permanere nel mondo. In questo senso, ciò che veramente conta, è che possa soddisfare tutti i bisogni che egli ritiene di avere. Se l’uomo è questo, è concepito fondamentalmente come essere-per-il consumo. Ma se da un lato questi consuma, da un altro produce. Quindi ciò che conta è l’equilibrio tra consumo, distribuzione e produzione. La società, allargando il discorso, è quindi posta in questa condizione indiscutibile. Perché senz’altro l’uomo, come animale, è questo. E tutti sanno quanta importanza abbia per ciascuno questa dimensione basilare, essenziale e imprescindibile. Il potere stesso sarà concepito non solo come la necessaria risultante dello sforzo dell’uomo di permanere nello stato di cose, ma deve essere concepito anche in funzione di esso. In questo senso, il potere deve essere utilizzato per avvantaggiare in tutti i modi lo sviluppo economico. Le altre dimensioni sono trascurabili. In tutto ciò si inserisce la regola tale per cui chi crede in un certo valore tende anche a trasmetterlo e così chi crede nello status quo cercherà, come può, di diffondere nella società le idee tali che possano favorire lo sviluppo economico. Questa operazione non è ingenua, né, d’altronde, di per sé negativa: chi crederà in queste idee penserà che il bene sociale sia nella produzione e così, se si vuole il bene sociale, si deve persistere nel suo sviluppo. In questo modo si procede alla diffusione delle idee di questo stampo: tutte queste cercheranno di mostrare all’uomo di quanto egli sia un essere bisognoso di bisogni in modo tale che sia invogliato tanto a consumare che a produrre, a richiedere gli stesso nuovi consumi e nuove possibilità produttive. In questo modo si cerca continuamente di trasmettere una condizione di perenne instabilità perpetua perché il mondo del bisogno, non c’è quasi da dirlo, è un mondo di per sé stabile nelle richieste e instabile nella soddisfazione. Così alcuni bisogno sono del tutto estranei alla natura umana e ciò non di meno sono posti come necessari. L’uomo così sarà necessariamente visto come un essere egoista e necessario di cure che solo egli stesso può darsi, a patto di credere nello stato di cose presente. Il dominio trapassa dalla credenza di evidenza delle sue basi per un livello più alto, quello della credenza collettiva. E il dominio ha comunque necessità di questa fede perché senza di esso non può comunque riuscire a perpetuarsi ugualmente nel tempo. La visione conseguente della libertà sarà dunque quella dell’arbitrio: libertà è fare quel che si vuole. Si badi bene che quel che si vuole è ciò che si ha voglia. Così l’idea di libertà diventa la possibilità stessa del potere, come poter-scegliere. E per scegliere si intende determinazione-della-soddisfazione-della voglia. Questo è un principio di efficienza della volontà: se ciò che conta è la voglia ( aver-voglia di questo e quello ) quel che importa è la possibilità che questa voglia sia soddisfatta nel modo migliore possibile. Da qui il ventaglio onnipresente della scelta. E la responsabilità della libertà, vista in questo senso, è, appunto, quella di scegliere in modo migliore, a partire dai mezzi messi a disposizione. Status quo, volontà di conservazione del presente, libertà come arbitrio sono le parole chiave dell’ideologia del potere come dominio. Si badi che esse sono molto chiare, facili da comprendere e mirano a quel che l’uomo tiene di più. Se l’uomo è un essere che si sforza in tutti i modi di permanere, nel modo migliore possibile ( ciò da interpretare come condizione materiale ), è a ciò conseguente che tutti sono in grado di capire cosa vuol dire scegliere una pizza buona rispetto a una mela rancida, cosa significa produrre cinque chili di carne o produrne cinquecento. E questa visione intuitiva del mondo, radicata nell’idea dell’uomo come bisogno, ha dalla sua la potenza del bisogno stesso: ogni soddisfazione di un bisogno è un piacere; così è semplice che queste idee attecchiscano facilmente in tutti. E in questo “tutti” intendiamo proprio tutti perché nessuno pensa che l’uomo non debba poter disporre della possibilità di realizzare le proprie voglie. Il problema sta nella diversa interpretazione della “vita vissuta nel modo migliore” e di come si debba formalizzare il relativo problema. In sintesi, alla domanda di come debba essere posta la politica secondo questa concezione, la risposta è: il potere all’economia. Alla domanda di cosa si debba fare è semplice: usiamo il potere al fine di porre le condizioni per lo sviluppo dell’economia. Così la libertà di iniziativa, così la massima liberalizzazione del mercato e così via. Così poi, la conseguente necessità di consenso che ha la sua ragione nella necessità che l’uomo si convinca del suo esser contingente, presente e bisognoso.
L’altra concezione ha come obbiettivo fondamentale l’azione emancipativi della società dalla politica di dominio. Si deve infatti tenere conto che comunque le due teorie politiche si intreccino e si influenzino a vicenda e che entrambe mirano, a modo loro, a integrare le posizioni molteplici degli uomini sul problema. Come s’è detto, sono impostazioni che nascono da cause profonde e si risolvono appunto in impostazioni globali a lungo termine. L’impegno della politica come controllo punterà dunque piuttosto che sulla produzione sulla società. Se il presente è ingiusto perché nel passato ci sono state queste e quelle cause, allora bisogna fare leva sulla mentalità delle persone piuttosto che sul loro portafoglio. In questo senso, il maggior impegno dovrebbe essere quello dell’istruzione, della partecipazione alla vita pubblica e uno sviluppo di nuove idee in seno alla società. L’obbiettivo dev’essere chiaro: portare la responsabilitàdi tutti al singolo. Ma oggi è fatto comunemente accettato che comunque la base di ogni sviluppo sia da ricercare nella capacità di soddisfazione del bisogno piuttosto che ad una sua eventuale limitazione. Ma a prescindere da questa problematica, che come s’è visto è stata la vincente nella storia degli ultimi due secoli e solo perché il mondo progredito ha goduto fino a questo momento solo delle convenienze di una politica siffatta, la tendenza di questi sarà quella di cercare di far prendere coscienza alle persone che l’essere umano è anche collettività e, senza di questa, si risolve solo in una condizione materiale del tutto limitante. Che l’uomo necessiti di questa dimensione collettiva è attestato dalla frequente realtà di egoismo e conseguente solitudine e frustrazione che ognuno sente sulla propria pelle. Il problema però è che si sente troppo spesso che l’uomo è solo questo, che l’uomo, per il suo bene, deve essere ridotto a quel coagulo di bisogni che fa sì che possa permanere nel mondo. Ma se questa è una condizione di base, non per questo si deve pensare ad essa come punto di fine, piuttosto come punto di inizio. L’uomo si è sempre infatti posto in collettività proprio perché, da solo, era incapace in tutti i sensi di provvedere a sé stesso. In questo modo l’importante in questo momento è appunto cercare di riporre la questione della collettività in primo piano e considerare questa come l’ideale dell’uomo. Il limite, che non è un limite dappoco, di questa impostazione è nella necessità che questa idea pone: per capire ciò bisogna fuoriuscire da una condizione materiale vincolante. Per fare questo non si deve, come molti credono, porre la possibilità di ogni bisogno, ché tanto v’è ne saranno sempre di nuovi, piuttosto bisogna diffondere la conoscenza. Conoscenza non come strumento ma come fine, conoscenza come necessità di fratellanza. Ma la conoscenza è controintuitiva per molti e così è facile, in una condizione di minorità culturale, imporre all’uomo l’idea della condizione insuperabile dell’uomo come funzione produttiva e consumativa del sistema.
Bisogna dunque insistere perché si cambi mentalità affinché anche quelli che non hanno possano avere e che tutti possano vivere senza doversi continuamente sentire o ai margini di una società inumana o all’interno di una società che un tempo sarebbe stata chiamata: stato di natura.
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