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Vita
Dopo i pluralisti e le loro visioni del mondo, il problema dell’origine dell’essere, del divenire e del molteplice, viene per un certo periodo accantonato, infatti è la centralità dell’uomo che viene ad affermarsi nel periodo di massimo sviluppo di Atene e della democrazia ateniese.
Pericle e la sua cerchia governarono in modo tale che, all’interno della cittadinanza di Atene, ci fosse un’ampia libertà individuale nella quale i cittadini potessero prendere iniziativa.
Protagora visse in questo fertile periodo nella città che diventò la capitale della filosofia. Egli nacque ad Abdera nel 491 a. C., città della Tracia, pare sia stato educato dai Magi persiani e durante i suoi plurimi spostamenti abbia incontrato Democrito e sia venuto in contatto con la filosofia di Eraclito. Nel 411, a causa di un suo scritto contro gli dei, venne accusato di empietà religiosa e lasciò Atene, nel viaggio verso Siracusa morì a causa di un nubifragio.
Fu un sofista, maestro a pagamento, ed esercitò la professione per quarant’anni, molto apprezzato anche da Platone e Aristotele.
Opere
Dei suoi scritti si ricordano il testo causa della condanna d’empietà religiosa, le “Antilogie”, e la “Verità”. Delle sue opere ci sono pervenute poche frasi e frammenti, alcune note le abbiamo da Platone dal dialogo omonimo “Protagora”, dove il filosofo della Tracia è il protagonista.
Filosofia
La sofistica fu un movimento ampio e diversificato ma come tratti comuni si possono indicare la grande varietà di temi antropologici come “l’uomo”, la “società”, i problemi delle tecniche produttive e senz’altro uno degli aspetti più importanti fu questo: la grande importanza data alla parola e l’assenza di una verità assoluta e irrefiutabile.
Protagora ha una visione dell’uomo che esemplifica quanto detto sopra: l’uomo è misura di tutte le cose e il soggetto che percepisce e prova esperienze. Dal momento che tutte le esperienze sono di egual valor, non esisterà un uomo più sapiente dell’altro sul piano della conoscenza. Inoltre si può costruire qualsiasi ragionamento a partire da premesse qualunque, scelte, tra l’altro, in modo piuttosto arbitrario. Per esempio, una persona ritiene una certa donna bella, per le stesse ragioni che lui indica per difendere la sua posizione ( formosità, densità, intensità di sguardo ecc. ) un’altra persona può essere in disaccordo. In questo senso, è sempre aperta la possibilità di antilogie e mostra come qualsiasi discorso è vero solo per chi lo pronuncia.
Così dell’essere non si può dire nulla, sia perché l’uomo nella sua analisi è limitato sia perché l’essere è impensabile, e anche ammettendo che l’uomo possa conoscere l’essere, risulta comunque impossibile all’interno dei tempi della vita umana.
Se questa presa di coscienza di Protagora dell’indefinibilità dell’essere, con l’asserzione precisa di una assenza di verità che sia in sé irrefiutabile e dunque una verità che venga per forza fatta coincidere con l’opinione soggettiva, allora ci si chiede quale sia il ruolo del sapiente, se egli esista e quanto possano pesare le sue opinioni. Per Protagora, le opinioni son di valore uguale a tutte le altre. Tuttavia esiste una certa validità delle opinioni, alcune infatti riescono a controllare maggiormente la realtà rispetto ad altre, così tanto più un’opinione è valida e tanto più questa sarà capace di prevedere il futuro, per tanto il vero sapiente è colui che sa mostrare le giuste opinioni e far sì che queste vengano applicate. La tecnica del discorso diventa il modo di controllare il mondo e di persuadere le altre persone, per tanto, tra le varie tecniche, la retorica assume una rilevanza capitale. E’ con i sofisti che nasce un’idea: che la filosofia debba essere una tecnica utile per la sopravvivenza delle persone.
Riferimenti
Io affermo, sì, che la verità è proprio come ho scritto; che ciascuno di noi è misura delle cose che sono e che non sono: ma c’è una differenza infinita fra uomo e uomo per ciò appunto che le cose appariscono e sono all’uno in un modo, all’altro in un altro. E sono così lontano dal negare che esistano sapienza e uomo sapiente, che anzi chiamo sapiente colui il quale, trasmutando quello di noi cui certe cose appariscono e sono cattive riesca a far sì che codeste medesime cose appariscano e siano buone. E tu non combattere il mio ragionamento inseguendo ancora nelle parole; ma vedi piuttosto di intendere cos’, sempre e più chiaramente, che cosa voglio dire. Ricorda quel che già prima dicemmo che a chi è malato i cibi sembrano e sono amari, a chi sta vene, al contrario, sono e sembrano gradevoli. Se non che non è lecito inferire da ciò che di questi due l’uno è più sapiente dell’altro, – cjé non è possibile, – e nemmeno si deve dire che l’ammalato, perché ha tale opinione, è ignorante, ed è sapiente il sano perché ha opinione contraria; bensì bisogna mutare uno stato nell’altro, perché lo stato di sanità è migliore. E così, anche nell’educazione, bisogna tramutar l’uomo da un abito peggiore a un abito migliore. Ora, per codesti mutamenti, il sofista adopera discorsi come il medico farmaci. Ma nessuno mai indusse chicchessia che avesse opinioni false ad avere opinioni vere; né di fatti è possibile che uno pensi cose che per lui non esistono, o cose estranee a quelle di cui abbia in quel momento una data impressione, ché queste soltanto per lui sono vere ogni volta. Ebbene, colui che per uno stato d’animo inferiore ha opinioni conformi alla natura di codesto suo animo, può esser indotto, credo, da un animo superiore ad avere opinioni diverse che siano conformi a codesto animo superiore; che sono appunto quelle fantasia che taluni per ignoranza dicono vere, e io dico semplicemente migliori le une delle altre, ma più vere nessuna. E i sapienti […] io sono ben lontano dal chiamarli ranocchi; che anzi rispetto ai corpi li chiamo medici, rispetto alle piante agricoltori. E dico che questi agricoltori introducono nelle piante, se qualcuna ne ammala, invece di sensazioni cattive, sensazioni buone e salutari, non solo vere; e i sapienti e buoni retori fanno sì che nalle città apparisca giusto il bene anzi che il male. Infatti ciò che per una data città apparisce giusto e bello, codesto anche è, per quella città, e giusto e bello, finché così ella reputi e sancisca: ma è l’uomo sapiente che per ogni singola cosa la quale ai cittadini sia male sostituisce altre cose che sono e appariscono bene. Per la stessa ragione anche il sofista che è capace di educare in tal modo i suoi alunni è uomo sapiente e meritevole di esser pagato da costoro con molto danaro. E così alcuni sono più sapienti di altri, e nessuno ha opinioni errate; e tu devi rassegnarti, voglia o non voglia, a essere misura delle cose; in questo che s’è detto si fonda appunto la salvezza della mia dottrina.
Protagora, fr. 80 A 21 a. Tr. It. In Platone, Opere, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. I, pp. 300-301.
Bibliografia
Severino, Antologia filosofica, Rizzoli, Milano, 1990.
Trombino M., Filosofia 1. Poseidonia, Bologna, 1998.
Adorno, Verra, Gregory., Manuale di storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 1993.
Spunti di riflessione
La verità della relatività
La critica di Protagora è volta alla costituzione della verità scissa dalla soggettività ed essa verte su un principio: ciò che conosco, è ciò che esperisco attraverso i sensi. Da questo principio, punto di partenza del sofista, stanno le conseguenze:
- non può esistere una conoscenza oggettiva,
- non esiste asserzione che possa essere vera per tutti,
Dunque, sia la nostra conoscenza che la nostra espressione della conoscenza risultano soggettive. Ciò che posso dire di conoscere con evidenza è ciò che vedo quando apro gli occhi, è ciò che sento quando ascolto della musica, è ciò che tocco quando tasto dei dolci e sodi corpi. Sull’evidenza sensoriale Protagora costituisce la relatività della conoscenza, da questo punto di partenza ne segue che non si giunge ad alcuna affermazione ulteriore nei confronti delle cose del mondo. Il mondo è nel soggetto, non al di fuori: Protagora accetterebbe tranquillamente l’idea che il mondo esista anche al di fuori del soggetto, ma non che esso sia il parametro della giustezza o erroneatezza della conoscenza soggettiva: l’uomo è misura di tutte le cose in quanto è il soggetto stesso che “vede” le cose.
Da questa analisi puramente epistemologica, evidenzia che, in ogni caso, almeno il soggetto è oggetto di evidenza certa, indubitabile ( giacché posso dubitare che le cose siano anche diverse per altre persone, ma non che ciò che vedo sia diverso da quel che mi appare ), tuttavia, il filosofo lungi da queste derivazioni necessarie della sua visione delle cose, trae delle conclusioni anche a livello linguistico: non esiste un’asserzione significativa che sia vera intersoggettivamente: ognuno la pensa come vuole.
La domanda sorge da sé: quand’è che un’asserzione descrittiva ha significato, quando un’affermazione è vera o falsa? Per esempio, quando “Il disco di Madonna è sopra la sedia” è vera o falsa? Potremmo dire: quando esiste un fatto nella realtà che confermi le mie parole. Secondo Protagora dovremmo dire: quando esistono delle percezioni soggettive che mi confermino le mie parole ( dunque un linguaggio autoreferenziale ). Ma è qui il punto: non esistono in linea di principio delle evidenze percettive valide per tutti: tutti vediamo e percepiamo in modo diverso. Inoltre, le percezioni non sono migliori o più giuste di altre: Protagora poteva anche arrivare alle estreme conclusioni: qualunque percezione, allucinazione o meno, non è dissimile da una qualsiasi altra percezione. Dunque, qualunque asserzione che non abbia di mira altro che percezioni soggettive è espressa da una credenza ( cosa che, per altro, Protagora non dice ): “Io credo che il disco di Madonna sia sulla sedia”. La frase, cioè, è vera o falsa solo se io lo penso veramente oppure no, a prescindere dal fatto che il disco di Madonna sia effettivamente sulla sedia o meno. Il punto del relativismo epistemo-logico è proprio questo: che qualsiasi espressione e qualsiasi conoscenza sia relativa ad un soggetto, in quanto esistono soggetti diversi allora devono esistere opinioni diverse e giammai verità.
E tuttavia da queste sole premesse si giunge ad ammettere anche che si possa parlare una stessa lingua senza mai capirsi: qualsiasi asserzione è soggettiva, dunque, ognuno associa alle parole un significato assai diverso. Inoltre, se il linguaggio è puramente espressione di un soggetto, come un bambino potrebbe mai acquisirlo? I genitori dicono delle cose che non sarebbero comprensibili in alcun modo per il bambino perché il bambino ha, evidentemente, delle sensazioni assai differenti a quelle dei genitori. Dunque, si arriverebbe al paradosso del parlare un linguaggio senza poterne imparare uno e parlare senza avere l’intenzione di essere capiti: il sofista, maestro del linguaggio, smetterebbe di esistere non avendo più nulla da insegnare.
Questa critica si fonda nel voler prendere veramente in considerazione le premesse del sofista riguardo alla teoria della conoscenza e alla relativa credenza del significato delle parole. Ma possiamo muovere anche un’altra critica: ammesso anche che ci si possa capire in un mondo in cui tutti sanno solo ciò che c’è nella propria testa ( per ciò tutti danno diverse interpretazioni riguardo all’importanza da accordare alle cose – sebbene non mettono in discussione le cose stesse – ), come possiamo arrivare effettivamente a stabilire ciò che sia meglio o peggio per noi?
La conoscenza del proprio bene deve implicare una certa conoscenza del mondo, e questo è chiaro anche a Protagora ( quando ricorda che il malato sente amaro quando il cibo è dolce e, dunque, si trova in una posizione di malessere ). Tuttavia il “meglio” ed il “peggio”, che non possono essere coincidenti con la verità, implicano in una certa misura una condizione di conoscenza delle cose: se non avessi l’evidenza che il dolce è buono e l’amaro è male non potrei nemmeno dedurre che ciò che è amaro è da rifiutare e da ricercare il buono. Dunque, una certa conoscenza della realtà è necessaria: ma allora esiste anche un vero e un falso. Per esempio “se sto male sento amaro” è una frase vera. Inoltre, esistono molte frasi come “Se bevo la cicuta, muoio” dove è evidente la verità: esistono molte esperienze soggettive che non faremmo perché sappiamo benissimo che esse ci condurrebbero alla morte.
Un tale mi disse: “Come fai a sapere che la droga non ti piace senza averla prima provata?”
Se fossi stato in Protagora, avrei dovuto ammettere che egli aveva ragione, eppure risposi negativamente:
“Ho delle esperienze personali e di altri che mi indicano con una certa chiarezza che se provassi una droga saprei che non mi piacerebbe. Cioè, conoscendo me e il mondo, posso dedurre approssimativamente bene ciò che mi può piacere da ciò che non mi può piacere. Comunque, ti posso torturare?”
E lui: “Che?”
E io: “Be’, considerato che tu non sei mai stato torturato prima di adesso, direi che non puoi minimamente essere sicuro del fatto che, magari, la cosa ti può piacere!”
Quindi, anche mettendola sul piano della pura esperienza, esiste comunque una certa conoscenza che ci consente di associare ( non di capire ) a determinate esperienze un nostro bene o un nostro male.
Ancora con Protagora, si potrebbe dire che il suo relativismo non è di tipo conoscitivo ( giacché dobbiamo ammettere che anche nell’esperienza esiste qualche forma di evidenza non soggettiva, ed è l’osservazione intorno al soggetto d’esperienza stesso ) o dobbiamo ammettere che esso, così come ce lo pone lui, non è molto credibile. Per quanto riguarda il relativismo doxastico ( sulla possibile espressione della verità ) ci sono fin troppe critiche valide e noi ne abbiamo accennata qualcuna.
Allora il relativismo di Protagora può essere credibile solo a livello etico: non si può dire a priori cosa sia meglio o cosa sia peggio. La decisione dell’uomo non potrebbe mai essere predeterminata dall’esperienza passata giacché qualsiasi esperienza passata non potrà essere la medesima nel futuro e nel presente[1]. Dunque, il relativismo morale porta ad un’indecidibilità perenne: la memoria, che Protagora non tira in ballo, non è un sufficiente spartiacque per discernere una buona percezione da una negativa. In sostanza, il relativismo morale costruito in questo modo pone il dissolvimento dell’etica.
Ma c’è anche dell’altro. Se il relativismo morale fosse effettivamente credibile, allora non potrei fare a meno di far cadere le categorie “meglio” e “peggio”, non solo di “vero” o “falso”. Infatti, come arrivo a determinare il “meglio” e il “peggio” se tutto ciò che vedo è visto da me e solo da me, cioè, come faccio ad affermare ciò che è meglio o peggio per me? In effetti, senza alcun parametro, non posso affermare nulla intorno al meglio ed al peggio e questo ha interessanti conseguenze: per esempio, se uno mi tira un ceffone, non posso dire che egli sia nel “torto” o che sia stato un “peggio” per me. Infatti, potrebbe darsi benissimo il contrario: che sia per me un “meglio”. D’altra parte, se fosse “un peggio” per me dovrei anche concedere che è un “meglio per l’altro” e quindi, ragionando io come lui, non potrei dargli alcuna colpa: egli era convinto di essere nel giusto e assenti tutti i parametri, devo anche tacere e tenermi, al massimo, la voglia di vendicarmi.
D’altra parte, il concetto di “meglio” e “peggio” si applicano alle stesse cose: è meglio una cosa o l’altra. Tale concetto implica senza dubbio la presenza di un soggetto, ma anche la presenza delle cose stesse, dunque le cose devono avere delle qualità. Il meglio ed il peggio, in sostanza, non sono affatto dei concetti relativi ad un soggetto in quanto l’attribuzione soggettiva non nasce a caso ( può, ma non ci interessa entrare nella questione ): che io mangi una mela e non un pneumatico di automobile invecchiato in strada non è un che di casuale: so che il pneumatico mi fa male, mentre la mela no. L’umanità stessa non sarebbe sopravvissuta a lungo se non avesse imparato a riconoscere preliminarmente ciò che è bene da ciò che è male: sia intendendo “bene” e “male” come reale “benessere” e “malessere” del corpo, sia pensando “bene” e “male” come decisione in accordo o in disaccordo con le circostanze, decisione razionale o casuale.
Dunque, in realtà: deve esistere una certa conoscenza, deve esistere una certa oggettività, deve esistere una comunità di informazioni intersoggettive per far sì che il linguaggio sia effettivamente un “linguaggio” e non un vaniloquio personale, deve esistere la verità e la falsità almeno in alcune affermazioni, e devono essere non del tutto relativi il meglio ed il peggio.
Quando si parla di “relatività” si deve andare cauti perché, anche a giocare sulle sensazioni personali, non mi è stato ancora dato conoscere un solo masochista che una volta che gli fosse stato aperto lo stomaco con un coltello, avesse detto: “Continua così che mi fai godere!”, né una persona tanto folle che ammettesse: “Voglio provare nuove sensazioni: torturami!”.
Difesa di Protagora
Il masochista al sadico: “Torturami”.
Il sadico: “No!”[2].
[1] Questo è evidente dalla propria vita: i ricordi sono sempre diversi da ciò che abbiamo provato.
[2] Campanile Achille. Tragedie in due battute.
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