Il problema della causa prima si declina in due modi distinti. Prima di tutto, una caratterizzazione generale del principio di causa.
Ogni evento e ha una causa c se
(a) c prevede temporalmente e.
(b) se non ci fosse c allora non ci sarebbe neppure e.
(c) le proprietà di e sono determinate da c e quindi c ed e sono reciprocamente commisurati.
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(d) c è causa di e.
La conoscenza del principio di causalità è interpretabile in più modi ed è uno dei temi su cui si incentra la teoria della conoscenza della filosofia moderna. La teoria della causalità inizia con Aristotele, come osserva con la sua consueta mancanza di modestia (invero giustificabile), egli fu il primo a porre il problema in modo esplicito. Egli fu il primo a porre la questione, ovvero, in quali termini possiamo formularla, cioè per ogni evento e, esiste una causa c tale per cui valgono (a-d). Sia chiaro che (a-d) definiscono la causalità ma non forniscono i modi attraverso cui noi soggetti umani arriviamo a conoscerla. Quindi si può distinguere una assunzione metafisica (il mondo è cause ed effetti) dalla questione conoscitiva (epistemologia: come conosciamo il mondo di cause ed effetti).
Secondo la teoria empirista più radicale, cioè quella di Hume, secondo cui noi conosciamo chiaramente e distintamente le idee formate sulla base dell’esperienza, possiamo assumere che rispetto a ciò che noi sappiamo rispetto al passato allora è vero che ogni evento ha una sua causa. Se però spostiamo il problema al futuro, non possiamo esserne certi. Infatti, l’esperienza del mondo è solo quella che abbiamo di ciò che è accaduto sino ad ora. Cosa ci garantisce che domani il futuro rispetterà il principio di causa? Secondo Hume, non possiamo avere un grado di certezza assoluto ma soltanto relativo.
Kant riformula il problema in un altro modo. Egli sostiene che una frase come “La pioggia è causa dell’allagamento” non è una frase puramente empirica, cioè fondata solo su dati di senso. Infatti, la riunione dei due fatti (*pioggia* e *allagamento*), che quanto al contenuto della proposizione sono due fenomeni distinti, dipende dall’intelletto del soggetto. L’operazione di riunione dei due fatti è operata automaticamente dall’intelletto, il quale ha tra i suoi principi di funzionamento (chiamiamolo così) la causalità. In altre parole, il soggetto riunisce in un’unità causale (in questo caso) due fenomeni distinti. Il principio di causa, allora, è un nostro modo di concepire il mondo e, nei termini di Kant, è impossibile altrimenti. Cioè un soggetto non può cessare di vedere il mondo in termini causali perché è così che funziona il suo intelletto. L’intelletto è l’insieme delle regole di riunione di fasci di dati di senso distinti (siano essi esterni, lo spazio, siano essi interni, il tempo). Tra le regole dell’intelletto, le categorie, c’è il principio di causa. La formulazione di proposizioni come “La pioggia è causa dell’allagamento” è data dalla combinazione dei dati di senso e dall’attività dell’intelletto.
Questi i termini del problema. Ci sono anche altre teorie della causalità, come quella di Spinoza, ad esempio, che è sostanzialmente assimilabile all’idea che la causalità è un particolare tipo di implicazione (“La pioggia causa l’allagamento” = “La pioggia implica l’allagamento”). Vediamo due modi di affrontare la questione.
Aristotele. Se ogni effetto ha una causa, allora deve esistere una causa prima che determini a cascata tutte le altre cause. Infatti, abbiamo detto che per ogni evento e esiste una causa c e la causa c è precedente ad e. Ad un certo punto le cause finiscono in un’unica causa, che Aristotele, e altri, chiama Dio. Nel caso di Aristotele, Dio è il “motore immobile” (o anche “pensiero di pensiero”) che ha determinato il movimento primo di tutte le cose che seguono a cascata. Nel caso della filosofia cristiana, Dio è infinito e onnipotente, cosa che non è per Aristotele. Non è né infinito né onnipotente. Sta là. La forma di questo argomento è diventata nota come “prova cosmologica dell’esistenza di Dio” perché proverebbe l’esistenza di Dio dalla storia delle conseguenze. Sia chiaro che qui con “Dio” va intesa proprio un’entità distinta dal mondo tale che pur essendo causa del mondo non ne è parte (alternativamente, in effetti, si dovrebbe supporre che Dio ha creato se stesso… il che è un concetto di creazione sui generis e sicuramente non in linea con il senso ordinario della parola – non ci avevo mai pensato. Questo suggerisce che Dio e la creazione devono essere entità distinte – nota bene questo “devono essere” che è una supposizione sulla base di ragionamenti astratti ed era proprio quello che Hume condannava quando voleva dire “qui stai passando di palo in frasca, dall’esperienza all’inconsistenza”). Il che implica, appunto, che la causa e l’effetto siano di ordini metafisici diversi (ovviamente, Dio è più perfetto etc. del mondo). E per capire la questione, il tempo è iniziato dal momento in cui Dio ha dato avvio (o creato) il mondo, non prima. Quindi esiste un momento in cui il mondo inizia. In sintesi:
(I) Il mondo ha inizio con un atto di Dio (creazione o moto primitivo)
(II) Esiste un evento che non ha causa (Dio).
(III) Il mondo è finito almeno in senso temporale.
Spinoza. Spinoza accetta la versione della prova cosmologica ma con una differenza. Egli sostiene che, sì, deve esistere una causa prima di tutto, ma in termini differenti rispetto ad Aristotele. Per Aristotele la prova funziona in termini di causa efficiente (semplificando). Cioè ciò da cui nasce il movimento di qualcosa. Per Spinoza, invece, non esiste limite alla storia dell’universo. Non esiste limite temporale né spaziale perché l’universo è da sempre. Non esiste un principio temporale. Il mondo, che coincide con Dio, che coincide con la natura e oggi approssimeremmo con “l’universo”, è semplicemente sempre esistito e non è stato creato. Esso è infinito a ritroso e in avanti. L’universo si configura come una totalità assolutamente infinita che appare finita solamente in quanto noi siamo in grado di concepirla a pezzi. Infatti, l’uomo può conoscere Dio, come concetto, solamente attraverso l’uso della ragione, in quanto parte di Dio-natura stesso. Ovvero, egli concepisce di essere parte della totalità grazie al fatto di poterla concepire in quanto partecipe della sua natura. E da ciò, secondo Spinoza, trae la massima felicità: contemplare il mondo dal punto di vista di un Dio che… non ha punti di vista!
(I*) Il mondo non ha inizio con un atto di Dio (creazione o moto primitivo)
(II*) Esiste un evento che non ha causa (Dio=Natura=Totalità).
(III*) Il mondo è infinito in ogni senso (spazio/tempo/proprietà).
Spinoza assume che la natura è assultamente infinita ed è dotata di ogni proprietà.
Osserva che entrambe le posizioni sono compatibili con le attuali teorie scientifiche (indipendentemente dalla loro metafisica di sfondo). Infatti, il modello scientifico della relatività è compatibile con entrambi, anche se Einstein esplicitamente disse di pensare al Dio di Spinoza e alla teoria di Spinoza come una buona immagine metafisica della sua concezione. Questa ambivalenza scientifica non sorprende perché essa studia quello che noi possiamo sapere a partire dai dati di senso e combinazioni con i nostri principi dell’intelletto, niente che vada al di là di questo.
Veniamo ora a come la penso io. Ti invito nuovamente a leggere il mio “La storia come libera creazione delle verità eterne“. In ogni caso, io penso che sia una questione indecidibile ed è una delle parti più estese della filosofia critica kantiana. Kant spende un centinaio di pagine per dimostrare come entrambe le posizioni nascano da un “fraintendimento” della ragione nella sua applicazione nell’uso delle conoscenze fornite dall’intelletto. Di fatto, tutto si riduce a questo: non siamo in grado di pensare all’infinito, perché siamo soggetti finiti. Quindi, un universo infinito è postulabile, non dimostrabile. E in ogni caso, la sua conoscenza eccede di gran lunga la nostra mente. Il caso contrario, invece, riduce tutto all’assunzione di un’entità che, di nuovo, si spinge oltre le soglie del nostro intelletto (che conosce appunto solo dati di senso mediante l’uso delle regole dell’intelletto). In entrambi i casi, non siamo adeguati per conoscere il risultato né, soprattutto, c’è un modo di scoprirlo.
Per quanto mi riguarda, hanno tutti ragione. Da un punto di vista cognitivo, non possiamo dare una risposta alla domanda perché eccede ciò che noi siamo in quanto soggetti razionali finiti rispetto ad un universo che io definisco “inesauribile”. Siccome esso è inesauribile, per noi, esso può apparire sia infinito (c’è un senso in cui per noi lo sarebbe) perché indefinitamente più vasto di noi; sia finito perché possiamo limitarci appunto ad osservare che, concettualmente, esso assume dei limiti (la totalità di Spinoza è definibile in una proposizione che, dunque, da dei confini concettuali). Ora, per me, l’universo è sia infinito che finito perché c’è un senso chiaro in cui è entrambi, cioè quelli che ti ho appena esposto. Non è un senso ordinario, tant’è che sembra una contraddizione. Ma in realtà mostra semplicemente che il nostro linguaggio è ambivalente e limitato, fondato appunto su un soggetto organizzato con precise regole all’interno di un mondo che ha le sue regole. Quindi, la domanda ammette entrambe le risposte contemporaneamente, perché sono due formulazioni di verità eterne con “eterne”, qui, nel senso che sono due formulazioni di proposizioni non legate ad un preciso spazio-tempo. Ed infatti ritornano continuamente nella storia della filosofia entrambe più o meno nella stessa formulazione. E ritorneranno sempre perché sono due modi di concepire la stessa realtà. Quando vogliamo dare un “taglio” o, più correttamente, una “forma” al pensiero, che eccede il linguaggio, ecco che l’universo assume una delle due forme. Perché con il linguaggio puoi scegliere solo una delle due ma non entrambe contemporaneamente. Per me, è un problema simile a quella illusione ottica che ti fa vedere solo una donna vecchia o una giovane ma non entrambe nello stesso tempo. Ma l’immagine è una sola. Ora, chiaramente qui siamo in un contesto più complesso. Ma l’idea è esattamente quella.
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