Di Giangiuseppe Pili www.scuolafilosofica.com
Fine della politica?
Nella nostra quotidiana comunicazione ci sono molti luoghi comuni, come nello spazio anche nelle parole. Uno di questi è l’idea della chiarezza, un’idea in certi contesti molto giusta ed importante; ma proprio dove la si reclama non si vede. Generalmente questo bisogno, quello di vederci chiaro, è invocato da chi non ha le idee chiare e le pretende dagli altri. La natura umana tende più a conservare il proprio piuttosto che a diffonderlo, così chi ha idee chiare tende a non esprimerle. Ciò avviene dove o è difficile parlar chiaro o è sconveniente. Quando si ha a che fare con argomenti delicati che toccano la materia viva che tutti vorrebbero, un tempo si chiamava oro oggi cash, più astrattamente e sempre potere, tutti ci vanno cauti perché le parole hanno un peso, anche economico. Un altro luogo molto comune da parte di molti comuni mortali è l’asserzione deliberatoria nei confronti della politica: “non mi esprimo, di politica non ne capisco nulla”. Perché dicono di non saperne niente? Perché non ne vedono un fine preciso. A molti non interessa tanto una definizione geometrica di un concetto, quanto di una definizione della sua funzione. Se tutto viene concepito in vista di un fine, se tutto viene pensato come mezzo, se solo tramite la definizione del fine si perviene alla comprensione allora per molti non si comprende il concetto senza l’esplicazione del fine.
Vogliamo parlar chiaro e rispondere alla domanda che tanti usano come scudo: la politica serve per controllare gli uomini. La politica è il potere della società sulla società. La politica è nata come forma di controllo e permane come forma di controllo. Come ogni forma, essa subisce delle variazioni anche non irrilevanti ma, che piaccia o no, la sostanza rimane comunque la stessa. Se la politica è controllo dell’uomo sull’uomo, potremmo chiederci, giusto per gusto personale, se ciò sia giusto. Ma questa domanda è di per sé aleatoria e ingiustificabile: se la politica è uno sviluppo della società umana, se la società umana si pone nella storia, se la storia determina la società umana allora la politica stessa è posta dalla storia e si evolve nella storia. Poteva non nascere, forse, poteva essere concepita in modo diverso, cosa molto improbabile, ma senz’altro la politica è questo. Più importante è domandarsi lo sviluppo della politica nella storia. Dell’assurdità della domanda ci si avvede se posta usando un’attività di altro ambito: chiedersi se sia o non sia giusto che la politica sia essenzialmente controllo sarebbe come chiedersi se sia giusto o non giusto che la matematica sia essenzialmente calcolo. In quanto la politica ha le sue leggi, che partono da quella della necessità del controllo, e le leggi si inscrivono in un contesto storico, è lecito domandarsi piuttosto se, a partire da quelle leggi, si possa sviluppare qualcosa di positivo per l’uomo o no.
Le forze politica nella storia si sono sempre mosse dalla presa di coscienza della necessità della politica, ossia della imprescindibile elaborazione di un corpo di leggi, e della relativa applicazione, per gli uomini di una società. Ogni società ha la sua storia e così ha le sue leggi. Fin qui parrebbe che tra gli schieramenti politici non ci sia alcuna distinzione. Ma non è così. Infatti dalla definizione di politica nascono due problemi decisivi per la successiva differenziazione politica: se la politica è controllo dell’uomo sull’uomo, cos’è questo controllo?, in cosa consiste effettivamente e quali conseguenze ha? Il controllo è interpretato in due modi molto diversi: 1) il controllo è dominio, 2) il controllo è regolazione. I primi sono generalmente quelli che intendono preservare lo stato di cose o cambiarlo solo se permangono di fatto gli stessi schemi sociali. Questi avvertono che lo stato di cose sia giusto e non abbisogni di altro per prosperare. I primi così tenderanno a predisporre le forze del potere, che altro sono se non le istituzioni della società, in modo da lasciare intatto ciò che esiste.[1] Sempre gli uomini di questo parere avranno in sé l’idea gli uomini non solo necessitino di sapere ciò che devono fare ma che sia necessario, per il bene di tutti, che lo facciano senza porsi troppe domande. I secondi invece, a prescindere che condividano o no lo stato di cose presente, credono che l’uomo non debba essere costretto acriticamente a fare o non fare una certa cosa, ma che sia necessaria una certa libertà. I secondi credono nell’autonomia dell’uomo nel prendere decisioni autonome da una autorità superiore e pensano che l’uomo possa realmente autogestirsi, non abbisognare che di regole di massima ma che non ne vincolino il pensiero, solo il comportamento.
Il problema emerso è dunque questo: cosa fare del potere della società? Questo potere non è poi qualcosa di astratto, ma è quel che più di concreto ha avuto l’uomo nella storia. Il potere è la capacità e volontà di gestire la forza produttiva di una società. A questo punto si vede immediatamente come il concetto di potere sia neutro, senza fine. Ed è sol’ora che nella politica si inserisce il problema della visione del mondo.
Cosa è la politica?
Se la politica è controllo, se il controllo è il potere della società sulla società, se il potere è neutro ovvero senza scopo di per sé; allora perché il potere non sia più neutro e prenda così una direzione, un senso definito abbisogna di qualcos’altro, di una visione del mondo.
Ci sono due possibilità che si determinano a questo punto: l’idea della politica come dominio e la sua visione del mondo, l’idea della politica come regolazione e la conseguente visione del mondo. Operando questa riduzione schematica, che lascia fuori più o meno tutto, cerchiamo solo di cogliere l’essenziale del problema: come gli uomini cercano di affrontare il problema politico.
I sostenitori della politica come dominio, ritenendo di dover difendere lo stato di cose, concepiranno la politica in tutto come una scienza: se l’uomo è nella natura, se l’uomo è nella società, se l’uomo è passibile di limitazioni e vincoli allora bisogna conoscere le leggi a cui soggiace per poterlo vincolare più saldamente allo stato di cose. Diciamo solo di sfuggita che crediamo all’onestà di chi propone questa posizione, ossia che ritiene che questa operazione sia a fin di bene per tutti e non solo per pochi. Così la politica diviene una scienza a tutti gli effetti. La presa di coscienza più convincente di questo versante politico è l’opera somma di Machiavelli, il Principe. D’altronde, come tutte le cose si sforzano di permanere nel mondo in tutti i modi, allo stesso modo fanno le istituzioni e il potere relativo così il potere di una società, o di una sua parte, tende a conservarsi fin che può. L’espressione della politica come scienza tenta di tenere saldo questo principio di autoconservazione del potere aggiungendovi la qualità morale di “giusto”. Se lo stato di cose è giusto, se l’uomo è posto nella società, se questa società tende a mantenersi allora bisogna solamente capire il modo migliore per mantenere lo stato di cose. Certamente non si tratta di stabilire se per chi crede in questa dottrina politica il mondo sia in tutto giusto, piuttosto di vedere cosa loro intendano per ingiusto. Chi crede nello stato di cose è chi, paradossalmente, ha una idea più negativa dell’uomo ed è nei confronti suoi e della natura più sfiduciato: l’uomo deve essere dominato perché, altrimenti, farà solamente danni. L’uomo infatti è per lo più impotente e ignorante per ciò cattivo e agisce a caso così se vuol vivere in una comunità di uomini deve essere ricondotto ad essa con la forza. L’uomo non è passibile di alcun miglioramento sociale, ossia di apertura nei confronti degli altri uomini in positivo, è e rimane sempre e comunque un egoista che tutto fa in nome di se stesso. Siccome son tutti egoisti e tutti dobbiamo vivere ecco che la società giusta è quella che mantiene intatto l’egoismo, il prezzo da pagare è l’obbedienza alla società.
C’è però chi non crede che lo stato di cose sia giusto. Ovvero se la società è nella storia, se la società deve rispecchiare l’uomo, se la storia della società è la storia dell’uomo allora bisogna nella storia pervenire ad una società che nell’evoluzione porti ad uno stato di cose diverso, migliore di quello attuale. A questo punto si pone una delle grandi differenze tra la concezione politica del dominio e quella della regolazione: la politica del dominio si impegna per il presente, la politica della regolazione si impegna per il futuro. E da questa differenza si pone anche il diverso approccio, il diverso sentimento, nei confronti della politica: se la politica è pensata per un futuro allora non può essere una pura scienza. Questi vedono la politica come una fantascienza. La scienza a questi non basta perché questa cerca di comprendere le cause a cui soggiace il presente ( quindi il passato e anche il futuro, certo ) ma le cause non dicono come dovrebbe essere il mondo nel futuro. Tutto ciò che la scienza può dire, tanto nella politica che nel resto, è solo se un fenomeno possa o non possa accadere ma non se tra una pluralità di possibilità si debba realizzare una o l’altra: cambiando premesse cambia l’evoluzione del fenomeno. Ma come debbano cambiar le premesse la scienza non dice. Così questi ultimi crederanno di dover prima prendere coscienza dell’ingiustizia del mondo presente ( non-dover essere ) rispetto alla giustizia di un eventuale mondo futuro ( dover-essere ) e solo successivamente sorge la domanda “come si deve fare per passare dal presente ingiusto al futuro giusto?” Da qui la politica come fantascienza: una politica per un futuro alternativo, per un possibile futuro diverso dal presente che non debba mantenere ciò che c’è piuttosto di modificare il male e mutarlo in bene. Questa concezione richiede tanto la fantasia che la scienza perché senza fantasia non c’è altro futuro ma solo un presente spostato in avanti; perché senza scienza si rimane fermi alla fantasticheria.
Spesso si sente dire che, ormai solo nel passato, alcuni scambiassero la politica con la fede. E ciò non è del tutto sbagliato, errato: nella visione politica, tanto in una visione della politica del dominio ( perché certo non ne esiste solo una ), tanto in una visione della politica della regolazione si deve poter credere nell’ideologia di fondo. Perché in una certa misura la politica è realmente una fede: se si parla di idea di giustizia allora si parla di una fede, di un credere-in. La giustizia infatti non nasce dallo stato di cose ma da una concezione di come questo stato di cose deve-essere. Così non esiste una risposta univoca all’unico problema e così si fuoriesce dallo stato di cose per immaginarne uno diverso. Non è un caso che si dica: “io credo che sia giusto”, “io credo che sia ingiusto”. E siccome l’asserzione di credenza si estende, anche se tacitamente, a tutto ciò che la riguarda, dire “io penso che sia sbagliato il sistema” equivale a dire: “io credo che il sistema sia ingiusto” e così “io penso alla sinistra come il mio partito” equivale a dire “io credo nella sinistra”. La credenza attinge non alla ragione, piuttosto ad una possibilità, una possibilità tra le varie che si considera come più importante, più valida delle altre. Credenza è possibilità più valore ( che, nella maggior parte dei casi fa contemplare le altre possibilità come alternative insignificanti, presenti ma ininfluenti ). Così non è sbagliato né concettualmente né moralmente credere nella politica. Anzi, proprio quando si smette di credere in essa si scade nella concezione dell’egoismo più cupo e di una politica di puro sfruttamento del reale, nella politica dei “ladri”. Quel che ci può essere di sbagliato, moralmente, è la volontà di annullare tutte le altre possibili credenze ritenendole ingiustificatamente sia sbagliate moralmente che errate razionalmente. Nella politica, in ultima analisi, tutti si pongono sullo stesso piano.
La società, l’economia… e la politica?
Ultimamente si sente molto parlare di una “antipolitica”, di un sentimento popolare molto diffuso. Questo sentimento, se così si può chiamare una parola imposta dai mass media e che ha una realtà relativa agli strati più mediocri della nostra società, tradisce un problema reale. Più che mostrare una crisi di valori, di sentimento sociale o che, mostra l’appiattimento della società e della politica all’economia. Siccome l’economia è il mondo della produzione e la produzione non richiede “credenze”, sentimenti e quant’altro di influente e significativo, ecco che con quest’appiattimento si ricade in una perdita significativa di valore della politica e della società. Di quest’appiattimento non soltanto si sente dire in giro che sia cosa normale, ma pure giusta: se l’economia è quel che si crede essere la produttrice dei beni che tanti credono di necessitare, se l’economia è quel che da lavoro, se l’economia è quel che da potere allora l’economia è ciò che c’è di più importante.
La politica è sempre stata la testa della società umana, ovvero il suo pensiero così l’economia è stata il suo corpo. A politiche intelligenti si sono sempre susseguite economie intelligenti e sebbene per una buona politica si necessiti già di una precedente buona economia ciò nondimeno non è necessario. L’economia non è in grado di porre alcuna idea interessante sulla giustizia in quanto essa mira piuttosto a conservarsi o ad ampliarsi a scapito di quel che rimane fuori, ammesso che ci sia qualcosa che non vi possa entrare a forza.
Per tenere sotto controllo l’economia si necessita di una società matura, capace di scindere il piano economico dal piano dell’organizzazione, come a dire il foglio di carta dal messaggio scritto su di esso. Il problema nasce quando la società concepisce tutto ciò che esiste in funzione della sua stessa consumazione. Quando nella società si perde di vista il contenuto sostanziale del mondo, il suo lato più sottile e importante a vantaggio dell’oggetto puro e semplice, della bruta sopravvivenza scartando accuratamente tutto ciò che non la implica immediatamente, quando nella società si dimentica l’evoluzione storica, le difficoltà e le conquiste costate sangue e fatica di altri, quando nella società si perde di vista l’importanza della società stessa si ricade in un cieco egoismo, in un disinteresse nei confronti delle attività umane, in un menefreghismo nei rapporti umani. In sintesi, si ricade in un impoverimento della sostanza. In questo modo il contenuto, quello che banalmente è chiamato fine, non è altro che pura apparenza, immediata, impalpabile e irrilevante. Quando i mezzi per pervenire a fini inutili si moltiplicano a dismisura e non se ne avverte il nonsenso solo perché la cultura della società stessa si è miseramente impoverita allora si giunge irrimediabilmente alla scissione tra società, economia e politica dove tutto ciò che ostacola il mezzo di produzione e distribuzione diventa negativo. Questo sentimento di povertà della cultura della società genera quel sentimento così facilmente veicolabile che è “l’antipolitica”. Un sentimento da combattere e da non ripetere con troppa serietà.
Politica!, Politica!, Politica!
Il problema politico, come s’è visto, parte dal problema del controllo e della sua gestione, si intreccia con quella sfera che solo ultimamente, negli ultimi due secoli, si è scissa dalla politica diventando, reclamando autonomia anche dove non solo non c’era la necessità, ma dove era pericoloso darla. Che l’accumulo delle ricchezze dell’attuale società occidentale sia stato fatto attraverso lo sfruttamento iniziato dagli spagnoli in america latina e perpetuato da tutte le altre potenze fin dal cinquecento è un fatto storico spiacevole ma assodato. E’ necessario porre un limite a tutta una serie di tendenze nefaste per la totalità della società, tornare a credere in un bene collettivo, anche per quelli più chiusi ed egoisti perché bisogna tornare a pensare ad una collettività qualitativa e non più numerica, ad una società che sia unita non dall’egoismo ma dal comune sforzo verso obbiettivi comuni.
Uno dei problemi più forti che si riscontra nel nostro Paese è il forte senso di autonomia dalle responsabilità collettive, avvertite come inutili catene poste dallo stato dispotico. La dispersione delle responsabilità porta ad uno svuotamento del valore degli individui stessi. Se una società disperde il proprio valore, se la società si evolve nella storia allora l’evoluzione sarà di un progressivo svuotamento. Se la politica richiede uno sforzo comunque collettivo, se la politica di una società si evolve, se la società si sta svuotando di valore allora anche la politica si svuoterà di valore. Per invertire questa tendenza a svuotarsi di impegno morale si potrebbe cercare di decentrare il più possibile lo stato in modo da riportare la responsabilità sull’individuo. Infatti se l’individuo permane in una società in cui esso scompare allora necessariamente si disinteresserà di quella società e baderà solo al suo cieco interesse. Ma se l’individuo bada solo a sé si ritroverà presto confinato in una solitudine fredda e in un inevitabile circolo di piccoli odi quotidiani scatenati dalla costante invidia e insoddisfazione e, in ultimo, anche ad un impoverimento materiale. Bisogna cercare di riportare la politica nel piccolo paese e ridimensionare l’importanza delle istituzioni regionali e spaccare il più possibile la volontà delle industrie a ridurre tutta la società ad un pacchetto di istruzioni universale. Bisogna ripartire dall’istruzione facendo in modo che le ingiustizie, le differenze sociali si appiattiscono, cercando di eliminare quel senso di disinteresse morale e irresponsabilità che ormai regna nelle scuole da almeno un trentennio. Bisogna far crescere cittadini responsabili e non degli anarchici caotici e incoscienti.
Per far tutto ciò c’è la necessità che si riprenda a lavorare, a credere, a impegnarsi nella politica, la necessità allo sforzo verso qualcosa che non sia solo una retribuzione delle “troppe” tasse, dei lamenti dei media dei rincari dell’euro. C’è bisogno che di nuovo il cittadino italiano si senta prima di tutto un cittadino moralmente, personalmente impegnato nella vita quotidiana per un futuro che non sia come questo presente: apparentemente senza via di uscita in un circolo di un egoismo senza senso. C’è bisogno di tornare alla politica.
[1] Ciò non significa che se devono mantenere un certo privilegio non siano disposti a cambiare la realtà. Ma di fatto se cambia solo il modo, la sostanza subisce variazione solo nella sua percezione.
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