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Vita
Se ci fosse ancora qualcuno che potesse dubitare della bontà della condizione di guerra, sia essa civile, non civile, una rivoluzione o semplicemente uno sfogo di piazza o di pazzia, potrebbe utilmente leggere le pagine sofferte di Hobbes per rendersi conto che la vita è qualcosa che è molto al di là di un gioco di potere. Le pagine, infatti, sono l’espressione compiuta di una coscienza che ha vissuto un periodo storico assai difficile e travagliato.
Hobbes nasce a Malmesbury il 5 aprile del 1588, lo stesso anno in cui la regina Elisabetta Tudor rifiuta le proposte di matrimonio del re di Spagna, Filippo II, figlio dell’altrettanto cattolicissimo, Carlo V. Il rifiuto fu il pretesto per intraprendere un’azione decisa ai danni dell’Inghilterra, allora ancora non potenza mondiale né stato egemone in Europa.
Era infatti in atto la guerra di corsa, così detta, non perché giocata sui cento metri, ma perché vedeva l’inghilterra impegnata a logorare il magniloquente impero spagnolo con rapidi assalti portati da “truppe non convenzionali” quali erano i corsari. I corsari, infatti, erano uomini ambigui, mezzi pirati e mezzi soldati, che avevano il compito di saccheggiare i mercantili provenienti dall’America, allora ancora dominata quasi per intero dalla Spagna: non nel senso che le Americhe fossero interamente soggette al dominio spagnolo, ma nel senso che solo la Spagna aveva possessi oltre la propria terra nel vecchio continente.
La guerra non era dichiarata apertamente e la regina Elisabetta giocava d’astuzia proprio per ottenere il suo scopo: un costante indebolimento della flotta spagnola, con il conseguente incremento di spazio e di forze per la propria marina, da questo periodo, in crescente espansione; contemporaneamente, però, cercava un conflitto aperto con i potenti spagnoli, “nazione” egemone in Europa seppure inguaiata in numerose e dispendiose guerre sia contro la Francia, nemico di sempre di tutte le nazioni europee[1], sia contro la recalcitrante Olanda.
Ma la politica di contenimento dell’Inghilterra, prudente ed efficace come quelle che solo alcuni geni riescono a condurre, non poteva però permanere a lungo: la richiesta di matrimonio di Filippo II implicava proprio la risposta alla domanda: “sei con noi o contro di noi?”
Una spedizione armata, l’invincibile armata fu allestita e mandata contro gli inglesi. Il fato volle che la flotta spagnola fosse devastata da una tempesta dove affondarono metà delle navi. D’altra parte, la flotta inglese aveva diversi vantaggi strategici: 1) conosceva il mare locale ( la battaglia si svolse vicino all’Inghilterra ), 2) aveva navi meno potenti quanto al fuoco ma più veloci, 3) i marinai erano maggiormente preparati alle manovre. In effetti, proprio per queste caratteristiche, ovvero una flotta più potente ma pensante e ignorante del territorio sconfitta da una apparentemente meno pesante, ricorda molto lo scontro tra greci e persiani, vinto dai greci di Temistocle.
Ad ogni modo, l’ascesa dell’Inghilterra inizia in quel momento, con quella vittoria, con quella “dichiarazione di indipendenza”. Nel 1603 la regina Elisabetta muore e nel 1618 viene fondata al prima colonia inglese nel territorio spagnolo: la Virginia.
D’altra parte, l’affermazione dello stato moderno non era un processo privo di contraddizioni e di dolore, tale che ancora oggi vediamo le differenze nella costituzione degli stati che dominano l’Europa. La necessità di questa “riorganizzazione delle forze” era chiara solo a posteriori, per noi, non certo per i contemporanei che vivevano continuamente divisi tra una condizione semiperenne di guerra religiosa intestina, sfociante in guerra civile, e conflitti di carattere extranazionale, per l’egemonia dell’Europa. L’Inghilterra ebbe un carattere più accentuato e rapido in questo processo, insieme alla Francia, proprio perché le necessità di un’aggressiva politica di egemonia richiedeva un’organizzazione coerente ed elastica.
Così gli anni che seguirono l’ingresso dell’Inghilterra nei delicati equilibri del continente Europeo, furono segnati da continue lotte civili, scontri sanguinosi. E questo è il periodo in cui Hobbes vive e studia.
L’Inghilterra già con Occam era una nazione attenta agli sviluppi culturali e con Bacone si ebbe una sorta di riconferma. Storicamente, i centri più attivi dal punto di vista culturale erano Cambridge e Oxford e proprio in quest’ultima località studia Hobbes e consegue nel 1608 il bacellierato nelle arti. Egli viene assunto dalla potente famiglia dei Cavendish come precettore di William, suo primo pupillo. Con questi Hobbes compie alcuni viaggi in Italia e in Francia per la durata di tre anni.
Nel mentre in Inghilterra la situazione non è delle più stabili: lo scontro portato tra le varie fazioni religiose arriva fino al punto di un “11 settembre” inglese: la congiura delle polveri nel 1605. Fu chiaramente un atto gravissimo, un attentato alla vita del re, Giacomo I. Questo era dovuto all’inconciliabile condizione delle “fedi” religiose nell’Europa dell’epoca: non solo in Inghilterra, ma in tutta la cristianità si era avvertita ben prima di Lutero, la necessità di una revisione radicale del ruolo del papato e un chiarimento dell’attività della chiesa.
Bisogna notare che in tutto l’arco del tempo in cui esiste il papato e la Chiesa cattolica romana, esiste una continua necessità di revisione del credo e della vita pubblica della Chiesa stessa, in altre parole, il ruolo della Chiesa è sempre stato aggiornato. Questa operazione era sempre maturata per due linee, una dal basso e una dall’alto: la popolazione, tendenzialmente povera, era soggetta non solo al controllo da parte dell’autorità politica, ma anche di quella religiosa, sia da un punto di vista meramente economico, sia da un punto di vista culturale. Come dice lo stesso Hobbes “il potere si conserva esattamente come si acquista” e cioè con le virtù ché vengono seguite per rispetto e non per obbligo, ma, come lo stesso Filosofo dice, quando viene meno la credibilità dell’autorità del potere, perché non più retto ma iniquo, si crea una spaccatura. Questa spaccatura non è altro che la testimonianza di una separazione tra l’istituzione e il corpo della popolazione controllata. Nella storia della Chiesa, questo problema di distanza è ciclico. Ma l’organizzazione della Santa Romana Madre Chiesa è sempre stata molto elastica ed ha sempre risposto in maniera elastica ma intelligente al problema: condannò tutte le correnti più estreme chiamandole “eretiche”[2] e creò dei nuovi ordini che, di volta in volta, asservivano uno scopo specifico. Questa fu l’origine della maggior parte degli ordini più potenti della cristianità: i cistercensi, i domenicani, gli ospedalieri ( poi cavalieri di Malta ), i templari, i teutoni ( tutti ordini guerrieri, addestrati alla combattimento e inviati durante le crociate per conquistare la terra santa. Fu grazie a loro che ci fu qualche risultato duraturo ), i francescani, i gesuiti. Poi, per scoprirne di nuovi, basta dare un “fine” ad un ordine sconosciuto: bisogna convertire la classe politica, ecco che arrivano i gesuiti; bisogna creare un ordine missionario per il popolino, ecco che arrivano i francescani. In effetti, si potrebbe scrivere una storia della Chiesa anche solamente a partire dalla determinazione dei “fini” delle nuove organizzazioni: si scoprirà tutta l’elasticità ed efficienza della Chiesa cattolica.
Ma ci furono anche pensatori che, per fortuna o per popolarità, non riuscirono ad essere ricondotti sotto l’unica voce della Chiesa. Il primo di questi uomini fu Erasmo da Rotterdam, un uomo felice, troppo felice. Infatti egli era sostenitore di una dottrina troppo fatta per la felicità degli uomini e cioè che il “cielo”, inteso come paradiso, è aperto a tutti, nessuno escluso. In altre parole, non esiste né inferno né paradiso e la scelta di una vita cristiana o meno non è data dalla paura ma dalla gioiosa accettazione di Dio e delle virtù. Se Dio è buono, non può non accettare il suo figlio o con clemenza o con gioia. Era una dottrina troppo rivoluzionaria, troppo giusta perché i potenti l’accettassero: infatti, con tale operazione, significava escludere il ruolo della Chiesa, essa non aveva più senso, nella misura in cui comunque, anche senza di essa, ci si sarebbe salvati ugualmente. Non solo, ma l’antropologia stessa veniva rivista: da negativa, come quella cattolica, che crede in una continua necessità di revisione delle idee e dei gesti dell’uomo, sempre costantemente dedito all’errore e al peccato, si affermava una positiva, dove ogni uomo era responsabile non di fronte a Dio, ma di fronte a se stesso e, in questo modo, di fronte agli altri uomini. Una visione bellissima e esemplare di come si potrebbe vivere la religione in modo felice e sereno e non in modo coercitivo e schiavile.
Erasmo era un uomo pacifico, come la sua dottrina felice, e non volle mai fuoriuscire dallo steccato della Chiesa. Alla sua morte i suoi scritti furono messi all’indice, inutilmente, vista la loro diffusione in tutti gli strati della popolazione.
Ma non tutti gli spiriti erano così pacifici e, soprattutto, accondiscendenti a trovare una qualche forma di compromesso. Lutero operò, in questo senso, un cambiamento radicale che fu più utile sul piano politico, in un certo senso, che sul piano religioso. La sua dottrina, infatti, faceva piazza pulita della Chiesa e, così, tutto era rimesso al singolo, dall’interpretazione della bibbia ai sacramenti. Tale operazione consentì ai sovrani di poter pretendere di avere il diritto assoluto sulle loro terre, giacché, prima, i papi avevano il potere di destituire il sovrano: la scomunica, un’arma non convenzionale ad alta capacità di potenza.
In tutte le nazioni d’Europa si formarono due fazioni: quelle favorevoli alla riforma e quelle che favorevoli al papato. Si faceva leva su due sentimenti contrastanti: in generale, erano palesi le continue forzature e ingiustizie che per mano della Chiesa, attraverso i suoi intermediari, venivano compiute, la vendita delle indulgenze[3] era una delle tante forme. Il sentimento di mondanità e ingiustizia erano tali da destare un desiderio di cambiamento: la stessa dottrina della Chiesa dava adito a questo sentimento d’odio. D’altra parte, però, c’era anche chi credeva nell’ingiustizia del cambiamento, per esempio gli stessi vicari della Chiesa e coloro che continuavano a credere nella necessità di un cambiamento dall’interno. Ma c’erano anche tutto un pulviscolo di desideri singolari che trovavano uno sfogo nel nuovo clima e nelle possibilità rese disponibili dalla concezione luterana, per esempio, la necessità del potere politico di staccare i sudditi dal giogo che aveva con il papa. In questo senso, nasceva un nuovo clima dove la pluralità dottrinale era uno stimolo per tanti.
Ma non era semplice affermare questa necessità e ovunque si sono avuti scontri sanguinosi per la conquista delle coscienze del popolino, perché, alla fine, il controllo delle masse non è null’altro che la detenzione della fede delle masse: è la guerra della conquista dell’ignoranza. In questo senso, va interpretata la guerra alla cultura, più volte promossa ed incoraggiata da autorità politiche e religiose: tutta la ragione degli uomini ha sempre ucciso di meno che anche una sola fede ( ideologica o religiosa ) ma essa ha sempre mostrato, assai spesso, l’assurdità di vincoli che determinavano, naturalmente, forme di dipendenza economica. L’odio della fede nei confronti della ragione è l’odio dell’ignorante di fronte all’intelligenza: esso sa di non controllare e di essere controllato.
Se la riforma di Lutero ha preso quasi immediatamente, è anche vero che per vedere i suoi frutti più maturi sul piano dell’ordine pubblico, bisogna aspettare qualche tempo: un centinaio di anni. La guerra dei trent’anni fu uno dei più grandi macelli della storia europea tanto che ancora all’epoca della prima guerra mondiale essa era ricordata con terrore.
In ogni stato c’erano problemi di ordine religioso, diverse fazioni in odio reciproco cercavano di convincere i potenti e i meno potenti per raggiungere la maggioranza o la sufficienza di persone che garantissero loro la sopravvivenza.
Anche in Inghilterra c’erano sostenitori del papa e sostenitori dell’ormai affermata Chiesa Anglicana, che aveva il re come massima autorità. All’epoca di Hobbes, tutto questo era già affermato seppure non del tutto, infatti ancora c’erano sostenitori del cattolicesimo.
Hobbes ha modo di vedere l’Europa, in tre viaggi ma rimane sempre legato alla sua patria, con tutte le difficoltà che poteva avere. Ancora, all’epoca, esisteva un certo senso di attaccamento alla terra tale da rendere il viaggiatore un osservatore per la propria nazione. D’altra parte, per Hobbes, l’individuo era qualificato solo all’interno delle leggi di uno stato, dunque, egli stesso doveva sentirsi a questo modo, vincolato alle leggi e alle sorti del suo Paese.
Dopo essere tornato in Inghilterra dal primo viaggio con William Cavendish, diventa il precettore del figlio di Sir Cliffort, nel 1629 e di lì a poco, intraprende un nuovo viaggio in Francia e in Svizzera, nel pieno della guerra dei trent’anni. In Francia ancora regnava la pace ed egli ebbe modo, dopo esser di nuovo tornato in Inghilterra, quindi ripartito, di entrare in contatto con i maggiori esponenti della cultura europea dell’epoca: Galileo e Cartesio e il circolo di intellettuali riuniti attorno al gesuita Marin Mersenne, a sua volta amico di Cartesio. Di questo periodo sono le Obiezioni alle meditazioni metafisiche di Descartes ( 1641 ).
Hobbes, ispirato dalla realtà culturale dell’epoca, aveva già iniziato ad articolare il suo sistema filosofico, incentrato su un rigido materialismo e meccanicismo. Il suo sistema tocca ogni tema della realtà umana. Egli era chiaramente un uomo di lettere e aveva una grande conoscenza umanistica, come testimonia la sua traduzione de la “Guerra del Peloponneso”, capolavoro irraggiungibile di Tucidide, prima sua pubblicazione del 1628; ma anche le puntuali citazioni e riferimenti nelle sue opere a letture umanistiche, che spaziavano dalla conoscenza dei classici a opere più recenti. La cultura rinascimentale, in Hobbes, trova un grande interprete capace anche di oltrepassarla: se la conoscenza dei classici, della bibbia e della filologia, sono chiari indizi di ciò, non si può non tener conto della conoscenza della nuova scienza e, soprattutto, della “rivoluzione” antropologica della politica di Hobbes. L’uomo è il centro dell’opera di Hobbes sia dal punto di vista della sua ricerca epistemologica, sia dal punto di vista della sua analisi politica. Lo Stato non è altro che l’insieme degli uomini ( prima ancora che delle cose ) ed è governato da un uomo, il sovrano. I valori dello stato sono disposti dal sovrano stesso che è portavoce di se stesso, in quanto uomo, e dello stato, come insieme di individui riuniti in un unico patto. In ogni caso, si tratta di un uomo demandato da altri uomini. Come è chiaro, non c’è alcuna intromissione di Dio o di angeli, tutto è una questione d’uomini.
Nel periodo della pubblicazione della traduzione de la “Guerra”, in Inghilterra c’è un durissimo scontro tra il nuovo organo di governo, il Parlamento, e il re Giacomo I. Il Parlamento inglese era costituito da due camere, la camera dei Lords e la camera dei Comuni. Nella prima camera c’erano i rappresentanti della nobiltà inglese che aveva a disposizione quei posti per diritto, mentre nella seconda c’erano i rappresentanti delle città dell’Inghilterra ( due per ciascuna ), ed era una carica elettiva.
Lo scontro tra il parlamento e il re era una questione di necessità: era il periodo in cui la monarchia andava semplificando i particolarismi politici, il caso più noto è quello di Luigi XIV, preceduto da Rechelieu e Mazzarino. Il processo però è molto lungo e va fatto risalire addirittura all’alto medioevo, dove la corona si dovette imporre sui singoli feudatari. Fu un processo lungo e complesso, che richiedeva la forza bruta e l’intelligenza. Dopo la costruzione dei castelli e il proliferare delle fortificazioni, simbolo per eccellenza della forza del particolarismo politico medioevale, si assiste ad un ridimensionamento dell’organizzazione della cosa pubblica. In Francia, nonostante tutt’oggi rimangano i gloriosi resti dei castelli medioevali, circa trentamila castelli furono eliminati. D’altra parte, la guerra delle due Rose in Inghilterra non fu altro che uno scontro tra famiglie in lizza per la successione al trono e l’unico risultato fu proprio quello di consentire un accentramento e semplificazione della gestione del potere a causa della morte di gran parte della nobiltà. L’autorità politica e pubblica di Enrico VIII e di Elisabetta I sarebbe infatti impensabile senza una semplificazione radicale della potente nobiltà di sangue. D’altra parte, anche la guerra dei cent’anni fu lo stesso per la Francia. Ma i processi storici si affermano lentamente e ciò è testimoniato proprio, in Francia, dalla guerra dei tre Enrichi, nel 1588, a seguito di un problema dinastico ma che mostrava ancora quanto il particolarismo politico fosse una questione all’ordine del giorno.
Il parlamento, un organo sentito tanto dalla nobiltà estromessa dalla gestione del potere e dalla ricca o meno borghesia delle città, era un’istituzione che andava sempre più ricercando un suo legittimo spazio. Il potere del parlamento non era affatto privo di forza: tramite esso dovevano essere approvate le tasse, quella che oggi sarebbe chiamata “politica finanziaria”. Il re, dal canto suo, tendeva ad accentrare i poteri e, dunque, lo scontro risultava necessario. Inizialmente però, Carlo I dovette concedere la Petition of Rights ( 1628 ) che concesse diritti importanti ai parlamentari.
La guerra del 1638, condotta dal re contro la Scozia cattolica, fu combattuta inizialmente dopo lo scioglimento del parlamento. Egli cercò di fare a meno di richiedere tasse ma, alla lunga, ciò divenne insostenibile e determinò la riunione del parlamento. Tuttavia sembrava che non si potesse raggiungere un accordo e fu così che venne di nuovo sciolto. Ma ormai era impossibile procedere senza tasse e così il re dovette nuovamente riunire il parlamento.
Lo scontro andò addirittura a toccare i ministri del re, Laud ( 1641 ) e Stafford ( 1645 ): entrambi giustiziati. Fu un atto rivoluzionario, possibile solo in una nazione dove, nonostante tutti i disordini politici e la difficoltà dell’affermazione di un potere stabile, c’era comunque la consapevolezza che il re era un rappresentate del popolo, e non un essere soprannaturale. Gli uomini incominciavano a capire, guidati dai propri interessi personali, che le faccende umane attengono unicamente agli uomini.
Il pensiero di Hobbes infatti nasce da questa realtà complessa, fermentata e sempre pronta ad esplodere in eccessi e guerre civili, ma, pur sempre, capace di fuoriuscire da problemi con soluzioni, cosa che non tutte le nazioni europee riescono a fare. Hobbes fa proprio il tumulto interiore di una nazione e lo canonicizza in una realtà filosofica complessa, dove la volontà d’ordine e razionalità fanno da ispirazione a tutto lo sforzo comprensivo. La legge e il sovrano sono la lettera e la decisione dello stato, parole e testa. E la stessa visione antropologica, questa sì, in contrasto con un certo ottimismo rinascimentale, si sommano però nella consapevolezza della dipendenza della cosa pubblica dalle azioni dell’uomo e dalla sua capacità di comprensione. L’uomo è in una tensione costante tra l’ordine della legge e il disordine della natura, ma, tramite mezzi umani ( la volontà di soddisfazione e la coercizione fisica ) l’uomo riesce a vincere anche il suo istintuale egoismo.
Dopo la morte dei due ministri era la guerra civile ( 1642-1648 ), il Paese era ormai diviso in due, tra monarchici e filoparlamentari. Abbiamo già fatto riferimento ai due istinti che fanno capo ai due diversi movimenti, e, certamente, in questa guerra civile hanno fatto da ispirazione, non da movente, alle azioni umane. Ma è la spada che spesso decide l’esisto della guerra, la spada che è sempre tenuta in mano da una testa: la vittoria della spada, quando è davvero una vittoria, consegue ad una vittoria anche della testa. Non ci si può sedere sulle baionette, ma è dalle baionette che si può iniziare, come lo stesso Hobbes fa notare.
Se la morte dei ministri del re fece già rabbrividire la schiena di molti nobili di mezz’Europa, senz’altro dev’essere sembrato un cataclisma la morte del re per mano dei parlamentari. E non fu semplicemente la morte, ma la condanna: un re era stato giudicato e condannato non da Dio, ma da un corpo rappresentativo del popolo. Il popolo, seppure attraverso una forma assai limitata, aveva avuto la forza di reagire alle decisioni del monarca, di destituirlo e di condannarlo. Dopo questa morte, senz’altro la politica dev’essere stata vista come qualcosa di differente, rispetto al passato.
Cromwell instaura il suo potere e continua quell’epurazione del particolarismo che aveva tentato il re, egli viene nominato a vita come detentore del potere ( non come monarca ). Egli amministra facendo a meno del parlamento e conduce una politica aggressiva nei confronti delle nazioni avversarie. Si fa carico delle esigenze, ormai sempre più pressanti, del ceto borghese impegnato in investimenti cospicui nel commercio. Nel 1651 è l’atto di navigazione, decreto che imponeva che qualsiasi nave portasse merci in Inghilterra fosse inglese: un duro colpo per il florido commercio olandese.
Ed, infatti, non ci volle molto che l’Olanda dichiarasse guerra all’Inghilterra ( 1652-1654 ), la prima di tante: la sconfitta dell’Olanda iniziò quel processo sempre più rapido di rafforzamento della flotta inglese, militare e mercantile, che, ben presto, le garantiranno l’egemonia, prima in Europa, poi nel mondo.
Negli anni della guerra civile, dal 1640, Hobbes, temendo di poter essere ucciso, finendo nel mirino dei parlamentari, si trasferiva a Parigi, in esilio volontario, dove vi rimane per undici anni e dove scrive il suo più celebre trattato “Leviatano” ( 1651 ).
Nello stesso anno, dopo la morte di Cromwell e la destituzione del figlio, incapace di governare, venne restaurata la monarchia e divenne re Carlo II, educato dallo stesso Hobbes. Ed infatti questi torna finalmente in Inghilterra, dove riceve un vitalizio da parte proprio della corona. Tuttavia, a causa dell’estrema spregiudicatezza delle idee contenute nei suoi scritti, Hobbes fu costretto a bruciare pubblicamente alcuni suoi lavori. Ma negli anni successivi al 1651 scriverà altre due opere di importanza capitale per il suo pensiero, il “De corpore” ( 1655 ) e il “De homine” ( 1658 ).
Sono ancora anni difficili per Hobbes e per l’Inghilterra, ancora travagliata dagli scontri del parlamento e con il re. A Londra addirittura scoppia un’epidemia di peste nel 1665 negli anni 1665-1667 scoppia di nuovo il conflitto tra Olanda e Inghilterra.
Nel mentre, Hobbes vive una vita tormentata dai fantasmi delle sue stesse opere, attaccate sin dalla loro pubblicazione ed è tale l’acrimonia e l’ignoranza con cui vengono offese che egli stesso non riesce a mantenere la lucidità e finisce per scrivere lettere denigratorie, talvolta insensate, contro i suoi detrattori.
Il 4 dicembre del 1679, all’età di 87 anni, muore a Hardwick. Fu senz’altro un grande filosofo e, proprio perché filosofo, forse perché intellettualmente onesto, ebbe più detrattori che sostenitori.
Biografia
Data | Evento |
1588 | Nasce a Malmensbury il 5 Aprile. La famiglia è disastrata: la madre sgrava in anticipo terrorizzata dalla paura dell’arrivo dell’armata spagnola. Il padre presto abbandona la famiglia di cui si prende cura uno zio. |
1592 | Va a scuola a Westport, dove impara a leggere e contare. |
1596 | Va avanti e indietro tra varie scuole. |
1602 | Raggiunge un’ottima padronanza delle lingue latina e greca che gli consente di tradurre la Medea di Euripide dal greco in giambi latini. |
1603 | Lo zio gli finanzia gli studi a Oxford, seguiti senza entusiasmo e preferiti allo studio di carte geografiche e libri di viaggio. |
1608 | Consegue a Oxford il bacellierato delle arti. Pur iscrivendosi all’università di Cambridge, non frequenta mai i corsi. Diventa precettore di Sir William Cavendish. |
1610-1613 | Viaggia in Francia e in Italia con il suo primo pupillo Sir William Cavendish. |
1628 | Deve abbandonare casa Cavendish a causa della morte del William. |
1629 | Diventa il precettore di Sir Clifton. Compie nuovamente un viaggio nel continente europeo, accompagnato dal proprio scolaro. Non si recano in Italia a causa della guerra allora in corso. |
1631 | Torna in Inghilterra e viene richiamato dai Cavendish per prendersi cura del figlio dell’amico-discepolo defunto. |
1634 | Dopo esser tornato in Inghilterra, compie nuovamente un viaggio in Francia e in Italia. Conosce il circolo di intellettuali riuniti intorno alla figura di Marin Mersenne e conosce Galileo. |
1640-1651 | Costretto dai tumulti, si esilia volontariamente a Parigi dove rimarrà per undici anni. |
1646 | Viene incaricato di tenere lezioni di matematica al principe ereditario Carlo Stuart, esiliato a Parigi. |
1651 | Con la presa del potere di Cromwell torna in Inghilterra. |
1660 | Con la presa di potere del suo vecchio scolaro Carlo II, riceve un vitalizio dalla corona. |
1661 | Inizia un’accesa polemica con Boyle e gli studiosi del Gresham College a proposito del vuoto. |
1666 | E’ costretto a studiare la giurisprudenza inglese relativamente ai reati di eresia, a causa delle accuse che gli vengono rivolte da perte ecclesiastica. |
1679 | Muore ad Hardwick il 4 dicembre. |
Opere
1628 | Traduzione de la “Guerra nel Peloponneso” di Tucidide. |
1640 Diffonde inediti | Elementi di legge naturale e politica. |
1641 | Obbiezioni alle Meditazioni Metafisiche di Cartesio. |
1642 | De cive |
1651 | Leviatano. |
1654 | Of Liberty and Necessity. |
1655 | De Corpore. |
1656 | The Questions concerning Liberty, Necessity and Chance. |
1658 | De homine. |
1666 | An Historical Narration concerning Heresy. |
1670 ≈ | Dechameron Physiologicum. |
1675 | Traduzione de L’iliade e de l’Odissea. |
1681 ( Postumo ). | Dialogo tra un filosofo e uno studente di diritto consuetudinario inglese. |
1679-1682 ( Postumo ). | Behemoth. |
Schema di ragionamento
Ipotesi H(obbes)1: tutto ciò che conosco proviene dai sensi.
Specifica a: “L’origine di tutti i nostri pensieri è ciò che chiamiamo SENSO; non si dà nessuna concezione nella mente umana che non sia generata inizialmente, in tutto o in parte, dagli organi di senso”. Leviatano. Cap. 1, Il senso. P. 12.
Ipotesi H2: la sensazione è la modificazione del mio corpo a partire da altri corpi da me esterni.
Corollario I: Quindi ogni uomo ha molte sensazioni di una stessa cosa.
Spiegazione ά: Infatti, se osservo una cosa al tramonto sarà diversa la sua sensazione al mezzogiorno. Se osservo una cosa di rovescio, sarà diverso che se la vedo al dritto ecc..
Corollario II: Quindi tutti gli uomini hanno sensazioni diverse di una stessa cosa.
Spiegazione ά: Infatti se ogni uomo ha molte sensazioni di una stessa cosa, se ogni uomo ha un corpo diverso da un’altra, allora ogni uomo avrà sensazioni diverse da ogni altro.
Specifica a: “La causa della sensazione è il corpo esterno”. Ivi.
Specifica b: In questo capitolo, non è proprio chiaro il motivo per il quale una semplice modificazione del mio corpo determini di per sé una sensazione: infatti, per esempio quando dormo, sono sempre suggestionato da corpi estranei e non per ciò dico, quando dormo, di ricevere impressioni dei corpi esterni come quando sono sveglio.
Infatti Hobbes, è vero, dà tutta una descrizione della fenomenologia-del sogno, ridotta, con una maestria impareggiabile, alla sua spiegazione meccanicista e le visioni del sogno sono presentate come immagini successive alla sensazione tali da oscurare le sensazioni stesse “… si presentano come se si fosse svegli, con la differenza che, poiché gli organi di senso in quel momento sono intorpiditi al punto che nessun nuovo oggetto può dominarli o oscurarli con un’impressione più forte, un sogno deve risultare necessariamente più chiaro in questo silenzio della sensazione di quanto non lo siano i nostri pensieri nello stato di veglia”. Ma non viene spiegato perché tale intorpidimento del corpo sia capace di inibire la mia capacità di sentire. E anche ammettendo che sia un effetto del corpo spossato, rimane il problema di stabilire il perché la memoria, o l’immaginazione, invece, sia “riposata” nella misura in cui Hobbes non può concepire memoria e immaginazione come distinti dal corpo.
Specifica c: I sogni determinano un altro problema: se l’immaginazione riceve delle sensazioni e queste sensazioni vengono conservate, è evidente che esse sono conservate in virtù del tempo. In questo senso, perché i miei ricordi sono sconfusionati e non ordinati secondo l’ordine del tempo? Infatti “… se considero che nei sogni io non penso con la stessa frequenza e con la stessa continuità (…) alle medesime azioni di quando a cui penso da sveglio…” Hobbes, penso, in questo passo voglia rispondere al problema offerto da Cartesio nelle Meditazioni ( al dubbio della prima relativo al sogno ) e lo fa proprio facendo appello alla diversa natura fenomenologica del sogno e della veglia.
Ma ha davvero aggirato il problema offerto da Cartesio? In effetti, non è escluso nel sogno che si dia davvero una grande coerenza, cosa che di fatto accade, talvolta. Inoltre c’è anche da osservare che se stiamo solo alla sensazione e all’immaginazione, ovvero se stiamo al solo dato d’esperienza, come si fa a dire che una data sensazione è stata provata durante il sogno o durante la veglia? Infatti, Hobbes stesso concede volentieri che i sogni siano frutto dell’immaginazione ( quindi della sensazione ) ma, allora, come può esserci un modo che distingua i sogni dalla veglia se, in entrambi i momenti, noi continuiamo a percepire sensazioni?
La continuità poi delle sensazioni non è vero che nel sogno è interrotta: Hobbes stesso, quando parla dell’assenza ipotetica del desiderio, fa intendere chiaramente che non è possibile pensare ad un uomo vivo privo di capacità di sentire ( tanto che la perdita nella capacità di sentire determina stupidità ). Semmai, le sensazioni possono mutare. Però questo “mutare”, quando stiamo dormendo, è talmente “naturale” che non ci accorgiamo di nulla. E quando Hobbes fa riferimento all’incostanza, potrebbe forse alludere all’incoerenza. Ma, mi sembra, che nemmeno ciò basti perché l’incoerenza si dà solo nei discorsi, alla scienza, linguaggio che “conserva” le sensazioni e le mette in relazione: dunque, una sensazione non può essere incoerente o contraddittoria, come è evidente.
Specifica d: la sensazione è ottenuta a partire da un corpo che modifica il nostro. Esistono molte sensazioni di cui non mi rendo conto, come, per esempio, i rumori molto sottili o gli oggetti molto lontani, ma anche molto vicini: ad esempio, pochi notano al presente che nell’attività della vista si vede tanto il proprio naso che il proprio incavo oculare, quando guardiamo a lato o in alto. In sostanza, Hobbes non dice in alcun modo quando siamo “consapevoli” delle sensazioni che proviamo e lascia intendere che siamo consci di qualunque informazione ci provenga dall’esterno. Ma ciò non è sempre vero ed è, soprattutto, dimostrato dalla stessa esperienza.
Specifica e: immaginazione e memoria sono una stessa cosa considerata sotto due modi diversi e ogni informazione dell’una, o dell’altra, è stata nella sensazione. Ora, ci sono delle informazioni che ricordo, altre che non ricordo: secondo quale principio ne ricordo una e non un’altra? L’idea che possa essere in relazione ad una qualche forma di “ripetizione-del già visto” non è sufficiente già che, stando appunto all’esperienza sensoriale quotidiana sia personale che dei più, spessissimo accade che non si “sappia” di particolari evidenti: per esempio, per mesi non mi accorsi che c’era un fregio particolarmente evidente proprio sul palazzo che stava di fronte alla mia finestra di casa. Il problema è, più che altro, che non viene esplicitato il modo attraverso cui la memoria funziona.
Specifica d: non sono sicuro di aver capito bene, per ciò espongo tutte queste questioni. Penso che, probabilmente, l’autore abbia trattato queste delicate questioni in opere meno impegnate politicamente, rivolte specificamente a problemi di natura epistemologica.
Inferenza. Se la sensazione è la modificazione del mio corpo da altri corpi, se il mio corpo è diverso dagli altri, se i corpi che mi colpiscono sono diversi dagli altri allora le sensazioni delle cose variano da persona a persona.
Tesi H1: le sensazioni delle cose variano da persona a persona.
Ipotesi H3: La memoria varia dal corpo e dall’esperienza di ciascuno.
Spiegazione ά: se le sensazioni variano da persona a persona, se la memoria è l’immaginazione considerata nella sua capacità di conservare informazioni intorno al passato, se l’esperienza consiste nella successione di sensazioni allora il contenuto della memoria varia dall’esperienza di ciascuno e dalla capacità del suo corpo di ricevere informazioni.
Ex. Un cieco avrà una memoria diversa da un sordo e avranno memoria diversa da un uomo sano.
Inferenza. Se la memoria varia dal corpo e dall’esperienza di ciascuno, se la memoria conserva le sensazioni allora ognuno ha una sua conoscenza delle cose.
Tesi H2: dunque ognuno ha una sua conoscenza delle cose.
Specifica a: nel senso che ciascun singolo avrà una conoscenza diversa delle cose Se la conoscenza è universale e necessaria, non si vede come, da questa forma sola di esperienza si giunga ad una conoscenza universale e necessaria. Infatti tale conoscenza attiene solo al particolare ( individuo ) della particolare ( cosa ), e non si vede come tale forma di esperienza, così eminentemente singolare, possa determinare una certa universalità: la necessità potrebbe essere in relazione alla singola sensazione, appresa in modo necessario.
Ma anche in questo modo risulta chiaro solo che la modalità con cui riceviamo una data sensazione sia determinata in modo univoco, ma non è affatto necessario che tale apprensione-necessaria determini una conoscenza-necessaria: se la “forma” della sensazione è uguale per tutti, non per tutti sarebbe uguale il suo contenuto. In altre parole, tutti vediamo, ma tutti vediamo cose diverse.
Hobbes parla di scienza solo in relazione al “discorso” ovvero alla nostra facoltà di ordinare le idee in un discorso mentale, quindi verbale, è anche vero però che non si capisce come tale discorso possa mai essere pensato come “univoco” o, quanto meno, intelligibile in relazione al suo significato: ad ogni segno, ognuno associa una sua personale sensazione.
Se due persone sono in due stanze diverse e vedono due oggetti diversi che chiamano allo stesso modo, e se le due persone non potessero mostrare ciò che hanno visto all’altro e parlassero della loro visione sarebbero del tutto incapaci di sapere se la propria sensazione dell’oggetto sia diversa da quella dell’altro.
Specifica b: “Nessun discorso, di qualunque genere sia, può concludere ad una conoscenza assoluta di un fatto, passato o futuro, perché la conoscenza di un fatto è originariamente sensazione e da quel momento in poi memoria. Perciò, la conoscenza delle conseguenze che (…) si chiama scienza, non è assoluta ma condizionale”. P. 53.
Specifica c: Hobbes concede questa non-assolutezza della conoscenza, ma, in primo luogo, ammette la conoscenza assolutamente-soggettiva ( giacché, almeno in questo senso, la sensazione deve essere proprio assolutamente-vera ), in secondo luogo, non è però chiaro, allora, in che senso abbia un senso la scienza se non come “memoria aggiuntiva”. Il problema non è tanto dire che la scienza non può conoscere tutto, ma, a questo punto: che cosa può dire legittimamente di conoscere la scienza?
Inoltre, ma penso che questa sia una questione che Hobbes abbia trattato in altro luogo, come è possibile formulare frasi in un linguaggio comune, se ogni termine ha un significato diverso per ciascuno?
D’altra parte, lo stesso concetto di “causa” diviene problematico: come si fa a dire che esiste una causa quando non esiste altro che la sensazione? Una connessione presente e momentanea di sensazioni è sufficiente a determinare una “fiducia” nella possibilità predittiva di un evento da parte della mente? In effetti, stando a solo questo principio di “causa” come “forma di aspettativa codificata attraverso segni”, si sta alla probabilità che un certo evento possa, effettivamente, ripetersi: ma a questo punto, se è la probabilità a decidere, su quali considerazioni si possono operare calcoli di probabilità?: anche la probabilità necessita di dati per poter trarre inferenze.
Inferenza. Se tutto ciò di cui possiamo avere esperienza è la sensazione, se la sensazione è la pressione di un corpo su un altro, se l’esperienza è la successione delle sensazioni, allora non si potrà avere alcuna possibilità di inferire alcuna regola dall’esperienza.
Problema.
Allora non si può avere alcuna possibilità di inferire alcuna regola dall’esperienza.
Specifica a: il problema che mi si para davanti non è irrilevante rispetto poi alla questione giuridica che Hobbes tratta subito dopo aver dato un quadro generale dell’antropologia materialista. Ho pensato a questo esempio:
Ex.: quattro persone giocano a scacchi. Due persone giocano secondo regole precise, due persone giocano senza regole.
A partire dalla sola conoscenza meccanicista-empiristica della sensazione non posso riuscire mai a distinguere quale delle due partite sia giocata secondo le regole e quale no.
Infatti la probabilità che due partite diverse abbiano mosse uguali o simili tali da poter dare qualche possibile appiglio alla memoria, all’interno delle prime cinque mosse sono abbastanza buone, ammesso che i due giocatori siano bravi ( 1/20 alla prima mossa, 1/20 nella mossa di risposta: ovvero solo alla prima mossa ci sono 1/400 che due partite di giocatori incapaci incomincino allo stesso modo ). Ma tanto più si va in là con la successione delle mosse e tanto più diventa improbabile, se non impossibile, che le partite continuino a mantenere una certa simmetria.
A partire dalla sensazione, infatti, e sempre ammesso che io esperisca le due partite in condizioni ambientali estremamente simili e costanti, al più posso asserire che esistono delle somiglianze, ma mai delle regole costanti.
In altre parole, a partire dalla sensazione e, aggiungiamo pure, dalla memoria, è pressoché impossibile riuscire a dedurre delle regole negli scacchi.
A partire dalla sola conoscenza empirica della sensazione, tutto ciò che arriverei a conoscere di una partita a scacchi, in generale, è che essa è bianca e nera, priva di suono ( giacché è noto che si gioca in rigoroso silenzio ), priva di gusto ecc..
Specifica b: a questo punto, come si può pretendere dalla sola esperienza la possibilità di dedurre delle regole intorno alla legge ( civile e a una qualunque altra forma di regolamento )?
A questo punto passerei alla questione morale.
Ipotesi H(obbes) M(orale)1: tutti chiamano bene ciò che li favorisce.
Ipotesi HM2: tutti chiamano male ciò che li sfavorisce.
Specifica a: “Qualunque sia l’oggetto dell’appetito o del desiderio di una persona, per sua parte lo chiama buono e chiama cattivo l’oggetto del suo odio e della sua avversione, e vile e insignificante l’oggetto del suo disprezzo. Infatti i termini buono, cattivo e disprezzabile vengono sempre usati con riferimento alla persona che se ne serve, dato che non esiste nulla di simile in senso singolare e assoluto, e nessuna regola generale rispetto a ciò che è buono e cattivo che sia ricavata dalla natura degli oggetti stessi”. Cap. VI. P. 43.
Specifica b: in sostanza, tutti chiamano bene o male ciò che li favorisce e ciò che li sfavorisce.
Ipotesi HM3: tutti gli uomini sono guidati dal desiderio di sopravvivere.
Specifica a: “Il DIRITTO DI NATURA (…) è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine”. P. 105.
Specifica b: “i pensieri, infatti, sono rispetto ai desideri, come esploratori e spie che perlustrano ogni luogo per trovare la strada verso le cose desiderate, dato che ogni fermezza e ogni rapidità del movimento mentale deriva da qui”. P. 60.
Specifica c: è chiaro quindi che Hobbes intende la moralità, senza la legge degli Stati, come un che di soggettivo, ed essa rimanda a come unici valori il proprio bene, inteso come capacità di soddisfare sé a scapito di qualunque cosa. In questo senso, l’uomo è privo della possibilità di riconoscere l’altro uomo come un amico, un aiuto se non nello Stato costituito da un ordine di leggi, fatto rispettare con la forza. L’uomo è a tal punto egoista da non riuscire, senza la forza della coercizione, a riconoscere l’altro uomo.
Ipotesi HM3: la moralità coincide con la legge.
Specifica a: “… dove non esiste suo, ossia dove non esiste proprietà, non esiste ingiustizia; e proprietà non esiste dove non esiste un potere coercitivo istituito, cioè dove non esiste Stato, giacché [ in questo caso ] tutti gli uomini hanno diritto a tutte le cose: quindi, dove non esiste Stato, nulla è ingiusto”. P. 117.
Specifica b: “La scienza di queste leggi è la vera e unica filosofia morale. Infatti la filosofia morale non è altro che la scienza di ciò che è bene e male nei rapporti e nella società degli uomini. Bene e male sono nomi che significano nostri appetiti e nostre avversioni, che variano al variare dei temperamenti, dei costumi e delle concezioni degli uomini”. P. 129.
Inferenza. Se il diritto nasce dal negare la propria moralità egoistica e riconoscere il diritto come mediazione per qualunque tipo di contesa, allora come l’uomo può abbandonare il proprio egoismo?
Problema: come l’uomo può abbandonare il proprio egoismo?
Spiegazione ά: quel che non mi è chiaro è sia il motivo per cui qualcuno possa davvero abbandonare il proprio egoismo, in secondo luogo non si vede il come questo possa essere raggiunto.
Perché qualcuno abbandoni il proprio egoismo deve darsi una ragione.
Infatti, se qualcuno decide di acconsentire la cessione di un proprio oggetto a favore di qualcun altro è perché egli riconosce l’altro come se stesso, ovvero come essere-portatore di diritti ( quanto meno quello alla proprietà ); ma ciò non è sufficiente: il possessore dell’oggetto deve anche rendersi conto, oltre al riconoscere all’altro il suo stesso diritto in linea di principio, che sia conveniente, in una certa misura, accettare una propria “perdita”.
E’ evidente che cedendo un oggetto perdo anche il diritto a sfruttarne le sue proprietà. Ma ciò non è possibile se sono in tutto egoista: infatti la volontà di possesso degli oggetti è tale che non sono disposto a negoziarla.
D’altra parte questo istinto al possesso, presentato in questo modo rigido da Hobbes, non è qualcosa di razionale né di controllabile e tutti, nessuno escluso, è capace di gestirlo: la forza motivazionale universale è il desiderio e non esistono altre forme di motivazione degli uomini.
“Considero perciò al primo posto, come un’inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte” P. 78.
Tale forza coercitiva del desiderio si spinge sino ad arrivare alla conoscenza che è una propaggine del desiderio ( i pensieri sono come l’avanguardia dell’esercito ).
“L’ansia per il futuro dispone a ricercare le cause delle cose, perché la loro conoscenza rende meglio capaci di ordinare il presente in vista del massimo vantaggio”. P. 84.
Insomma, l’egoismo la fa da padrona anche nella conoscenza, che nasce, appunto, da esso. Il problema è, allora, da dove creare la forza motivazionale tale da annullare un così “avvolgente” istinto di egoismo: quand’anche si faccia appello alla conoscenza, non si fa altro che fare appello, comunque, a quella forza che vogliamo cercare di attenuare.
Hobbes si rende chiaramente conto di questo problema e, giustamente, ricorda che il suo “stato di natura” non è che un’ipotesi di lavoro. Ma ciò non toglie il problema fondamentale: la possibilità dell’uomo di scavalcare il proprio egoismo istintuale da dove nasce? L’uomo egoista non è capace di vedere lontano nel futuro, e, nello stato prossimo a quella di natura, l’uomo non è certo in grado di conoscere le cause delle cose. L’idea che la prospettiva della pace, come stato di “cessazione dello stato di guerra” e di una conseguente “maggiore capacità di soddisfazione” sono concetti che sono pensabili già da chi conosce lo stato di pace e le maggiori soddisfazioni. E’ triste esperienza vedere che oggi, dove le necessità materiali sono, tendenzialmente, più appagate che in altri periodi storici, l’egoismo intorno agli oggetti non sia meno forte. E’ infatti facile vedere come le persone non riescano affatto a fare a meno di combattere per inezie e, incapaci di gettarsi a capofitto negli “insolubili problemi esistenziali” ( come avrebbe detto Woody Allen ), preferiscono vivere per l’attuazione di strateglie e piani per la conquista di cose, incapaci come sono di pensare alla vita in prospettiva: vivono per sopravvivere. E da tutto questo mi sembra sufficiente dire che la prospettiva della pace e della soddisfazione maggiore non sia affatto sufficiente a creare una forza motivazionale sufficiente da superare quella dell’egosimo.
Hobbes sostiene che per la “pace perpetua” sia necessario abbandonare l’egoismo istintuale e riconoscere il diritto dell’uomo sull’altro uomo riassunto nel biblico principio del “non fare a un altro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso” ( P. 128 ): come ciò sia possibile non è affatto chiaro.
Perché qualcuno abbandoni il proprio egoismo, deve essere costretto con la forza.
Mi pare che per attuare una tale azione ci voglia, oltre che il desiderio, anche la possibilità reale: per sottomettere un uomo ci vuole un altro uomo. Ancora: come si fa a creare un gruppo di uomini uniti sotto un qualche vincolo, decisi a sottometterne degli altri? Ovvero, perché qualcuno dovrebbe volere, in un certo momento, di sottomettere gli altri, se egli stesso è ancora nello stato di egoismo?
La forza coercitiva, che è fondamentale, per Hobbes, nella costruzione di un potere civile univoco e coerente, è di per sé insufficiente a far sì che si agisca in modo virtuoso secondo la legge: a tutt’oggi, in Cina, dove c’è la pena capitale, avvengono più di cinquemila esecuzioni: è evidente che esiste ancora chi infrange la legge. In tutto l’arco della storia, la triste pratica della tortura, peggio della morte quanto ad efficacia persuasiva, è sempre stata diffusa e incoraggiata. Ancora oggi è, a parte in qualche stato, praticata dalle stesse istituzioni. Se è vero che la forza coercitiva unita al terrore delle conseguenze dolorose delle cose, fosse davvero sufficiente a debellare la criminalità e il disordine, è probabile che già ai tempi di Hobbes ci dovesse essere una condizione di pace completa e ordinata. L’esperienza storia dimostra invece l’opposto e la tortura e mezzi simili sono generalmente utilizzati proprio negli stati più soggetti all’arbitrio del caso e meno pacifici di tutti.
Problema: come si può fondare una pace con i mezzi tipici della guerra? Come si fa a creare una forza motivazionale che induca alla pace quando non si trova la possibilità su cui fondare questa pace?
La validità della proposta di Hobbes è chiara e il Leviatano è un ottimo esempio di sistema filosofico-politico. Le mie “obiezioni/riflessioni”, se così si possono chiamare, sono volte a “entrare” meglio nel testo, a cercare informazioni che non sono riuscito a trarre da me solo: delle chiavi di lettura aggiuntive.
Una cosa strana che ho percepito è stato notare che, tutto sommato, Hobbes non tratta male la democrazia e sostiene la monarchia assoluta, rispetto alle altre forme di potere, soprattutto perché egli è convinto che sia più in grado delle altre a garantire la pace.
Tuttavia, egli sostiene che anche la democrazia sia una forma di potere sovrano “assoluto”, capace di mantenere l’ordine. Di qui la questione: perché egli ritiene tra tutte le forme di potere, la monarchia quella migliore? Infatti, tutto sommato, egli non insiste più di un certo tanto sulle differenze tra la monarchia e le altre forme di potere, quanto sulla necessità che sia il potere politico a regolare ogni forma di controversia. Penso che il suo vero “nemico” sia piuttosto la religione –cattolica-, invece di altri sistemi politici.
Filosofia
Teoria della conoscenza
La filosofia nel seicento ha ereditato sia l’impostazione universalistica scolastica, sia le problematiche nuove, riguardanti la filosofia della natura, cioè la nuova scienza galileiana. In questo sodalizio nacque una nuova concezione culturale che fu, per così dire, dotata di un’impostazione dominante e comune, con risvolti individuali per ogni portavoce.
Tutti i filosofi di quest’epoca piena di difficoltà e di grandi speranze prendono atto che la verità è unica e, da questa, bisogna procedere. Un’unica verità che, però, non si scopre attraverso una conoscenza intuitiva o immediata, data da una qualche forma di rivelazione, ma attraverso l’attività della ragione naturale.
In questo spostamento di punto di vista sta, anche più chiaramente, tutta la rivoluzione scientifica. Infatti, ben più di ogni apparente considerazione intorno alle scienze, si può dire proprio che alla fine del cinquecento e all’inizio del seicento, la cultura umana, nella sua dimensione più esclusiva e profonda, ha assorbito l’idea che l’uomo è un essere nella natura e, in questo senso, per capire l’uomo bisogna capirne la natura e per capire la natura bisogna guardare solo a questa. Ogni altra considerazione passa in secondo piano.
L’idea delle scienze matematiche e di una conoscenza universale di stampo platonico sono una delle più grandi innovazioni del pensiero agli inizi della nuova scienza di cui gli esponenti più specifici sono quel Cartesio, inventore della geometria analitica senza la quale nulla oggi sarebbe pensabile, e quel Galileo, primo teorico a tutto tondo della scienza sperimentale-matematica, che tutti conoscono.
La scienza nuova, epurata da ogni considerazione finalistica di stampo aristotelico, si basa sull’idea della matematizzazione del mondo e sull’esperienza: tutto è riconducibile a figure geometriche e quantità determinabili analiticamente e ogni teoria deve essere vagliata alla luce dell’esperienza. Ragione + esperienza = scienza, teoria + esperienza = vera ↔ teoria → esperienza. In questo senso, si hanno, tendenzialmente, due spinte irresistibili, almeno da un punto di vista filosofico, a considerare la scienza o come il risultato ultimo di una serie di esperienze, o come il risultato ultimo di un ragionamento matematico.
Il problema non concerne tanto la possibilità dell’esistenza della scienza, dal momento in cui, una volta che inizia a conseguire chiari risultati, non ha più necessità di giustificazioni, ma quanto la natura della conoscenza stessa e la sua origine. La scienza è vera: in che senso? La scienza conosce. Cosa e attraverso cosa?
Spesso, ancora oggi, si dibatte sulla credibilità della scienza a dare spiegazioni, come se la scienza dovesse dare spiegazioni su tutto. D’altra parte, oggi, per dire che una cosa è vera, basta dire che è “scientifica”. Ma rimane ancora adesso lo scetticismo per la tecnologia e la scienza, quando questa pretende di andare contro il senso comune. Il problema aperto agli inizi della scienza non è certo concluso né, d’altra parte, potrebbe esserlo, nella misura in cui ancora la scienza non è né conclusa né in via di revisione. Forse, potremmo parlarne a processo finito e parlare della conoscenza in termini generali.
Il problema dell’origine della conoscenza, nasce immediatamente dopo la risposta, parziale quanto si vuole, della de-ontologizzazione del problema del mondo: in altre parole, non è più “cosa è” a porre il problema quanto “come e perché è?”. La scienza ci dirà cosa è, ma non ci dirà perché.
Hobbes inizia a questo punto le sue considerazioni intorno alla natura della conoscenza. Egli sostiene che qualsiasi nostra conoscenza deriva dai sensi. Tutto ciò che esiste sono corpi in movimento e qualsiasi fenomeno naturale può essere spiegato agilmente a partire da quelli. Non c’è alcun bisogno di cercare chi sa dove le cause, quando le abbiamo semplicemente di fronte a noi.
Tutto è corpo ed è chiaro che anche lo stesso uomo è sostanzialmente un corpo. Il corpo umano è complesso e fatto di molte articolazioni tali che, quando ricevono un urto, il corpo si modifica in maniera tale che le sensazioni modifichino il cervello e creino così delle immagini chiamate “sensazioni”. Le sensazioni sono determinate tanto dal corpo esterno che colpisce il nostro, quanto dal nostro stesso corpo che, modificato, reagisce in maniera singolare creando una sensazione singolare.
La sensazione singolare è avvertita da noi come un’immagine del mondo, tale sensazione può essere conservata dalla memoria, perdendo qualche particolare. L’uomo dunque conserva continuamente delle immagini nella memoria e vanno tutte assieme a qualificare l’esperienza. Tutto ciò che la mente può pensare deve essere passata, prima o dopo, attraverso i sensi e tali informazioni verranno conservate dalla memoria. Tuttavia è chiaro che la mente ha la facoltà di unire più sensazioni diverse, come accade tanto nel sonno che nella veglia. Quando le abbiamo nel sonno esse sono, appunto, i sogni, mentre quando li facciamo nella veglia esse sono le “immagini” e la facoltà di produrle è detta immaginazione.
Sensazione + sensazione = immagine. Come si vede, non esiste immagine della mente che non sia stata prima nei sensi. L’operazione logica, che Hobbes non prende in considerazione nella sua analisi, è data dalla semplice costituzione fisica della mente.
In questa concezione della conoscenza è chiaro il ruolo dell’esperienza ed è anche chiaro che essa si acquisisce solo nel tempo, motivo per il quale Hobbes sostiene che la capacità di capire le cose e di essere prudenti si acquisisce solo nel tempo.
Alla domanda, quindi, che avevamo posto prima: cosa è la conoscenza? Hobbes avrebbe risposto che essa è determinata dalla nostra facoltà sensitiva e immaginativa, conservata nella memoria. La memoria, per Hobbes, è una facoltà fondamentale in quanto è solo in base ad essa che noi possiamo avere una conoscenza: se non potessimo conservare le informazioni della sensibilità, noi in alcun modo potremmo avere una cumulazione di esperienza sufficiente da farci apprendere la realtà, seppure solo soggettivamente.
La scienza
Ogni nostra conoscenza incomincia nei sensi, si conserva nella memoria e diventa nostro esclusivo patrimonio. Ma a questo punto potremmo a buon diritto domandarci se anche gli animali non abbiano una conoscenza simile, se non uguale alla nostra. Hobbes avrebbe ammesso che gli animali hanno una conoscenza simile alla nostra ma non uguale e la differenza sta che gli uomini possiedono la ragione e gli animali no.
Questa differenza sembra rimandare alla tradizione aristotelica dove l’uomo è animale razionale, ovvero dotato di un intelletto attivo ( capace cioè di determinare idee che non provengono direttamente dai sensi ), capacità propria dell’essere umano. Hobbes non è invece di questo avviso perché egli non concepisce la ragione come una facoltà della mente, come potrebbe essere l’immaginazione, ma solo una proprietà formale del discorso scientifico.
Il discorso in generale è il semplice susseguirsi dei pensieri che sussistono nella nostra mente, che siano essi a partire dalla sensibilità o mediati nell’immaginazione. Tale fluire di pensieri può essere ordinato o disordinato: l’ordine è dettato da un desiderio pregresso, un’intenzione, che determina un flusso coerente di pensieri, il disordine è determinato dall’assenza di desiderio e lascia la mente libera di avere le più diverse immagini.
In questo senso vediamo che l’origine dei pensieri è di due tipi: interna ed esterna. E’ esterna quando la mente riceve immagini a partire dai sensi, dunque a prescindere dalla sua volontà. L’origine è interna quando i pensieri sono determinati da un desiderio, che prendono il nome di volontà solo quando sono presi per ultimi: quando, su due desideri, uno di bere e uno di mangiare, ci decidiamo sul primo, diciamo che abbiamo la volontà di bere.
In quanto abbiamo l’immaginazione, possiamo quindi associare un determinato suono o simbolo, ad una determinata sensazione. In questo modo noi ci costruiamo un discorso. Il discorso è, dunque, un fluire di sensazioni, ma registrato, controllato e vagliabile: ogni termine del discorso, infatti può essere univoco e sensato.
Il discorso, a questo punto, può essere o casuale o razionale. Ed è razionale quando è coerente con se stesso ( principio di formalità ) ed esprime una certa qualità intorno alle cose esterne ( principio di contenuto ). Se il discorso è ben formato allora siamo di fronte ad un discorso scientifico.
Se la conoscenza viene dai sensi e i sensi determinano per ciascuno sensazioni diverse, allora è evidente che ciascuno ha, sulla medesima cosa, esperienze diverse. Questo non determina, forse, la perdita di certezza? Si e no. Infatti, la certezza intorno al contenuto del discorso scientifico è discutibile, mentre non è discutibile la forma, se essa è ben formulata. La scienza, quindi, è un discorso razionale e sempre rivedibile, necessario e mai universale. In questo modo è chiaro che ogni conoscenza è sempre singolare e rinvia sempre ad un soggetto che esperisce.
Il discorso è un’associazione di idee e di sensazioni: tali associazioni determinano i simboli del discorso, come le parole di una frase. Se il discorso scientifico è razionale, quindi ben formato, allora quale è il suo valore epistemologico? Abbiamo detto che non possiamo concedere che la conoscenza sia necessaria e universale, ma solo necessaria e solo da un punto di vista formale. Tuttavia la scienza ha anche una capacità predittiva in relazione al fatto che associando correttamente certe esperienze tra loro ( quelle che comunemente chiamiamo cause ) ci aspettiamo delle conseguenze ( effetti ). La scienza ha la capacità predittiva non nel senso che da essa noi possiamo ricavare una conoscenza esatta del futuro, ma solo che, avendo preventivamente registrato una serie di sensazioni passate a cui sono seguite determinate altre sensazioni, noi siamo anche in grado di dedurre delle possibili previsioni a partire dalle nostre sensazioni precedenti.
Hobbes intendeva la scienza come una specie di “memoria aggiuntiva”, a partire dalla quale noi possiamo compiere delle previsioni, a patto di registrare bene il passato e riconoscere bene i simboli da cui ricavare certe relazioni consequenziali. Le cause e gli effetti non sono altro che dei simboli che, tuttavia, non possono mai rimandare ad una certa e chiara deduzione del contenuto della previsione: un evento predetto può realizzarsi e non realizzarsi.
La scienza deve essere necessariamente rigorosa, sia in nome dell’ordine espositivo che della possibilità inferenziale, ma essa non può mai andare oltre l’esperienza e ad essa è sempre successiva. Dunque, la scienza non è lo specchio della natura, senza soggetto, ma è specchio della natura soggettiva della conoscenza.
Sebbene ci sarebbe qualcuno che potrebbe storcere il naso in relazione a questa visione “nominalista” della scienza, ovvero arbitraria, giacché è lecito pensare che ognuno di noi potrebbe costruirsi una scienza diversa sebbene sempre valida; possiamo però dire che non è tanto il problema della verità che interessa la scienza, quanto la verità delle sue predizioni: essa infatti serve, più che a conoscere per il gusto della verità, solo a conoscere-per una risoluzione pratica positiva della vita: la scienza non ha importanza che ricalchi il mondo, basta piuttosto che riesca a predire gli avvenimenti in modo sufficientemente discreto da farci preparare per il meglio ad essi.
Logica nell’antropologia
La conoscenza degli elementi costitutivi dell’uomo determinano una conoscenza esatta della sua natura: l’uomo = animale dotato di sensibilità + memoria + immaginazione. Per Hobbes la logica è pura attività di calcolo, dunque, l’associare o dissociare elementi da una definizione, ne determina una nuova.
L’uomo può essere interamente descritto a partire dalla sua naturalità. Il desiderio è l’inizio di ogni azione umana la quale non è determinata da altro che dall’istinto alla vita: il corpo infatti è formato da altre sottoparti che si muovono in modo determinato. Se una cosa agevola il movimento dei corpuscoli che costituiscono il corpo allora il corpo prova sollievo, viceversa prova dolore.
Piacere e dolore sono mostrano con evidenza la bontà o la negatività di un’azione e così l’uomo ricerca il piacere per il solo fatto che ne prova una certa sensazione che è connessa col benessere del corpo. Da tale considerazione, si comprende lo sforzo notevole che gli uomini compiono per ricercare i beni materiali e il prestigio sociale, che essi associano direttamente al benessere.
Di tutto ciò che gli uomini provano desiderio, esperiscono la necessità e fanno di tutto per appagarla. Sin tanto che si rimane a questo livello “primitivo” non esiste né giusto né sbagliato in quanto l’uomo necessita per natura di sopravvivere e così tutti. La definizione del buono e del cattivo corrisponde a quella del “desidero o non desidero”: ciò che desidero è buono, ciò che non desidero è male.
La natura dell’uomo è tale che ognuno abbia dei desideri particolari, simili a quelli degli altri, talvolta uguali, talvolta diversi. E quando sono uguali significa che gli uomini ricercano la stessa cosa e, a questo punto, viene fuori con chiarezza il massimo egoismo dell’uomo: ricercando di appagare lo stesso desiderio attraverso gli stessi mezzi, ciascuno cerca di ottenere sol per sé quello che anche l’altro vuole, attraverso qualsiasi mezzo disponibile. In altre parole, l’egoismo di ciascuno determina una condizione di ostilità verso tutti coloro che ostacolano la soddisfazione del mio desiderio: è la guerra dell’uomo sull’altro uomo.
La cornice logica che descrive Hobbes è quella dell’uomo riportato a pura animalità. E tale condizione è indispensabile per capire le azioni umane nei loro aspetti più ombrosi ma più bisognosi di comprensione. Hobbes inaugura quella linea di pensiero che verrà codificata esemplarmente ne “la favola delle api”: Hobbes non intende mostra che il benessere sociale nasce dall’ingiustizia, ma analizza con chiarezza la questione. E la questione non è altro: come bisogna organizzare lo Stato in modo tale che esso risponda alle esigenze dell’uomo? La risposta non può che essere ricercata, inizialmente, nella natura umana.
Hobbes prima di tutto si preoccupa di chiarire in che termini l’uomo è tale, perché agisce e in nome di cosa e perché, raramente, raggiunge un accordo con gli altri uomini. Solo a questo punto cerca di dare una soluzione al problema dello Stato. Tuttavia è importante aver chiaro il discorso preliminare perché solo dalla conoscenza ( della natura umana ) si può veramente capire il ragionamento hobbesiano che, in pieno spirito “geometrico”, passa al livello più alto solo dopo aver definito cosa siano i punti, i segmenti e le rette.
La politica: il patto sociale, la legge e lo Stato
L’umanità è composta da singoli egoisti che tendono a soddisfare i propri bisogni come possono. Da questo egoismo non può che nascere un odio reciproco tra esseri umani, odio e ostilità. Tuttavia la guerra per la sopravvivenza non determina certo una condizione di vita ideale e ciò per due ragioni: prima di tutto perché la sopravvivenza è continuamente messa a repentaglio dalla violenza latente della condizione di ostilità: non esistendo giusto o ingiusto, esiste solo bene e male individuali. La soggettività del fine implica la soggettività del mezzo e il conseguente “cinismo-estremo” degli individui. D’altra parte, la vita degli uomini, essendo profondamente complessa, richiede molte cose per essere appagata appieno.
Queste due considerazioni sono le possibilità reali, le uniche, su cui si può far leva per ricondurre gli uomini ad un unico ordine. Ma gli uomini, ché non fanno nulla per nulla, non si riunirebbero in un solo Stato, finché sono in questa condizione di costante odio e conflitto. Per la formazione di uno Stato è necessaria la presenza di una forza coercitiva che riesca a ricondurre la moltitudine ad un’unica legge condivisa.
La condizione priva di leggi e portata da Hobbes come un’ipotesi di laboratorio e gli serve per spiegare su cosa il potere si fonda e su cosa possa basarsi per il suo perpetuarsi.
Il diritto naturale degli uomini è la possibilità di agire in vista della sola conservazione. In questo senso, il diritto naturale è universale, giacché tutti gli uomini non si distinguono in relazione alla loro costituzione. Stando solo al diritto naturale, che è un diritto-limite, ogni uomo potrebbe fare quello che vuole, se non fosse che tale diritto, se garantito in tutto, non porterebbe alla cessazione dello stato di guerra. E’ necessario che gli uomini rimettano una parte della loro libertà nelle mani di qualcun altro.
Tale remissione parziale del diritto naturale è quel che va a costituire il patto sociale tra i cittadini e lo Stato. Lo Stato è definito dai singoli poteri individuali e, in quanto complesso della moltitudine che è dentro di sé, può utilizzare il proprio potere per difendere i propri membri. La funzione dello stato è proprio quella di garantire la pace a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, sia da pericoli interni, sia da pericoli esterni.
Tuttavia è necessario garantire la pace all’interno dello Stato e questa è garantita dalle leggi e dalla loro applicazione. Le leggi si fondano sul diritto naturale e sulle leggi di natura, così chiamate perché dedotte direttamente dalla condizione naturale dell’uomo. Le leggi di natura determinano le leggi necessarie ( ma non in tutto sufficienti ) a garantire la stabilità dello stato in nome di una pace ordinata. Tutte si basano sull’idea dell’equità, e cioè che a ognuno consegue quel che gli compete e lo spirito che le anima si può sintetizzare nella stessa frase biblica che Hobbes utilizza: non fare agli altri ciò che tu stesso non vuoi fatto razionalmente a te stesso.
Il limite della legge naturale è quello della libertà altrui, la pace è garantita nella misura in cui l’egoismo dell’uomo non vede favorito l’egoismo di un altro uomo. L’equità è una risposta all’egoismo, ne rappresenta una fuoriuscita e, contemporaneamente, una soluzione, seppure sia dall’egoismo stesso implicata.
Ma la legalità non sarebbe sufficiente di per sé. Gli uomini infatti tendono sin troppo spesso ad abbattere le proprie regole in nome della soddisfazione semplice del proprio egoismo ed è per questo che lo Stato ha due compiti fondamentali: primo, quello di garantire l’ordine mediante la paura, secondo, garantire l’ordine secondo le idee.
La paura è determinata dall’applicazione della forza, in relazione alla necessità del caso: l’infrazione di una legge o dalla diretta decisione del sovrano. La paura però non basta. Infatti, sin tanto che non esiste un ordine, si sta in quel caos individualistico del bene e del male relativo. Ma con lo Stato, questo egoismo morale sparisce e viene sostituito all’ordine stesso delle leggi dello stato: bene e male sono giusto e ingiusto, secondo la legge. Dunque lo Stato non implica solo la nascita di un ordine, ma di un ordine giusto tale che va sempre e comunque rispettato.
Ma se lo Stato, come insieme composita di individui, fosse lasciato alla volontà dell’arbitrio di ciascuno, ci sarebbe ancora una forma di anarchia che, giustamente, Hobbes riconduce semplicemente ad un assenza di legge, ovvero di controllo da parte di uno Stato. L’anarchia è un concetto negativo giacché ciascuno è costretto a difendere la propria incolumità con la propria spada e, per ciò, ogni cosa diventa lecita, si ritorna al diritto di natura. C’è dunque bisogno che lo Stato, come un individuo, venga ordinato in base ad un fine e tale è il compito del sovrano.
Il Sovrano è colui a cui è affidato il potere di gestire il potere, in altre parole, è il detentore della politica Statale. Hobbes, acutamente, rileva che non è dalla differenza della politica, della sovranità, che si distingue uno stato democratico da uno monarchico: è solo il numero delle persone che gestiscono il potere a definire la sovranità. Così il governo del popolo intero è la democrazia, il governo di pochi è l’aristocrazia e il governo di uno è la monarchia.
Considerato che più uomini sono difficili da mettere d’accordo, che sono più soggetti all’arbitrio delle loro passioni e sono più facilmente soggetti a corruzione, secondo Hobbes è preferibile che ci sia un solo monarca che detenga per intero la gestione dello Stato, il che significa che egli può fare le leggi, decidere sui processi pubblici e prendere decisioni politiche sia a livello di politica interna e estera. Il Sovrano ha dunque potere assoluto. E questo, ben inteso, a prescindere dalla modalità del governo: democrazia, aristocrazia, monarchia, una sola è la sovranità.
Il Sovrano ha potere assoluto; non proprio. Infatti è vero che egli può fare le leggi come meglio crede ( e, dunque, decidere qual è il giusto e l’ingiusto ), che egli può decidere della vita e della morte di un individuo, che può decidere le dottrine che vanno assecondate e quali bruciate, ma è anche vero che non può mai oltrepassare il limite imposto dalla legge di natura: per esempio, il Sovrano non può imporre ad un suddito di uccidersi, anche se è condannato a morte, perché il suicidio comandato implica una rottura del patto che dice che ogni uomo deve difendere la propria vita con tutti i mezzi disponibili. E se qualora lo Stato, squassato dalla lotta intestina, fosse diviso in due fazioni, una a sfavore del reggente e fosse più numerosa, colui che si associasse non compierebbe ingiustizia giacché il suo Sovrano avrebbe perso la capacità di difendere la sua incolumità.
In conclusione, lo Stato è nato per la difesa e la tutela degli uomini. Hobbes sostiene che, per l’estrema volubilità dell’animo umano, non c’è governo migliore di quello di una monarchia assoluta. Al di là delle conclusioni, la sua analisi del potere e della cosa pubblica rimangono un vertice di chiarezza e di lucidità della teoria politica dell’occidente.
Lo Stato e la Religione
Considerata l’analisi precedente dello Stato, della conoscenza e della scienza, ciò che fa le spese nella visione antropologica, gnoseologica e politica è proprio la religione. In effetti, andrebbero distinti due livelli della religione: la religione come politica e la religione come credo.
La religione è, in generale, presentata da Hobbes come una serie di dottrine intorno a fatti inspiegabili di cui gli uomini, per timore della morte, cercano, come possono di trovare ragione. Se l’uomo non avesse curiosità e non temesse per la propria incolumità, non cercherebbe ragioni di spiriti immateriali. A contrario, gli uomini spesso necessitano di spiegazioni spirituali per placare la propria ansia.
Tuttavia, queste spiegazioni sono del tutto inadeguate giacché tutti gli eventi naturali si riconducono semplicemente a corpo e movimento. Non esiste uno spirito che sia capace di spostare i corpi e, dunque, tutte le teorie elaborate per giustificare il moto a partire da spiriti immateriali è semplicemente pura superstizione.
Inoltre, gli uomini ignoranti riconoscono l’abilità di altri uomini e, in base alle loro virtù morali, li ritengono o meno degni di fede. In questo senso, ogni uomo crede in quello che ha visto o in quello che ha detto un uomo di cui si fida. In ogni caso, non si fuoriesce dalla natura, che sia direttamente quel che ci sta intorno o che sia l’uomo: la religione, come superstizione, riguarda esclusivamente gli uomini.
D’altra parte, c’è chi s’è reso conto della potenzialità latente della necessità umana a trovare spiegazioni a fenomeni che non sono in grado di spiegare: questi sono propriamente i “nemici” di Hobbes e quelli che egli attacca con più vigore, più efficacia e più costanza. Egli fa notare come la religione cattolica romana sia spesso stata utilizzata a favore dello stesso clero ed è stata altrettanto spesso causa di disordine sociale. In questo senso, spettando il comando al solo Sovrano, dovrebbe essere quello adibito alla gestione della cosa pubblica.
Seppure il lato più evidente del rapporto della religione in Hobbes sia proprio quello critico, forse anche quello più condivisibile[4], non è l’unico aspetto presente. Hobbes più volte si rifà ad una “religione del Dio vero” che consisterebbe nella conoscenza del Dio causa del mondo. In questo senso, non sarebbe sbagliato pensare all’assenza radicale di un “lato-religioso” in Hobbes, seppure, è chiaro, ciò che al filosofo materialista-empirista quel che gli interessa di più è l’uomo in quanto uomo-politico.
Riferimenti
Definizione di giudizio.
« E come l’ultimo appetito nella deliberazione viene chiamato volontà, così l’ultima opinione nella ricerca della verità sul passato e sul futuro è detta GIUDIZIO, o proposizione risolutiva finale di colui che discorre ».
P. 52.
Definizione dell’opinione.
« Se il discorso è puramente mentale, consiste nel pensare alternativamente che qualcosa sarà o non sarà oppure che è stato o non è stato, in modo tale che, in qualunque punto si interrompa la catena del discorso di una persona, la si lascia nella presunzione che sarà o non sarà oppure che è stato o non è stato. Tutto questo è opinione »
P. 52.
« Se tuttavia il primo fondamento di questo discorso non sono le definizioni o se le definizioni non sono connesse correttamente in sillogismi, allora il termine finale o conclusione è di nuovo un’opinione e precisamente un’opinione sulla verità di qualcosa che è stato affermato, anche se a volte con parole assurde e prive di senso al di là di ogni possibilità di comprensione. »
P. 53.
La definizione della deliberazione e del dubbio.
« E come l0intera catena degli alterni appetiti rispetto a ciò che è buono e cattivo, viene chiamata deliberazione, così la catena completa delle alterne opinioni relative al vero o al falso, è chiamata DUBBIO »
P. 52.
Negazione di una possibile conoscenza assoluta.
« Nessun discorso, di qualunque genere sia, può concludere ad una conoscenza assoluta di un fatto, passato o futuro, perché la conoscenza di un fatto è originariamente sensazione e da quel momento in poi memoria. Perciò la conoscenza delle conseguenze che (…) come ho detto più sopra, si chiama scienza, non è assoluta ma condizionale »
P. 52.
Che cosa è la scienza.
« Perciò quando al discorso viene data forma verbale e comincia con le definizioni delle parole, procede attraversi la connessione di queste ultime in sillogismi, il termine finale o ultima somma viene chiamata conclusione e il pensiero della mente espresso da quest’ultima è quella conoscenza condizionale, o conoscenza elle conseguenze delle parole, che è comunemente detta SCIENZA »
P. 53.
Analisi del concetto di credenza.
« Quando il discorso di una persona non comincia con le definizioni, inizia con qualche altra considerazione personale, e allora è chiamato ancora opinione, oppure comincia con qualche affermazione di un’altra persona di cui non si dubita che sia capace di conoscere la verità e che sia sufficientemente onesta per non ingannare; il discorso allora non concerne tanto la cosa quanto la persona, e la risoluzione viene detta CREDENZA e FEDE. Si ha fede nella persona e si crede sia alla persona, sia alla verità di ciò che dice. Nella credenza ci sono perciò due opinioni: una relativa a ciò che la persona ha affermato, l’altra relativa alla virtù di quella persona. Aver fede in una persona, fidarsi di lei o crederle significano la stessa cosa, cioè un’opinione sulla veracità della persona. Tuttavia, credere ciò che viene detto significa soltanto un’opinione sulla verità dell’affermazione. »
Pp. 53-54.
Noi crediamo negli uomini e in quello che dicono non direttamente a Dio.
« Risulta per ciò evidente che qualunque cosa noi crediamo senza nessun’altra ragione che quella tratta dalla sola autorità degli uomini e dei loro scritti, abbiamo fede soltanto negli uomini, siano essi o meno inviati da Dio ».
P. 55.
L’intelligenza o ingegno.
« …INGEGNO NATURALE ha le due seguenti caratteristiche principali: la rapidità di immaginazione, cioè il pronto succedersi di un pensiero ad un altro, e il dirigersi fermamente verso un fine prescelto »
P. 56.
La stupidità.
« Un’immaginazione lenta, al contrario, costituisce quel difetto o quell’insufficienza della mente che viene chiamata OTTUSITA’ , stupidità e che riceve a volte altri nomi che significano lentezza di movimento o difficoltà a muoversi ».
P. 57.
Il rapporto tra desideri e pensieri.
« I pensieri, infatti, sono, rispetto ai desideri, come esploratori e spie che perlustrano ogni luogo per trovare la strada verso le cose desiderate, dato che ogni fermezza e ogni rapidità del movimento mentale deriva da qui »
P. 60.
Risultati dell’eccesso dell’alcol.
« Inoltre, anche dagli effetti del vino, che sono uguali a quelli della cattiva disposizione degli organi, è possibile desumere che la follia non è altro che una passione con manifestazioni eccessive. Infatti, la varietà dei comportamenti degli uomini che hanno bevuto troppo è uguale a quella dei folli: alcuni si arrabbiano, altri si innamorano, altri ridono, tutti in modo stravagante, ma coerentemente con le loro diverse passioni dominanti, poiché l’effetto del vino sta soltanto nel rimuovere la dissimulazione e nell’impedire di vedere la bruttezza delle loro passioni. Credo infatti che gli uomini più sobri, quando passeggiano da soli, senza preoccupazioni e e senza impegnare la mente, non vorrebbero che la leggerezza e la stravaganza dei loro pensieri in quel momento fosse pubblicamente osservata; il che equivale a confessare che le passioni sbrigliate sono per la maggior parte pura follia ».
P. 62.
I costumi sociali.
« Per COSTUMI non intendo qui il comportamento educato come il modo in cui si dovrebbe salutare un’altra persona o il modo in cui si dovrebbe lavarsi la bocca o usare gli stuzzicadenti in compagnia e altre questioni di buona educazione, ma piuttosto quelle qualità umane che interessano la loro vita associata in pace e unità ».
P. 78.
L’uomo timoroso della morte.
« …così quell’uomo che, preoccupato del futuro, guarda troppo avanti a sé, ha il cuore tutto il giorno roso dalla paura della morte, della povertà o di altre calamità e non trova quiete né tregua alla sua ansietà se non nel sonno ».
P. 87.
La genesi della religione.
« Questo perpetuo timore che accompagna incessantemente l’umanità sprofondata nell’ignoranza delle cause, per così dire nelle tenebre, deve necessariamente avere qualcosa per oggetto. Perciò, quando non vi è nulla da vedere, non vi è nulla cui imputare la propria buona o cattiva fortuna, se non un qualche potere o agente invisibile ».
P. 87.
La religione finalizzata all’ordine civile.
« Perciò i primi fondatori e legislatori di Stati, tra i Gentili, le cui finalità erano solo quelle di mantenere gli uomini nell’obbedienza e nella pace, hanno avuto cura, in ogni luogo: primo, di imprimere nelle loro menti la credenza che i loro precetti in materia di religione non potevano procedere dalla loro propria invenzione, ma dai dettami di un qualche dio o di un qualche altro spirito; oppure che essi stessi erano di una natura superiore a quella dei semplici mortali, di modo che le loro leggi fossero potessero essere più facilmente accettate (…) In secondo luogo, si sono preoccupati di far credere che quelle stesse cose che erano vietate dalle leggi dispiacevano agli dei. In terzo luogo, di prescrivere cerimonie, supplicazioni, sacrifici e feste capaci, si doveva credere, di placare la collera degli dei (…) ».
P. 93.
Il diritto di natura.
« Il DIRITTO DI NATURA; che gli scrittori chiamano comunemente Jus Naturale, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo ».
P. 105.
La libertà.
« Secondo il significato proprio del termine, si intende per LIBERTA’ l’assenza di impedimenti esterni. Questi impedimenti possono frequentemente diminuire il potere posseduto da una persona per fare ciò che vorrebbe, ma non possono impedirle di usare il potere che le è rimasto nei modi che il suo giudizio e la sua ragione le detteranno ».
P. 105.
La legge di natura.
« Una LEGGE DI NATURA ( Lex Naturalis ) è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla ».
P. 105.
Il contratto.
« Il trasferimento reciproco di un diritto è ciò che si chiama CONTRATTO ».
P. 108.
I segni del contratto.
« I segni del contratto sono espliciti o inferenziali. Quelli espliciti sono parole che si pronunciano comprendendone il significato; e queste parole esprimono il tempo presente o passato, compio do, io concedo, io ho dato, io ho concesso, io voglio che questo sia tuo, oppure il futuro, come io darò, io concederò. Le parole che si riferiscono al futuro sono chiamate PROMESSE ».
Leggi di natura fondamentale.
« è un precetto, o una regola generale della ragione, che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è in grado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e vantaggi della guerra ».
P. 106.
La seconda legge di natura.
« …la seconda legge, che si sia disposti, quando anche gli altri lo siano, a rinunciare nella misura in cui lo si ritenga necessario alla pace e alla propria difesa, al diritto su tutto e ci si accontenti di avere tanta libertà nei confronti degli altri quanta se ne concede alti altri nei confronti di se stessi. Infatti, finché ciascuno detiene il diritto di fare tutto ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra ».
P. 106.
Altre leggi di natura.
« Dalla legge di natura (…): gli uomini debbono mantenere i patti che hanno fatto ».
P. 116.
La giustizia e la sua possibilità di esistere.
« …la giustizia è la volontà costante di dare a ciascuno il suo. Perciò dove non esiste suo, ossia dove non esiste proprietà, non esiste ingiustizia; e proprietà non esiste dove non esiste un potere coercitivo istituito, cioè dove non esiste Stato, giacché [ in questo caso ] tutti gli uomini hanno diritto a tutte le cose: quindi, dove non esiste Stato, nulla è ingiusto ».
P. 117.
Bene e male sono concetti relativi.
« La scienza di queste leggi [ di natura ] è la vera e unica filosofia morale. Infatti la filosofia morale non è altro che la scienza di ciò che è bene e male nei rapporti e nella società degli uomini. Bene e male sono nomi che significano nostri appetiti e nostre avversioni, che variano al variare dei temperamenti, dei costumi e delle concezioni degli uomini. Sicché uomini diversi non differiscono solamente nel loro giudizio sulle senza ioni di ciò che è gradevole o sgradevole al gusto, al’odorato, all’udito, al tatto e alla vista, ma anche di ciò che è conforme o in disaccordo con la loro ragione nelle azioni della vita ordinaria. Anzi, lo stesso uomo in temi diversi, differisce da se stesso; e ciò che volta loda, ossia chiama bene, un’altra volta critica e chiama male; donde sordono dispute, controversie e, in ultimo, la guerra ».
P. 129.
Il soggetto.
« Una PERSONA è colui le cui parole o azioni sono considerate o come sue proprie, o come rappresentanti –sia veramente sia tramite finzione- le parole o azioni vuoi di qualunque altra cosa cui vengono attribuite ».
P. 131.
Persona artificiale e naturale.
« Quando sono considerate come sue proprie [ le parole o le azioni ], allora è chiamata persona naturale; mentre, quando sono considerate come rappresentanti parole e azioni di un altro, allora si tratta di una persona fittizia o artificiale ».
P. 131.
Il concetto di rappresentanza.
« Una moltitudine diviene una sola persona, quando gli uomini [ che la costituiscono ] vengono rappresentati da un solo uomo appartenente alla moltitudine. Infatti è l’unità di colui che rappresenta, non quella di chi è rappresentato, che rende una la persona; ed è colui che rappresenta che dà corpo alla persona e ad una persona soltanto. Né l’unità in una moltitudine si può intendere in altro modo ».
P. 134.
Lo scopo dello stato.
« La causa finale, il fine o il disegno degli uomini ( che per natura hanno la libertà e il dominio sugli altri ), nell’introdurre quella restrizione su se se tessi sotto la quale li vediamo vivere negli Stati, è la previdente preoccupazione della propria conservazione e di una vita perciò più soddisfatta ».
P. 139.
Perché gli uomini non costituiscono società naturalmente pacifiche come le api o le formiche.
« …primo, che gli uomini sono continuamente in competizione fra loro per l’onore e la dignità, mentre queste creature non lo sono; (…)
secondo, che fra queste creature, il bene comune non differisce dal privato e, tendendo per natura al loro bene privato, procurano per ciò stesso il bene pubblico. Per l’uomo, invece, la cui gioia consiste nel confrontarsi con gli altri, non può aver sapore nulla che non sia eminente;
terzo, che queste creature, non avendo ( come l’uomo )l’uso della ragione, non vedono – e non pensano di vedere- alcuna pecca nell’amministrazione degli affari comuni, laddove, fra gli uomini, ce ne sono moltissimi che si ritengono più saggi e più capaci di governare la società (…)
…quarto (…) mancano [ le api ecc. ], tuttavia, di quell’arte delle parole grazie alla quale certi uomini possono rappresentare agli altri ciò che è bene nelle sembianze di mi male e il male nelle sembianze di bene (…)
quinto, le creature irrazionali non possono distinguere tra torto e danno; perciò, finché i loro agi sono assicurati non si sentono offese dalle loro compagne, mentre l’uomo è più pronto ad agitarsi proprio quando gode del massimo degli agi, giacché allora che ama mostrare la propria saggezza criticando le azioni di coloro che governano lo Stato
Infine, l’accordo, tra queste creature è naturale; quello tra gli uomini feriva solo dal patto ed è artificiale ».
P. 142.
Definizione di stato.
« Una persona unica, dei cui atti [ i membri di ] una grande moltitudine si sono fatti autori, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune ».
P. 143.
Definizione stato per istituzione.
« Si dice che uno stato è istituito, quando gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano –ciascuno singolarmente con ciascun altro– che qualunque sia l’uomo, o l’assemblea di uomini, a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la persona di tutti loro ( cioè a dire di essere il loro rappresentante ), ognuno – che abbia votato a favore o che abbia votato contro – autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini alla stessa maniera che se fossero propri, affinché possano vivere in pace tra di loro ed essere protetti contro gli altri uomini ».
P. 145.
Ingiustizia della deposizione del sovrano.
« Essi altresì –ognuno singolarmente – hanno dato la sovranità a colui che dà corpo alla loro persona, perciò, se lo depongono, gli tolgono quel che è suo; è così si ha ancora ingiustizia ».
P. 146.
Assurdità di chi rompe un vincolo col proprio sovrano a causa di un eventuale patto con Dio.
« E siccome alcuni, a giustificazione della loro disobbedienza al sovrano, accampano un nuovo patto fatto non con gli uomini ma con Dio, [ va detto che ] anche questo è ingiusto; poiché non c’è alcun patto con Dio se non per la mediazione di qualcuno che rappresenti la Persona di Dio c, cosa che non fa nessuno all’infuori del luogotenente di Dio, che al di sotto di Dio detiene la sovranità. Sennonché questa pretesa di patto con Dio è una menzogna così evidente, anche nelle coscienze di coloro che lo accampano, da essere un atto di una disposizione non solo ingiusta, ma anche abbietta e indegna di un uomo ».
P. 146.
La libertà di pensiero e parola.
« …inerisce alla sovranità l’esser giudice di quali opinioni e dottrine siano avverse e di quali siano favorevoli alla pace e, conseguentemente, inoltre, delle occasioni, dei limiti e di ciò in cui ci si debba fidare degli uomini quando si tratta di parlare alle moltitudini di popolo, nonché di chi debba esaminare le dottrine di tutti i libri prima che siano pubblicati. Infatti le azioni degli uomini derivano ralle loro opinioni, ed è nel buon governo delle opinioni che consiste il buon governo delle azioni degli uomini in vista della loro pace e concordia (…) dottrine contrastanti con la pace non possono essere più vere di quanto la pace e la concordia possano essere contro la legge di natura ».
P. 149.
Le tre forme di organizzazione politica.
« Quando il rappresentante è un uomo singolo allora lo Stato è una MONEARCHIA; quando è un’assemblea aperta a tutti coloro che vorranno riunirsi, allora è una DEMOCRAZIA o Stato popolare; quando un’assemblea di una parte solamente, allora si chiama ARISTOCRAZIA ».
P. 155.
Lo stato per acquisizione.
« Uno stato per acquisizione è quello nel quale il potere sovrano è acquisito con la forza; ed è acquisito con la forza quando gli uomini, ad uno ad uno o molti insieme a maggioranza, autorizzano, per paura della morte o di vincoli, tutte le azioni di quell’uomo, o di quell’assemblea, che in proprio potere le loro vite e la loro libertà ».
P. 166.
Nuova definizione di libertà.
« LIBERTA’ significa propriamente assenza di opposizione ( per opposizione intendo impedimenti esterni del movimento ) e può essere riferita omeno a creature irrazionali e inanimate che a creature razionali ».
P. 175.
Definizione di uomo libero.
« Secondo queco [ che è il ] significato proprio e universalmente accettato della parola [ libertù ], un UOMO LIBERO è colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingengno, non è impedito di fare ciò che ha la volontà di fare ».
P. 175.
Il libero arbitrio.
« Infine, dall’uso delle parole libero arbitrio non si può inferire alcuna libertà della volontà, del desiderio o dell’inclinazione, ma [ quella che si può inferire è ] la libertà dell’uomo, la quale consiste nel non incontrare arresti nel fare ciò che ha la volontà, il desiderio o l’inclinazione di fare ».
P. 176.
La necessità compatibile con la libertà.
« Libertà e necessità sono compatibili. Lo sono nel caso dell’acqua che non ha solo la libertà ma la necessità di scorrere nel letto del fiume, e lo sono altrettanto nel caso delle azioni che gli uomini compiono volontariamente e che procedono, da un lato, dalla libertà ( poiché procedono dalla loro volontà e tuttavia dall’altro, dalla necessità poiché ogni atto della volontà umana, ogni desiderio e ogni inclinazione procede da qualche causa, questa da un’altra e così via in una catena continua ».
P. 176.
Quando è lecito disubbidire al proprio sovrano.
« …se il sovrano comanda a un uomo ( ancorché giustamente condannato ) di uccidersi, ferirsi o mutilarsi, o di non resistere a chi lo aggredisce, o di astenersi dall’uso di cibo, aria, medicine o qualsiasi altra cosa senza la quale non possa vivere, quest’uomo nondimeno ha la libertà di disubbidire;
se un uomo viene interrogato dal sovrano – o in base all’autorità da quest’ultimo concessa – riguardo a un crimine da lui stesso compiuto, non è vincolato ( ameno che non gli sia stato assicurato il perdono ) a confessare, poiché nessuno (…) può essere obbligato per patto ad accusare se stesso ».
P. 181.
In caso di guerra civile ci si deve associare con chi garantisce maggiore protezione.
« Di resistere alla spada dello Stato in difesa di un altro colpevole o innocente che sia, nessuno ha libertà, poiché questa libertà toglie al sovrano i mezzi per proteggerci, ed è per ciò distruttiva dell’essenza stessa del governo. Ma, nel caso in cui un gran numero di uomini abbiano insieme già opposto resistenza al potere sovrano, compiendo ingiustizia, o commesso un delitto capitale per il quale ciascuno di loro si aspetta la morte, non hanno allora la libertà di unirsi e di prestarsi mutua assistenza e difesa? L’hanno certamente, poiché non fanno che difendere le loro vite; cosa che il colpevole può fare altrettanto [ lecitamente ] dell’innocente. Ingiustizia, invero, c’era nella prima infrazione del loro dovere; ma il loro successivo ricorrere alle armi, ancorché per difendere quello che hanno fatto, non costituisce un nuovo atto di ingiustizia e, se ha il solo scopo di difendere le loro persone, non è per nulla ingiusto ».
P. 183.
Limite del patto tra il sovrano e i suoi sudditi.
« L’obbligazione dei sudditi verso il sovrano è intesa durare fintantoché –e non più di quanto- dura il potere con quegli è in grado di proteggerli. Per nessun patto, infatti, si può abbandonare il diritto che gli uomini hanno, per natura, di proteggere se stessi quando nessun altro può proteggerli ».
P. 184.
Sistema di persone.
« Con SISTEMA intendo ogni insieme di uomini uniti per il perseguimento di un unico interesse, o di un unico obiettivo. Dei sistemi, alcuni sono regolari, altri irregolari. Regolari sono quelli nei quali si costituisce un solo uomo, o un’assemblea di uomini, a rappresentare di tutto l’insieme. Tutti gli altri sono irregolari ».
P. 187.
L’istinto del colonialismo.
« Sebbene tutti gli uomini, dove possono essere presenti, desiderino per natura partecipare al governo, tuttavia, sono anche inclini, dove non possono essere presenti, a demandare il governo dei loro interessi comuni a una forma di governo piuttosto monarchica che popolare. Il che appare chiaro dal comportamento di quegli uomini che hanno grandi proprietà private, i quali, quando non sono disposti a prendersi pena di curare gli affari che appartengono loro, preferiscono fidarsi piuttosto di un solo servitore che di un’assemblea di amici o di servitori ».
P. 192.
Democrazia nella gestione di sistemi economici.
« In un Corpo politico [ creato ] per un ordinato svolgimento di traffici esteri, il rappresentante più opportuno è un’assemblea di tutti i membri; vale a dire, tale che ognuno che arrischia il proprio denaro possa essere presente a tutte le deliberazioni e risoluzioni del Corpo, se lo voglia. Come prova di ciò, dobbiamo considerare il fine per il quale gli uomini che fanno i mercanti, e che possono comprare e vendere, importare ed esportare le loro merci a discrezione, si vincolano nondimeno in una corporazione ».
P. 193.
Definizione di legge civile.
« Ciò considerato, definisco la legge civile in questa maniera: LEGGE CIVILE è per ogni suddito l’insieme delle norme che, oralmente o con altro segno sufficiente a manifestare la volontà, lo Stato gli ha ordinato di applicare per distinguere il diritto dal torto; vale a dire ciò che è contrario alla norma da ciò che non lo è ».
P. 219.
Qualità necessarie a un giudice o a un interprete.
« … una corretta comprensione di quella fondamentale legge di natura chiamata equità; il che, dipendendo non dalla lettura degli scritti di altri uomini ma dalla bontà della propria ragione naturale e dalla riflessione, si suppone non manchi soprattutto in coloro che hanno il massimo agio e la massima inclinazione a riflettere sull’equità. In secondo luogo, il disprezzo delle ricchezze non necessarie e delle promozioni. In terzo luogo, la capacità, nel giudicare, di deporre ogni timore, rabbia, odio, amore e compassione. In quarto e ultimo luogo, pazienza e attenzione diligente nell’ascoltare, memoria per trattenere, assimilare e utilizzare quello che si è ascoltato ».
P. 233.
Impossibilità di leggi positive divine ulteriori a quelle naturali.
« Ma come si può riconoscere questa autorità di dichiarare quali siano le leggi politive di Dio? Certo, Dio può mondare per via soprannaturale a un uomo di rivelare agli altri, ma poiché all’essenza della legge appartiene che chi viene obbligato debba essere assicurato dell’autorità di chi gli presenta la legge ( autorità che noi con mezzi naturali non possiamo sapere che derivi da Dio ), come si può senza rivelazione soprannaturale assicurarsi della rivelazione ricevuta da coloro che presentano la legge? E come si può essere tenuti a obbedire loro? Quanto alla prima domanda –ossia, come possa un uomo essere assicurato di una rivelazione proveniente da un altro che ne è l’esclusivo destinatario – la richiesta è evidentemente impossibile. (…) I miracoli sono opere meravigliose: ma ciò che è meraviglioso per uno può non esserlo per un altro. La santità può essere simulata e le felicità visibili di questo mondo sono per lo più opera di Dio attraverso cause naturali e ordinarie. Pertanto, che un altro abbia avuto una rivelazione soprannaturale della volontà di Dio, nessuno può sapere in modo infallibile attraverso la ragione naturale, ma soltanto credere; credere più o meno fermamente secondo che più o meno grandi ne appaiano i segni ».
P. 235-236.
Il peccato.
« Nel peccato rientra non soltanto la trasgressione della legge, ma anche ogni disprezzo verso il legislatore, poiché il disprezzo costituisce una violazione di tutte le sue leggi in una volta. Pertanto il peccato può consistere non soltanto nel commettere un fatto –come pronunciare parole proibite dalla legge- o nell’omettere ciò che la legge comanda, ma anche nell’avere intenzione o proporsi di trasgredire ».
P. 239.
Il crimine.
« Il CRIMINE è un peccato consistente nel compiere ( con parole o fatti ) ciò che la legge proibisce, o nell’omettere ciò che comanda ».
P. 239.
Si consiglia la lettura del capitolo ventisettesimo ( di cui si è citato qui qualche frase ) e dello splendido capitolo quarantasettesimo del Leviatano.
Bibliografia essenziale.
Hobbes. Leviatano. Laterza. Roma-Bari. 2004.
Adorno, Verra, Gregory. Manuale di storia della filosofia. Mondolibri editore su licenza Laterza. Roma-Bari. 1993.
Garzantina di Filosofia.
[1] In base alla sua posizione geografica e la sua alta densità demografica e discreta media ricchezza, la Francia fu nemica di tutte le nazioni che, ora una ora l’altra, pretendevano la supremazia in Europa: la Francia è lo stato europeo che, per primo, riuscì a costruire una forte coesione interna sia in base a sentimenti religiosi, sia grazie a sentimenti propriamente nazionalisti. Da che si creò il regno dei franchi, i francesi furono tra i popoli più saldi d’Europa sin dal medioevo. E questo è mostrato proprio dalla costante presenza della Francia in quasi tutta la storia medioevale-moderna nelle guerre più importanti, intervallata solo da periodi sfavorevoli: la guerra che vide impegnate la Francia e l’Inghilterra nel basso medioevo, la guerra dei cent’anni, è la prima che ci viene in mente; Carlo VIII fu il primo a “scendere” nella penisola italiana durante il periodo delle guerre in Italia, Carlo V aveva come antagonista per eccellenza Francesco I, nella guerra dei trent’anni la Francia di Richelieu-Luigi XIII si intromise dando anche il nome ad una “fase della guerra”, l’ultima; Luigi XIV, il sovrano assoluto per modo di dire, portò la guerra in mezz’Europa, si intromise nella guerra di successione spagnola, fece piazza pulita degli ugonotti e mosse guerra contro le ricche fiandre, venne combattuta la guerra dei sette anni per l’egemonia tra la Francia e l’Inghilterra nei territori indiani e americani; dopo un periodo di relativa calma, ecco che i peperuti francesi ricompaiono nella reazione alla controrivoluzione francese e, com’è noto, Napoleone, il condottiero più amato e odiato di tutti i tempi, portò guerra dalla Spagna alla Russia, senza tralasciare la guerra navale e gli scontri in Egitto e in Africa del nord; ma non è finita certo con Napoleone perché passò poco tempo che il vulcano equiescente della Francia ritornasse a pretendere il suo spazio nel continente: il poco furbo Napoleone III riuscì a cavalcare l’onda dei sentimenti nazionali per portare avanti progetti espansionistici, ma, non intelligente come il suo predecessore, lasciò che si formassero due nuove nazioni e così che l’Europa avesse due nuovi interpreti: l’Italia e, molto di più, la Germania. Oltre ad essere stata la nazione europea con più colonie dopo l’Inghilterra ( si pensi solo all’Africa ), fu in prima linea nella prima guerra mondiale, una guerra maledetta per il dispendio di energie “psichiche” e fisiche; lo sarebbe stata anche nella seconda se non fosse che non ci fu alcuna linea Maginot e Hitler avesse truppe ben più preparate che quelle francesi e un sentimento di rivalsa addirittura superiore all’odioso nazionalismo francese. Ma con la sconfitta della Germania ecco che la Francia si riarma: bombe atomiche e guerre per mantenere ciascuna delle colonie che riescono ad avere la libertà nonostante la Francia combatta scontri odiosi per lo spargimento di sangue, anche inutile: come dimenticare il truculento guerrigliare in Algeria o in Vietnam? In effetti, la Francia non fu quasi mai egemone pienamente in Europa, perché ci fu quasi sempre una nazione che, in quel periodo storico, brillò più della Francia, come la Spagna di Carlo V o la Germania nel novecento. Ma la Francia può vantare il primato di essere tra le nazioni “sempre verdi”, sempre presenti per la lotta all’egemonia in Europa: in effetti, con tale costanza, non ci furono altre nazioni.
[2] Il che significava privare quella fetta di popolazione dei diritti politici e, in parole povere, uccidere gli eretici e rubare loro non era azione negativa, ma lecita: gli eretici, non avendo un’anima salva, non ne possedevano che una cattiva, per ciò non si sarebbero salvati.
[3] La vendita delle indulgenze sintetizza con chiarezza il ruolo della Chiesa: l’indulgenza era la remissione di tutti i peccati tramite una “donazione”. Un fedele, pagando, poteva avere la remissione di tutti i peccati. Tale possibilità è concessa solo alla Chiesa che detiene, tutt’oggi per i cristiani, la possibilità di “pulire” la coscienza del fedele. Considerato anche l’antropologia negativa cattolica, non esiste nessuno che sia esente a peccato, tutti sono peccatori di fronte a Dio e, per ciò, tutti per andare in paradiso, devono confessarsi. Il paradiso è come un casinò: non si può accedere senza un abito pulito. Restano due dubbi: un ateo virtuosissimo è condannato alla dannazione eterna anche se ha aiutato il prossimo, ha creduto negli altri ed ha amato, mentre un cristiano turpe, come un mafioso, se sempre attento ai sacramenti ha la possibilità di accedere al paradiso… Considerato il mondo e le sofferenze di tutti, mafiosi e non mafiosi, ha davvero un senso fare una distinzione tra “veramente buoni e veramente cattivi”, per Dio. Una tale distinzione può avere un senso o per l’uomo in sé stesso o per l’uomo per l’altro uomo. Ma un Padre, può davvero odiare con tutto il suo cuore un figlio che ha cresciuto egli stesso e condannarlo alla solitudine ( che già basterebbe a rendere un inferno ) e alla sofferenza più impensabile? Sarebbe davvero un Dio giusto ( non un padre umano ), o sarebbe uno spirito efferato e capace di qualsiasi vendetta?
[4] Si legga a proposito il quarantasettesimo capitolo del Leviatano, dove il papato è paragonato al mondo delle fate ( nella sezione “Il mondo delle tenebre” che già dal titolo tradisce molto delle aspettative ).
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