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Vita
Bonaventura nacque a Bagnoreggio, vicino a Viterbo, nel 1217. Studiò con Alessandro di Hales. Si trasferì a Parigi e lì studiò e divenne bacelliere biblico, carica che mantenne dal 1248 al 1250. Nel 1257 divenne ministro generale dell’ordine francescano, del quale era membro dall’età di diciotto anni. Divenne, in seguito, maestro di teologia nel 1259. Compì numerosi viaggi in Europa e nel 1265 riprese i contatti con il mondo universitario parigino dopo un lungo allontanamento. Diventa cardinale nel 1273 e muore nel 1274 a Viterbo, dove ancora si trovano le sue spoglie.
Opere di Bonaventura
Sententiae (1250).
Itinerarium mentis in deum (1259).
Collocationes de decem praeceptis (1265).
Collocationes de septem donis (1268).
Collocaiones haexemeram (1273).
Schema di ragionamento della prova ontologica di Bonaventura
Ipotesi B(onaventura)1: Dio è pensabile.
Specifica a: Dio è l’essere di cui si predica ogni qualità (qualità è sinonimo di perfezione).
Specifica b: la “pensabilità” coincide con la “possibilità logica”.
Spiegazione α: “pensabile” è sostituibile con “immaginabile”, “logicamente possibile”.
Inferenza: se Dio è pensabile, in altri termini, se Dio è logicamente possibile, allora Dio esiste necessariamente.
Tesi BI: dunque, Dio esiste necessariamente.
Specifica a: Dio è l’essere dotato di ogni qualità. L’esistenza è una qualità. Dunque, Dio di Dio si deve predicare l’esistenza (esiste come esserci, starci etc.), avendo Egli tutte le proprietà.
Specifica b: La “necessità” della Tesi BI è dovuta alla deduzione operata dall’ipotesi: Dio non può che esistere a partire dalla sua stessa definizione e stando alla sola logica.
Spiegazione α: La prova ontologica, come tutte quelle portate, non ha validità: si veda più sotto.
Filosofia di Bonaventura
Come tutti i filosofi medioevali, anche Bonaventura riprende l’aristotelismo e il neoplatonismo ma il primo lo critica mentre il secondo lo accetta. La filosofia peripatetica, infatti, privilegiava la scienza empirica come forma di conoscenza, rispetto alla teologia razionale. Lo studio del particolare rispetto all’universale era da preferire, secondo la versione metafisica neoaristotelica. Questo non era accettabile, per Bonaventura, che, a causa della forte ripresa dell’aristotelismo in quel periodo, voleva ristabilire la centralità del pensiero cristiano neoplatonico e, in definitiva, la maggiore importanza della teologia rispetto ad ogni altra forma di conoscenza.
L’uomo in terra ha il compito di ricercare Dio e accostare la propria anima verso la divinità la quale sarà il punto massimo della sapienza, il vertice unico a cui tendere. L’anima si accosta col mondo divino col quale si ricongiungerà alla morte avvenuta del corpo. Nel celebre, centrale “Itinerarium mentis in deum” è spiegato il modo con cui l’anima si ricongiunge a Dio.
L’uomo ha, come fine, quello di godere appieno del ricongiungimento col Padre, il quale crea gli esseri e poi li richiama a sé. L’uomo deve prendere coscienza della natura divina della sua conoscenza e, allo stesso tempo, della sua limitata natura. E’ prima di tutto la Fede che spinge l’uomo a conoscere e capire. La Ragione senza Fede è uno strumento privo di indirizzo, privo di uno scopo e, dunque, la Fede mostra alla Ragione la giusta direzione, come sottoscriveva Agostino, pensatore molto presente nella riflessione di Bonaventura. In ciò v’è un rifiuto della conoscenza della natura come ricerca scientifica la quale non è che vana sapienza. La natura, piuttosto, deve essere, non oggetto di studio scientifico, ma mostrare all’uomo le innumerevoli facce del Creatore. La realtà diventa come un “libro magico” dal quale ricercare nuove manifestazioni della natura intelligibile di Dio. L’interesse scientifico è visto come umana vana curiosità alla quale deve essere preferito il rapporto contemplativo con l’essere supremo.
L’uomo ha in sé stesso la natura divina, una scintilla della perfezione di Dio e, per tanto, deve seguire la strada dell’introversione e della ricerca interiore piuttosto che dirigere la sua attenzione verso la realtà dei fatti. L’intelletto umano trova la luce divina nella memoria, come sosteneva Agostino, e con il perseverare della volontà può riuscire, nella limitazione propria dell’essere umano, a intuire la verità. L’intelletto, nel suo uso puro, formula giudizi veri ed universali e, per tanto, sarà in grado di esprimere il valore divino di se stesso.
La volontà mostra come nell’uomo vi sia una ragione che lo spinga verso il bene e, se il bene coincide con Dio stesso, allora il fine ultimo delle azioni umane è Dio. Il percorso è, in fin dei conti, tautologico: l’uomo è parte di Dio, le azioni possono essere dirette verso il bene, il bene è Dio, dunque l’uomo tende a Dio quando fa il bene. Siamo di fronte ad un circolo perché a questo punto potremmo dire che Dio tende a Dio quando fa il bene, cioè Dio: Dio tende a Dio quando fa Dio etc.
La conoscenza ha una doppia radice: una che deriva dalla sensibilità e l’altra direttamente dall’intelletto puro, una fa capo alla Ragione superiore (ratio superior) e l’altra alla ragione inferiore (ratio inferior). L’una è scienza della natura e l’altra sapienza e, come si può facilmente dedurre dal discorso, quest’ultima è la scienza della perfezione giacché disvela la realtà divina e fa partecipe l’uomo della natura di Dio. La guida alla sapienza, cioè l’uso della ratio nella sua totalità, è la luce divina che irradia costantemente il creato e lo fa tendere verso se stesso e, allo stesso tempo, lo rende intelligibile. Senza la “luce divina”, sarebbe anche impossibile per l’uomo comprendere anche solo alla lontana la profonda verità dell’universo.
In tutti i pensatori neoplatonici v’è costantemente l’idea di circolo, emanazione e ritorno della divinità in se stessa. Non fa eccezione Bonaventura che propone una teologia positiva e negativa al contempo: se da una parte la divinità non può essere espressa positivamente ( teologia negativa ), è anche vero che ad essa si può giungere nell’intuizione della memoria o dell’intelletto puro ( teologia positiva ). La nostra conoscenza di Dio è frammentaria e parziale ma non per questo è meno divina e meno preziosa per la salvezza, compito e fine dell’uomo. L’anima, senza Dio, sarebbe nulla e, per tanto, Dio è l’essere senza il quale il mondo non sarebbe.
Non è possibile pensare a Dio senza ammetterne l’esistenza. Se Dio è pensabile, allora esiste. Questa prova dell’esistenza di Dio è fondata sull’idea che Dio, l’essere dotato di tutte le qualità, non può non possedere anche la “proprietà di esistere”. Tutti gli esseri potrebbero non esistere giacché essi non hanno tutte le proprietà pensabili, ma il caso di Dio è diverso giacché è l’essere dotato di tutte le qualità. Di conseguenza, se ammetto che Dio è pensabile (se non fosse pensabile allora non potrebbe esistere) allora esiste. Questa è una nuova versione della prova ontologica di Anselmo.
Questa impostazione è del tutto opposta all’intraprendenza scientifica verso il mondo esterno e alla ricerca della verità attraverso la conoscenza diretta della natura. La realtà sensibile è aleatoria, apparente e dirige l’attenzione verso il piacere, che, secondo gran parte di questi pensatori, in particolare per Bonaventura, è considerata la tentazione peggiore da cui rifuggire. L’osservazione sensibile si associa al piacere sensibile ed entrambe queste direzioni sono contrarie rispetto al verso della conoscenza divina. Inoltre, il piacere fisico è di natura “diversa” dalla più calma e pacata gioia che l’uomo dovrebbe avere, una volta ricongiunto con Dio. Sia per ragioni propriamente morali, che per ragioni di natura paradigmatica, l’uomo deve ricercare la verità entro di sé.
Bibliografia
Adorno, Gregory, Verra, Manuale di storia della filosofia ( voll. 2. ), Laterza, Roma-Bari, 1996.
Mori M., Storia della filosofia antica e medioevale, Laterza, Roma-Bari, 2005.
Severino E., Filosofia dai greci al nostro tempo. Filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 2004.
Severino E., Antologia filosofica, Rizzoli, Milano, 1988.
Contenuti speciali
Il grande miraggio: le prove ontologiche
Le prove ontologiche dell’esistenza di qualcosa, le più celebri sono quelle di Dio, sono tutte volte a dedurre l’esistenza di qualcosa (l’essere-stare) dall’essenza (l’essere-qualità).
La grande seccatura per i pensatori cristiani era quella di non poter dimostrare l’esistenza di Dio. Infatti, a Dio bisogna credere e di Lui non si può sapere con esattezza se esista o meno. Tuttavia, non è facile, per tutti coloro che ragionano, doversi rassegnare ad una più pacata visione delle cose: Dio non è dimostrabile. Ebbene, proprio perché non ci si rassegnava e si aveva necessità di dare un “fondamento stabile” alle proprie dottrine, tutte incentrate sull’esistenza di un Essere sommo, si imponeva da sé il problema di dimostrare l’esistenza di Dio. Non a caso, pensatori quali Cartesio e Spinoza, pur fuoriuscendo dal pensiero “medioevale”, fanno riferimento alle varie versioni della prova ontologica. La fortuna di tale “dimostrazione dell’esistenza” arriverà fino a Hegel, nonostante Kant si fosse prodigato a chiarificarne l’insensatezza.
La prova ontologica si fonda sul principio generale di “deduzione” logica e del principio di non-contraddizione. Posta una definizione, non posso contraddirmi, posta la definizione di Dio, non posso contraddirla. Dalla definizione di un fatto, un fatto qualunque, non discende mai la sua esistenza. Se dico “Oggi piove” non implica che oggi piova davvero. Ciò perché lo stato mentale rappresentazionale della pioggia (idea, per dirla al modo antico) implica un’immagine in me dell’acqua ma non la sua reale presenza.
David Hume osservava correttamente che l’“esistenza”, il dire che una cosa “esiste” non aggiunge nulla alla nostra conoscenza della cosa, in altri termini, l’“esistenza” non è assimilabile alle proprietà primarie (forme geometriche, grandezz etc.). Da questo risulta più chiaro come dalle sole proprietà primarie di un oggetto, vale a dire quelle qualità espresse nelle proposizioni di definizione, non si possa dedurre l’esistenza, semmai altre qualità primarie: posso, ad esempio, ragionare sulle proprietà geometriche della diagonale del quadrato, ma non posso dedurre l’esistenza dalle sue proprietà geometriche. La diagonale potrebbe non esserci.
Kant farà l’esempio celebre dei “cento talleri”: io posso immaginare una cassaforte piena di soldi e questa raffigurazione potrebbe essere nitidissima, con tutti i particolari, come il colore dell’oro, la lucentezza delle monete, il loro tintinnio etc. ma non per questo sarei più ricco di prima. E nella vita pratica nessun commerciante si fiderebbe un pagamento effettuato a partire da una descrizione perfetta dei soldi che abbiamo nel portafoglio: egli crederebbe alla loro esistenza solo dopo averglieli dati. In questo senso, l’esistenza non è una proprietà deducibile dalle proposizioni analitiche (proposizioni logiche, vere indipendentemente dal loro contenuto) e non è un caso che i criteri di verità per le proposizioni sintetiche siano di diverso genere, ad esempio, devono avere una denotazione, cioè devono rimandare ad un fatto. Così, se dico che “il Cagliari ha perso” è vera se e solo se esiste un fatto che corrisponda a quella frase.
Tutto questo si applica anche alle prove ontologiche: Dio è l’essere dotato di tutte le qualità, dunque deve esistere, giacché mi contraddirei se dico che non esiste. Ma cosa significa “l’essere dotato di tutte le qualità?” Probabilmente è predicato privo di significato. Inoltre, ammesso che possa pensarsi, da ciò non deriverebbe minimamente la “deduzione” dell’esistenza giacché l’esistere non è deducibile dall’essere.
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