Vita
Platone fu probabilmente la figura più importante della filosofia antica, non solo perché riprende, dopo la piena comprensione, la lezione socratica, tutti i temi già trattati dalla filosofia a lui precedente, ma anche perché egli opera una vera e propria svolta nel pensiero. Le sue risposte sono state talmente assimilate da tutta la filosofia successiva, sia implicitamente che esplicitamente, sia da chi ha criticato sia da chi ha sostenuto, che fanno ormai parte della nostra struttura culturale. Il sostrato logico profondo proposto nella teoria delle idee, come modelli ideali a cui la realtà tende, è sicuramente uno dei cardini della scienza occidentale.
Platone non fa solo eccezione per la sua inequiparabile profondità rispetto ai pensatori precedenti, ma anche per il fatto che nelle sue opere troviamo molti riferimenti biografici dai quali siamo in grado di tracciare un quadro preciso della sua vita: cosa impossibile per la gran parte dei presocratici.
Platone nasce ad Atene nel 437 a. C. da famiglia aristocratica, tra le più eminenti dell’intera città. Il padre Aristone vanta nobilissime origini: egli discendeva direttamente da Crodo al quale si attribuisce la parentela col dio dei mari, Poseidone; la madre invece discendeva dal grande legislatore Solone, ed anch’a lui si affibbia la parentela col dio delle acque. Aveva due fratelli, Glacone e Adimanto, i quali compaiono in alcuni dialoghi come personaggi. Aveva anche una sorella, Pitone.
L’agiatezza della sua condizione sociale gli permise di dedicarsi interamente a ciò che egli preferiva. Nella sua formazione in gioventù è risevata una importanza specifica alla ginnastica dalla quale deriverà un possente fisico (Plato significa “spalle larghe”, e il suo soprannome spodesta il quasi dimenticato nome Aristocle). Ma non fu solo gineasta ma anche musico e poeta. Pare componesse epigrammi per ragazzi e ciò, in una cultura misogna come quella greca antica, non deve stupire eccessivamente. D’altra parte, l’omosessualità non era osteggiata, né vista in tralice: essa era semplicemente un gusto sessuale delle elite e non solo. Nel Fedro, uno dei più grandi dialoghi, vengono descritti Socrate e Fedro intrattenersi in battute allusive, proprie degli innamorati. Fu anche compositore di tragedie e così condusse la sua vita fino a che non conobbe Socrate.
L’incontro col maestro e l’esperienza della condanna a morte sono stati due momenti cruciali nella vita del filosofo. Pare che stesse per mettere in scena una delle sue tragedie quando sentì la voce del maestro al di là del teatro e questa fu un richiamo talmente forte che bruciò le sue tragedie e si unì a Socrate. Forse fu per questo che non ci giunsero le sue opere non filosofiche mentre conserviamo i suoi celeberrimi dialoghi.
La sua attività filosofica inizia proprio con la conoscenza di Socrate. Assieme ad altri allievi, seguiva il metodo di ricerca e discuteva i temi proposti dal maestro.
La situazione storica era tra le più travagliate della storia greca. Erano gli anni della guerra del Peloponneso, la morte di Pericle, l’uomo che meglio incarnò lo spirito politico dell’audace Atene democratica; la guerra con Siracusa sono solo gli eventi più significativi di un periodo importante ma tormentato. Conseguenti ai processi storici in atto, sono gli sconvolgimenti politici che la Polis aveva in quegli anni: la successione di diverse forme di governo in modo molto repentino non favorirono la positiva visione della politica da parte dei cittadini né una serena riflessione sul mondo come avente in se stesso e non in altro la sua positività. In questo quadro va ad inserirsi la figura rivoluzionaria di Socrate ed il suo processo. Accusato di empietà, credenza alternativa alla religione di stato, corruttore dei giovani, Socrate viene condannato. Lo scenario drammatico non è solo dipinto dagli eventi storici, di per sé stessi importanti, ma anche da un cambiamento dei costumi sociali, della visione della natura e della stessa “antropologia” greca. Il 399 a. C., l’anno della morte di Socrate, è un momento chiave della storia della cultura occidentale. Per quanto Socrate, così come è presentata la sua fine e le sue ultime ore nell’Apologia e nel Fedone, si intrattenga a parlare serenamente su argomenti filosofici, anche attinenti alla morte, è indiscutibile che egli con la sua stessa sincerità e serenità apra una profondissima ferita nella coscienza di chi ha cercato di coglierne il significato. Se egli avesse fuggito la morte o avesse accettato un possibile compromesso, non avrebbe turbato nessuno, né la ricaduta delle sue parole sarebbe stata di tale portata storica. Di una lucidità sconvolgente è l’ultima frase “… ma è già l’ora di andar via, io a morire, voi a vivere; chi di noi vada incontro a una sorte migliore, a tutti è ignoto tranne che al dio”.
Platone di certo fu profondamente influenzato dal suo maestro tanto che al suo ritiro da Atene nel 399 a. C. per timore di avere anch’egli ricadute su se stesso insieme agli altri discepoli di Socrate, compone l’Apologia in difesa del suo amico e maestro.
Platone si dimostra subito un filosofo molto impegnato nell’etica e, soprattutto, nella politica. Come dice lui stesso nella lettera settima “… appena in grado di disporre della mia volontà, dedicarmi subito alla vita politica”. E la vittoria di Sparta sua Atene impose alla città la guida di trenta tiranni, così chiamati, tra i quali vi era pure Crizia, un parente da parte di madre di Platone. Gli venne offerta la possibilità di entrare a far parte del governo, ma Platone preferisce rimanere un attento spettatore della res publica. Se egli aveva, da buon aristocratico, l’idea che l’oligarchia fosse la migliore forma di governo, fu costretto a ricredersi non appena poté assistere alle attività dei trenta. Egli capì che la tirannide era la forma politica peggiore. Dopo la cacciata dei trenta per mano di una sommassa democratica, il vecchio ordinamento politico fu ripristinato. Ma se la tirannide era cosa assai negativa nel 399 a. C., nel pieno della repubblica democratica appena restaurata, ecco che viene processato e condannato Socrate.
A seguito di questi avvenimenti Platone intraprende diversi viaggi. Si reca in Egitto e in Italia meridionale, in particolare a Taranto, dove conosce Archita e un’importante gruppo di pitagorici. L’altra esperienza importante per Platone fu la conoscenza di Dionisio, tiranno di Siracusa, e Dione, del quale diventa amico.
Questi viaggi, compiuti tra il 390 a. C. e il 388. a. C., favoriscono la conoscenza di dottrine alternative che avranno una ricaduta importante sul filosofo, soprattutto l’incontro con i pitagorici da un punto di vista intellettuale, mentre più rilevante è stato l’incontro con Dionisio, da un punto di vista strettamente biografico. A Siracusa, infatti, ha dissidi con Dionisio il vecchio, tiranno della città, il quale lo rende schiavo. Lo salva solo Dione dalla probabile condanna a morte. Viene riscattato da alcuni suoi amici e ha il suo primo e fallimentare approccio nei confronti della politica attiva: egli stava già tentando di mettere in pratica le sue dottrine politiche.
In quegli anni fa ritorno ad Atene e fonda l’accademia, così chiamata perché vicina ad un sito sacro dedicato al dio Accademo. Fu la prima scuola di filosofia in occidente. La scuola rimane aperta per lungo tempo: durerà circa mille anni perché fu fatta chiudere dall’imperatore bizantino, Giustiniano, nel 529 d. C., data in cui furono chiuse tutte le scuole non cristiane.
Platone, nel 367 a. C., compie un nuovo viaggio a Siracusa e ancora una volta non ha fortuna: viene trattenuto per due anni e Dione fu esiliato. Tornato ad Atene nel 365 a. C., non contento delle sue sfortune nella terra siciliana, vi fa ritorno nel 361 a. C., per difendere proprio Dione e su invito dello stesso Dionisio II, figlio dello stesso Dionisio il vecchio che lo aveva condannato precedentemente. Platone fu incarcerato e ancora una volta scampato illeso dalla condanna a morte, fu salvato questa volta dal pitagorico Archita. Nel 360 a. C. fa ritorno alla sua città natale e nel 347 a. C., all’tà di ottant’anni, muore.
Lascia tutti i suoi averi al fratello Adimanto. Pare che avesse in mano la commedia di Aristofane “Le nuvole”, famosissimo testo comico dove il commediografo ironizza su Socrate e sui filosofi in generale.
Per quanto riguarda la biografia intellettuale e i suoi momenti salienti, si possono riassumere in tre grandi categorie alle quali corrispondono tre diversi momenti letterari: il periodo della giovinezza, il periodo della maturità e il periodo della vecchiaia.
La cultura greca era tendenzialmente orale ed anche la filosofia era concepita come un discorso tra interlocutori diversi in continuo dibattito su d’un argomento specifico. La scrittura non era dunque il mezzo prediletto per la creazione e trasmissione della cultura. Bisogna anche considerare che lo scrivere non era un’attività così ovvia come potrebbe sembrare oggi: i materiali erano assai meno sicuri di quanto siano adesso. Inoltre, la cultura greca ed il suo mondo intellettuale era, in generale, gestito da aristocratici i quali avevano più o meno una concezione elitaria della cultura e della sua gestione. Un testo è leggibile da tutti coloro che sanno leggere, anche da quelli che non sono capaci di capirne il significato profondo e, quindi, tenderanno a fraintenderlo. In un libro non v’è alcuna qualità attiva. Un maestro invece è capace di far capire e spiegare continuamente dubbi agli uditori, i quali saranno relazionati direttamente con il proprio maestro ed egli, in qualità di maggior sapiente, saprà sempre commisurare il giusto contenuto alle orecchie degli astanti. Tutte queste idee antidemocratiche nella cultura erano state sostenute da Eraclito, del quale, Platone, aveva una buona opinione. Per questa ragione, studiando Platone, bisogna tener presente che i suoi dialoghi non sono l’espressione più compiuta del suo pensiero: essi rappresentano un esercizio e una sistemazione organica di alcune sue concezioni. Ma, come ci giunge da Aristotele, esistono una serie di dottrine non scritte sulle quali Platone aveva ragionato e assegnato un valore molto importante.
I testi platonici sono tutti sottoforma di dialogo, a parte dell’epistolario. Questa forma naturalmente non è frutto del caso: è il modo più vicino alla lingua scritta per parafrasare la lingua orale. Caratteristica più importante dei dialoghi è la presenza di un personaggio principale, il più sapiente che parla o con un’altra singola persona o con un insieme. Il saggio parlerà sempre da una posizione di vantaggio intellettuale, rispetto al suo interlocutore.
Il lavori così concepiti sono sottoforma di monografie tematiche le quali sono organizzate in ordine preciso: viene posto il problema, generalmente vi è la ricerca della definizione di un valore morale, alla quale segue una prima risposta possibile da parte dell’interlocutore. La prima tesi risulta essere inadeguata. Successivamente viene indicata una nuova risposta che risulterà corretta nella forma ma impropria nel contenuto alla quale segue un secondo attacco. La fine del processo arriva con la sintesi, la definizione più corretta ( assente nei primi dialoghi e, per questo, chiamati apiretici ). Dunque, Platone vede nella dialettica il punto cardinale della verità la quale solo con il dialogo si costruisce: dialogo è comunione di pensiero ma anche la sua generazione così anche la meieutica socratica vi può prende un posto ragionevole.
Opere
Dialoghi giovanili.
- Apologia di Socrate
- Critone
- Ipparco
- Ippia Minore
- Ippia Maggiore
- Alcibiade primo
- Protagora
- Eutifrone
- Liside
- Carmide
- Lachete
- Ione
- Messenio
Dialoghi della maturità.
- Gorgia
- Menone
- Eutidemo
- Cratilo
- Repubblica
- Fedone
- Simposio
- Fedro
Dialoghi della vecchiaia
- Teeteto
- Parmenide
- Sofista
- Politico
- Flebo
- Timeo
- Crizia
- Leggi
Epistolario ( di cui sono senz’altro autentiche le lettere 7 e 8 ).
Schema di ragionamento
Ipotesi P(latone) 1: l’idea è entità immateriale, extramentale, oggettiva.
Specifica a: un’entità immateriale è definita dal non esser costituita di “materia”.
Specifica b: un’entità extramentale è una qualsiasi esistenza che non è posta dalla mente né richiede che qualcuno la pensi per esistere.
Spiegazione α: un qualsiasi oggetto fuori della mente è un’entità extramentale, in quanto, anche se non lo pensiamo, c’è.
Specifica c: l’oggettività di qualcosa risiede nel suo essere “indipendente da qualsiasi soggetto”, non nella materialità. Una qualsiasi entità oggettiva è contraddistinta 1) dal non essere relazionata ad un soggetto per quanto riguarda la sua presenza ( esistenza nel suo mondo ), 2) dal non essere causata da un soggetto, 3) dal non essere dipendente da un soggetto anche nella sua conoscenza.
Spiegazione β: una percezione potrebbe essere intesa come “oggettiva” se pensata esclusivamente in relazione ad un solo soggetto. Però, l’azione della percezione è sia causata da un soggetto, dai suoi organi di senso, che da esso esperita. In questa assoluta dipendenza della percezione ad un soggetto, sta la differenza tra “oggettivo” e “soggettivo”: più soggetti avranno percezioni diverse di una stessa cosa. Il fatto che due persone vedano uno stesso oggetto, o, addirittura, uno stesso colore, non implica affatto che la percezione sia la medesima: i due soggetti avranno due “sensazioni puntiformi” diverse rispetto allo stesso colore. In questo senso, semmai, dovrebbe esserci la stessa “unità informativa”: ma come esser certi di questa unità, stando alla percezione di due soggetti diversi, o dello stesso in tempi diversi, è cosa assai difficile da stabilire.
Spiegazione γ: è importante non credere che le “idee” platoniche siano delle entità mentali. Il problema che Platone si pone è “quale sia l’origine della conoscenza oggettiva e su cosa essa si possa fondare”. Sulle percezioni non è possibile e per quanto riguarda gli oggetti: 1) noi li esperiamo dalle sensazioni, dunque, la loro conoscenza da questo punto di vista, rimane incerta, 2) sono in continuo mutamento, per ciò, non offrono alcuna stabilità, stabilità che è criterio necessario di ogni conoscenza che non sia una pura e semplice opinione.
Ipotesi P2: un’idea è un’essenza reale.
Specifica a: un’essenza reale è un “universale”. Un universale è modello a cui partecipano molte cose.
Ex.: Un progetto di un’automobile è un’idea rispetto alle singole auto.
Specifica b: un’“essenza” è ciò che è attribuito a qualcosa dal verbo “essere” in termini essenziali[1]: un’essenza è qualcosa che, se negata, vengono negate tutte le cose che partecipano di essa. Così, se nego l’essenza del quadrato, nego tutti i singoli quadrati esistenti: questa concezione è la stessa che fa sì che se si dimostra che qualcosa è falso, sono false tutte le sue conseguenze. Se dimostro che non esiste un poligono a due lati, automaticamente sono tolti tutti i poligoni a due lati.
Specifica c: ad una sola idea partecipano più particolari. Con “particolari” in filosofia si intendono due cose: o una singola “percezione”, o un “singolo oggetto”. In questo caso, dobbiamo intendere con “singolo oggetto”.
Specifica d: l’idea è un’essenza “reale” nel senso che esiste in quanto essenza ed è indipendente da ogni costituente materiale oggettivo che partecipa di quell’idea.
Spiegazione α: ciò che è importante sottolineare è che Platone, con la dottrina delle idee, non si è posto un fine iperuranico, ma un concretissimo problema: quello di pervenire ad una conoscenza adeguata delle cose non passibile di soggettivismo. Dunque, dalle cose, attraverso le percezioni, non si perviene ad alcuna conoscenza del mondo. Quale altra strada, se non quella delle idee?
Inferenza. Se un’idea è un’essenza reale, se un’idea è un’entità immateriale, extramentale, oggettiva allora un’essenza reale è un’entità immateriale, extramentale, oggettiva.
Tesi PI: dunque, un’essenza reale è un’entità immateriale, extramentale, oggettiva.
Ipotesi P3: gli oggetti causano in noi delle percezioni.
Specifica a: questa è un’ipotesi, ma potrebbe essere dimostrata dando tre definizioni: una di “causa” e una di “oggetto” e una di “corpo del soggetto”.
(1) Una causa è un evento tale per cui se ne pone un altro conseguente.
- La causa determina un effetto. La causa pone necessariamente un effetto: è una possibilità innegabile all’interno di un mondo.
- Un effetto è determinato da una causa, se tolta la causa è tolto l’effetto.
(2) Un oggetto è un’entità materiale indipendente dall’esistenza di un soggetto.
- Tra causa e soggetto non v’è relazione, a meno che non si tratti di “causa dell’esistenza del soggetto.
(3) Il corpo del soggetto è a sua volta un oggetto.
- La natura del corpo del soggetto è identica a quella di un oggetto qualunque.
Poste queste premesse, è detta “percezione” quella modificazione del corpo di un soggetto posta da un oggetto tale per cui un soggetto non può non sentire una certa sensazione.
Specifica b: detto meglio, posto un soggetto “s” e un oggetto “o”, la relazione causale “C” “oCs” è una percezione.
Specifica c: si può anche obbiettare che la “percezione” è l’atto d’esperienza soggettivo e non la relazione causale tra soggetto e oggetto. Ciò può essere vero, in quanto la percezione è interpretabile proprio in questo duplice modo. Però, se si scinde l’atto d’esperienza dal mondo degli oggetti, potrebbe essere assai difficile asserire l’esistenza degli oggetti ( Berkeley ) o del soggetto ( Hume ): noi abbiamo posto la posizione di un “empirismo moderato”, quello lockeano o russelliano, cioè quell’empirismo che raggiunge gli oggetti dalla percezione e ne assicura l’esistenza, sebbene non pretenda di conoscerne “l’essenza”. Su questa spinosa questione, suggeriamo la lettura del saggio di Locke “Saggio sull’intelligenza umana”.
Inferenza. Se un’idea è un’entità immateriale, extramentale, oggettiva, se l’idea non è un oggetto, se solo gli oggetti causano in noi delle percezioni[2] allora le idee non causano in noi delle percezioni.
Tesi PII: dunque, le idee non causano in noi alcuna percezione.
Specifica a: le idee sono impercettibili nel senso forte del termine: non come l’atomo materiale, di cui Platone senza dubbio non credeva l’esistenza[3], invisibile per limitazione dei nostri sensi, le idee semplicemente non hanno capacità causale sulla materia né la materia sulle idee. In questo senso, in quanto la percezione implica un legame di causalità tra oggetto e soggetto, le idee non possono porre alcuna percezione: se la ponessero, allora sarebbero delle entità materiali, il che contraddirebbe la loro stessa definizione.
Spiegazione α: ammettiamo che le idee siano effettivamente “percepibili”: esse non sarebbero più la base fondante della conoscenza in quanto sarebbero cose, oggetti. Ma, allora, la loro conoscenza sarebbe fuorviante esattamente come lo è la percezione delle cose. In questo modo le idee non possono essere conosciute mediante la percezione.
Spiegazione β: le idee o sono percepibili o sono impercettibili. Se sono percepibili allora sono delle entità materiali. Se fossero entità materiali non si distinguerebbero dalle altre cose e non avrebbe senso nominarle in modo differente, inoltre non sarebbero più “modelli” ma le cose stesse, in fine sarebbero molte, mentre l’idea in sé stessa non è molteplice. Se l’idea diventa oggetto, perde tutta la sua ragion d’essere. Se le idee sono impercettibili allora o sono degli oggetti di piccolezza insensibile, cioè al di fuori della capacità della nostra sensibilità ( come le onde sonore a bassissima frequenza o i raggi ultravioletti e così via ) oppure non sono degli oggetti in alcun senso. Se le idee fossero delle entità presenti nel mondo, materiali ma impercettibili non costituirebbero i modelli delle cose giacché sarebbero, invece, i costituenti ultimi di queste. Le idee non possono essere atomi anche perché un solo atomo può far parte di una sola cosa, non ne implica più d’una ed esistono una molteplicità di atomi identici tra loro mentre le idee sono tutte diverse: se fossero uguali, non sarebbero discernibili ( senza dubbio, per Platone vale il principio di identità dell’indiscernibile giacché si pone da un punto di vista logico non dell’“esserci” ). Dunque, in ogni caso, per “idea” si deve intendere “un’entità al di fuori della materia”, dunque “al di fuori di ogni possibile percezione”.
Spiegazione γ: riassumiamo:
(i) un’idea è un’essenza reale o “forma”.
(ii) un’idea è indipendente dagli oggetti che partecipano di essa.
(iii) un’idea è immateriale, extramentale, oggettiva e impercettibile.
Inferenza. Se le idee non causano in noi nessuna percezione, se le idee sono delle entità reali extramentali, se le idee sono modelli delle cose allora le idee esistono in un mondo indipendente dalle cose.
Tesi PIV: dunque, le idee esistono in un mondo indipendente dalle cose.
Spiegazione α: tale mondo è chiamato da Platone “iperuranio”.
Ipotesi P4: Le idee sono modelli delle cose.
Corollario A: Un modello è ciò che c’è di comune a più entità[4] ed è da esse indipendente.
Specifica a: abbiamo detto ciò, ma va specificato. Infatti un “modello” per Platone è una proprietà generale, universale, cioè comune a tutte le cose che ineriscono ad essa.
Specifica b: L’idea di “bellezza” è ciò che c’è comune a tutte le cose belle: ma sebbene tutte le cose belle sono tali, esse non sono “la bellezza”. Per definire “la bellezza” non basta elencare tutte le cose che ricadono dentro il suo concetto in quanto esse sarebbero solo dei casi particolari. Per comprendere la bellezza bisogna guardare a “ciò che c’è di comune a tutte le cose belle”. Per fare un altro esempio, per comprendere la “circolarità” non basta vedere tutte le circonferenze, ma bisogna capire in cosa consista la proprietà universale “circolarità”.
Spiegazione α: un esempio celebre di questa visione non induttivistica, cioè che suppone l’impossibilità di conoscere principi universali da conoscenza esperienziale, è quello dell’infinito di Cartesio e del tacchino di Popper. Parliamo prima dell’infinito di Cartesio: egli sostiene che non sia possibile conoscere il “significato” della proposizione “i numeri sono infiniti”, o di qualsiasi proposizione che contenga la proprietà “infinito” se non abbiamo un’idea chiara e distinta, positiva ( affermativa ) del concetto di infinito. Se noi conoscessimo l’infinito per via negativa, l’infinito è ciò che non ha limiti, non potremmo mai esperirla giacché noi non abbiamo mai una conoscenza attuale del non limitato, ma sempre del limite: i numeri ci dovrebbero apparire limitati in quanto l’esperienza procede sempre ad aumentare e non a diminuire il limite. Così, l’idea di “infinito” non è deducibile dall’esperienza ma deve essere innata. Questo ragionamento è valido per tutte le idee di Platone: “circolarità”, “grandezza”, “completezza” etc..
Spiegazione β: uno dei grandi sostenitori dell’empirismo è stato senza dubbio Russell. Egli sosteneva, lockeanamente, che la conoscenza o è per via diretta o è per via indiretta, ma, in entrambi i sensi, deve essere riconducibile in una qualche forma di esperienza sensibile. L’esperienza diretta è quella che abbiamo quando vediamo le cose aprendo gli occhi. Per quel che riguarda l’esperienza indiretta è di tipo “immaginativo” cioè noi arriviamo a conoscere, in qualche modo, le esperienze dirette di qualcun altro: se uno mi racconta un fatto, arrivo a conoscerlo solo perché quel qualcuno ne ha avuto conoscenza diretta.
Intelligente e divertente è la critica di Popper a questo principio induttivista: un tacchino vuole conoscere quando arriva l’ora del pasto. Siccome non è un tacchino scemo, egli prende l’ora del pasto ogni giorno e arriva a capire con una buona approssimazione il giorno prima di Natale che ogni giorno egli mangia alle 13:30. Ma il giorno dopo, il giorno di Natale, non è egli a mangiare, ma è mangiato dal padrone per la festa. Il punto è questo: che il tacchino non aveva modo di dedurre la sua limitazione, stando esclusivamente all’esperienza.
!!Specifica c: In questo senso, o l’idea è una proprietà inerente alle cose oppure sono le cose a ricadere dentro il dominio dell’idea. Se l’idea è un predicato della cosa ( come la parola di colore nella frase “Il computer è grigio” ) allora l’idea è qualcosa che dipende dall’oggetto. Ma questo non terrebbe conto del fatto che noi riusciamo a comprendere l’idea indipendentemente dal fatto che ci siano infiniti casi particolari. Inoltre, assai spesso, capita che noi vediamo molte cose ma non riusciamo a definirle a partire dalle cose stesse. In fine, diventa assai difficile definire qualità “astratte delle cose” se non guardiamo alle “idee” delle cose, piuttosto che alle cose stesse. Su questa duplice possibilità di interpretazione delle “proprietà” delle cose, si gioca tutta la teoria della conoscenza fino ai giorni nostri.
Specifica d: Un’idea è ciò che c’è di comune alle cose. O essa è nelle cose o le cose partecipano in essa. Ma se le idee fossero nelle cose allora dovrebbero essere conosciute attraverso esse e così non è: ciò è evidente dall’esperienza. Dunque, le cose partecipano delle idee esattamente come “il ferro” partecipa all’idea di “metallo”. Se, ad esempio, negassimo che “il ferro” è “metallo” allora l’idea di “metallo” non cesserebbe di esistere, viceversa, se l’idea del “metallo” cessa di esistere allora cessa di esistere anche quella del “ferro”.
Inferenza. Se le idee sono modelli delle cose, se un modello è ciò che c’è di comune tra due o più entità, se le entità sono o cose o idee allora le idee possono comprendere altre idee.
Tesi PV: dunque, le idee possono comprendere altre idee.
Specifica a: un’idea è un’essenza universale. Con “universale” si intende un che di comune a tutte le cose che la riguardano. Il genere “suono” è comune a tutti i suoni particolari, ma il genere “rumore” è più universale del genere “suono” in quanto ci sono più sensazioni di rumore che di suoni. In questo senso: (1) tra le idee vale la relazione di inclusione gerarchica: un’idea è parte di un’altra se e solo se l’altra idea è più universale della prima. Detto più chiaramente: poste due idee “I” e “D”, “I” include “D” se e solo se “I” è più universale di “D”. “I” è maggiore di “D” se e solo se all’interno di “I” è inclusa “D” e almeno un’altra idea “E” (2) Tutte le idee sono universali ( in quanto tutte comprendono tutti i loro possibili particolari: l’idea di “quantità” comprende dentro di sé ogni grandezza, l’idea di rumore implica tutte le melodie e tutti i suoni diversi dalla musica etc. ), (3) Alcune idee sono più universali di altre.
Specifica b: in questo modo si crea una vera e propria “gerarchia” di idee alla cui sommità sta l’idea di bene in quanto essa costituisce l’ordine generale delle idee e oltre essa non c’è nulla.
Inferenza. Se le idee possono comprendere altre idee, se le idee comprendono altre idee secondo una relazione di “universalità” crescente[5], allora le idee sono organizzate in modo gerarchico.
Tesi PVI: dunque le idee sono organizzate in modo gerarchico.
Inferenza. Se le idee sono modelli di altre entità, se le idee possono essere modelli di altre idee allora le idee non sono modelli privi di significato.
Tesi PVII: dunque, le idee non sono modelli privi di contenuto.
Corollario A: in altri termini, le idee non sono modelli vuoti.
Specifica a: se un’idea esiste, allora non è un “concetto vuoto” ed esisteranno dei particolari che parteciperanno di quel modello. Il che implica che senza idea non ci siano neanche dei particolari: se ci sono i particolari allora c’è un’idea, non viceversa.
Specifica b: o l’idea ha un contenuto o non ha un contenuto. Se l’idea non ha significato allora sarebbe impossibile conoscerla. Se noi conosciamo un’idea allora deve avere un contenuto. Dunque, l’idea del nulla non è possibile.
Inferenza. Un’idea o è identica solo a se stessa oppure è identica anche ad un’altra. Ma se un’idea fosse identica ad un’altra allora ci sarebbero due idee identiche. Se ci fossero due idee identiche allora sarebbero indistinguibili e l’una sarebbe compresa nell’altra e viceversa il che non ha alcun senso. Dunque, l’idea è identica solo a se stessa e diversa da ogni altra.
Tesi PVIII: dunque, l’idea è identica solo a se stessa e diversa da ogni altra.
Specifica a: l’idea è un’essenza, ovvero è una “forma”, una qualità universale. Dunque, non si danno due qualità universali identiche giacché sarebbero una sola e non due: non esistono due idee di “quadrato” ma esistono, semmai, due quadrati e un’idea di “quadrato”. Se do due definizioni di “quadrato” esse risulteranno identiche e, in ultima analisi, indistinguibili se non in base al tempo.
Specifica b: in questo modo viene risolto il problema parmenideo dell’essere e del non-essere. Per Parmenide le idee sarebbero state contraddittorie in se stesse in quanto la loro essenza era la non-essenza di qualcos’altro. Per Platone, le idee non comprendono tutto, ma solo i particolari che le competono: l’idea di quadrato non è l’idea del triangolo o del parallelogramma. Dunque, il “divieto di parmenide” sarebbe stato infranto: le idee sono e non sono qualcosa. Platone risponde che il “non-essere” parziale, il diverso, non è “non-essere” assoluto. Il dire “io sono diverso da te” non è dire “io non sono” in senso assoluto: “io sono questo e quest’altro”. Dunque il “non-essere” come “diversità” implica una duplice natura delle idee: da un lato l’affermazione d’essenza, l’“idea del quadrato” è la proprietà del quadrato di avere quattro angoli e lati uguali, ciò positivamente. Da un altro lato, v’è anche un’affermazione negativa, una privazione di essenza: “il quadrato non è un poligono di tre lati e tre angoli”.
Specifica c: la gerarchia delle idee sarà così improntata da una sempre maggiore attribuzione di qualità alle singole idee. Dall’idea meno universale all’idea più universale, cioè quell’idea comune a tutte le singole idee e che meno è “privazione di qualità”. L’idea di bene è la più universale in quanto è comune a tutte le idee e non è negata da nessuna: l’idea di male non è nelle idee in quanto è pura privazione.
Inferenza. Se la causa efficiente è un evento materiale che determina un altro evento materiale[6], se l’idea non è un oggetto materiale allora l’idea non è una causa efficiente.
Tesi PIX: dunque, l’idea non è una causa efficiente.
Specifica a: o la causa efficiente è materiale o è immateriale. Se è immateriale allora non può spiegare il movimento dei corpi, mentre lo fa solo se è materiale: quindi, la causa efficiente è materiale.
Inferenza. Se l’idea non è una causa efficiente, se l’idea non è causa efficiente di un’altra idea allora le idee non saranno soggette al moto.
Tesi PX: dunque, le idee non saranno soggette al moto.
Corollario A: dunque, le idee saranno in quiete perpetua.
Inferenza. Se le idee saranno in quiete perpetua allora le idee non saranno generate da nulla.
Tesi PX: dunque, le idee non saranno generate da nulla.
Specifica a: se le idee sono generate da qualcosa, allora quel qualcosa sarebbe una causa efficiente. Ma le idee non sono cause efficienti di altre idee e i corpi non possono esserlo in quanto gli uni non influiscono sulle altre, dunque, le idee non sono generate da nulla.
Inferenza. Se le idee non sono generate da nulla, allora sono eterne.
Tesi PXI: dunque, le idee sono eterne.
Specifica a: nel senso che sono “fuori dal tempo”. Esse infatti, non venendo ad essere in un qualche istante, ma essendoci da sempre, non si dicono di un certo tempo.
Specifica b: non esiste un Creatore delle idee giacché egli avrebbe dovuto creare quelle dal nulla. Ma nulla genera nulla ed è impensabile che le idee siano prive di contenuto[7]. Il fatto che esse siano state pensate implicherebbe comunque la loro esistenza: dunque, le idee non sono create da nessuno.
Specifica c: il celebre demiurgo non “crea” ma “plasma” e l’azione “plasmatrice” è pensata a partire dalla visione che il demiurgo ha delle idee: il “Dio” di Platone è un essere che “da forma” ma non “crea”. La “non creazione” vale sia per le idee che per la materia, il Demiurgo si limita a plasmare ciò che c’è già ad immagine e somiglianza delle idee eterne.
Inferenza. Se le idee e gli oggetti sono tutto ciò che esiste, se gli oggetti partecipano alla natura delle idee allora idee e oggetti avranno qualcosa in comune.
Tesi PXII. Dunque, le idee e gli oggetti avranno qualcosa in comune.
Inferenza. Se le idee e gli oggetti sono entità diverse, se la diversità è “essere qualcosa” e “non essere qualcos’altro” allora le idee e gli oggetti avranno qualcosa di diverso.
Tesi PXIII: dunque, le idee e gli oggetti avranno qualcosa di diverso.
Inferenza. Se le idee e gli oggetti avranno qualcosa di diverso, se gli oggetti e le idee sono identiche a se stesse e diverse dalle altre allora, oggetti e idee saranno identici a se stessi e diverse dalle altre.
Tesi PXIV: dunque, oggetti e idee saranno identici a se stessi e diversi dalle altre.
Inferenza. Se le idee sono immobili, se gli oggetti o sono immobili o sono in movimento allora le idee e gli oggetti o sono in moto o sono in quiete.
Tesi PXV: dunque, le idee e gli oggetti o sono in moto o sono in quiete.
Specifica a: le idee saranno in quiete e gli oggetti dipenderà dal caso specifico. In ogni caso, di tutto ciò che esiste, idea o corpo, si può dire che siano o in moto o in quiete.
Inferenza. Se le idee e gli oggetti sono qualcosa, allora le idee e gli oggetti “sono essere”.
Tesi PXVI: dunque, gli oggetti e le idee sono “essere”.
Specifica a: ciò significa che tutte le entità sono qualcosa al loro grado di esistenza, le idee come “essenza” e gli oggetti come “presenza”.
!!Specifica b: abbiamo così definito i “generi sommi” ovvero quei generi a cui partecipano tutte le entità, siano idee o oggetti. Di tutto ciò che esiste si può vedere la relazione che intrattiene con se stesso, ovvero l’identità. Ma ogni singola cosa è anche diversa dalle altre, siano idee o oggetti: così di tutte le cose si può predicare la “non esistenza” parziale, ovvero la diversità. D’altra parte, le entità, in generale, o sono nel tempo o sono fuori dal tempo: se sono fuori dal tempo, le idee, allora saranno eterne ed immutabili, dunque in quiete perpetua. Ma se sono nel tempo allora saranno soggette a mutamento e saranno o in quiete o in moto, dipenderà dal caso: questi saranno gli oggetti. Di tutto si può dire che è “qualcosa”, in altri termini, delle idee si può dire che “sono”, nel senso “essenziale”, formale; delle cose si può dire che “sono” nel senso di “starci”, “esser-nel mondo”. Dunque, di tutte le cose si può dire che “sono”.
Specifica c: possiamo a questo punto enumerare i generi sommi, quelle caratteristiche assolutamente universali proprie di tutte le entità.
Specifica d: i generi sommi sono le caratteristiche più universali:
- moto o quiete ( non entrambe assieme in quanto si può dare o solo l’una o l’altra ).
- Identico o diverso.
- Essere ( essenza o presenza ).
Specifica e: come risulterà adesso chiaro, la differenza fondamentale tra idea e oggetto risiede nel diverso tipo di esistenza, nel diverso tipo di “essere”. L’uso del verbo, diverso per oggetto e per idea, rappresenta la differenza reale che c’è tra le due entità. In questo senso, possiamo dire che per Platone, si può parlare di “realismo linguistico”, nel senso che il linguaggio scientifico è speculare alla realtà delle cose. Platone, infatti, usa metafore e miti là solo dove non può arrivare in altro modo. Aristotele farà di questa idea di “realismo linguistico” uno dei suoi paradigmi fondamentali.
Inferenza. Se gli oggetti possono causare in noi delle percezioni, se le idee non sono degli oggetti, se le idee non possono causare in noi delle percezioni allora noi non conosciamo le idee attraverso l’esperienza sensibile.
Tesi PXVII: dunque, non conosciamo le idee attraverso l’esperienza.
Specifica a: ciò è già stato fatto osservare, ma da adesso in poi procederemo nella deduzione dei principi della conoscenza.
Inferenza. Se non conosciamo le idee attraverso l’esperienza, se le idee non sono delle entità mentali, se il corpo del soggetto è un corpo allora il soggetto non consocerà le idee a partire dalla propria corporeità.
Tesi PXVIII: dunque, il soggetto non conoscerà le idee a partire dalla propria corporeità.
Inferenza. Se noi abbiamo delle percezioni, se le percezioni sono poste dalla relazione causale che c’è tra il soggetto e l’oggetto, allora le percezioni daranno una qualche informazione sull’oggetto.
Tesi PXIX: dunque, le percezioni daranno una qualche informazione sull’oggetto.
Specifica a: le percezioni porranno una conoscenza dell’oggetto. La conoscenza o è adeguata o è inadeguata. Se la conoscenza si dice adeguata quando raggiunge la conoscenza universale ( per Platone ), ma la conoscenza del particolare non è una conoscenza universale, dunque, la conoscenza adeguata non arriva dalla percezione. Ma se la percezione pone una certa conoscenza, se la percezione non pone una conoscenza adeguata e la conoscenza o è adeguata o è inadeguata allora la percezione determina esclusivamente una conoscenza inadeguata.
Specifica b: se la conoscenza inadeguata giunge dai sensi, se il linguaggio può esprimere la nostra conoscenza allora potremmo esprimerci intorno alla nostra conoscenza inadeguata usando espressioni di credenza: noi, quando vediamo, crediamo di vedere qualcosa, di sentirla o toccarla, ma, in realtà, non la conosciamo. Per questa ragione, il primo grado di conoscenza inadeguata è quella del singolo particolare, la seconda è quella dell’immaginazione, cioè quella di associazione di più immagini particolari.
Inferenza. Se la conoscenza o è adeguata o è inadeguata, se la percezione pone solo informazioni inadeguate, se la percezione o è immediata oppure immaginata allora esisteranno due gradi della conoscenza inadeguata.
Tesi PXX: dunque, esisteranno due gradi della conoscenza inadeguata.
Inferenza. Se il soggetto è un corpo, se il corpo del soggetto è un oggetto, se il soggetto percepisce per relazione causale esterna tra un oggetto e se stesso, se il soggetto può percepire per relazione causale interna ( unire più percezioni di momenti diversi ) allora il soggetto o esperisce direttamente dati di senso oppure li unisce.
Tesi PXXI: dunque, il soggetto o esperisce direttamente dati di senso oppure li unisce o li modifica.
Specifica a: la prima è percezione esperienziale, la seconda immaginazione.
Inferenza. Se il soggetto conosce esclusivamente attraverso i sensi, se i sensi pongono di continuo nuove informazioni parziali, se la conoscenza sensibile è inadeguata allora il soggetto esprimerà opinioni.
Tesi PXXII: dunque, il soggetto esprimerà esclusivamente opinioni.
Specifica a: l’opinione è caratterizzata dalla soggettività e dalla incertezza. Le percezioni sensibili non sono buone fonti di conoscenza e sono relative al soggetto, così le proposizioni espresse a partire dalla sola esperienza sensibile, non può che essere parziale e soggettiva.
Specifica b: caratteristica fondamentale delle opinioni è la loro forma logica: esse esprimono possibilità e nulla di più “io credo che domani pioverà” è un’asserzione logicamente equivalente a “è possibile che domani pioverà”. L’aggiunta soggettiva “io credo” pone semplicemente una relazione tra il contenuto logico e il soggetto che lo esprime, in questo senso, la proposizione esprime quella possibilità creduta più probabile da un soggetto. In questo modo, devono essere interpretate tutte le forme di credenza: “io sono convinto che domani pioverà”, “io dubito che domani pioverà”, “io penso che domani pioverà” sono tutte espressioni di credenza. Quando uno “sa” dice una proposizione fattuale non relativa ad alcun soggetto: “Socrate è un uomo”.
Specifica c: Platone ha una visione forte della verità ed essa è caratterizzata dall’universalità e necessità. Dunque, l’opinione è alla verità del tutto contraria: è mutevole e incostante e del tutto inattendibile.
Inferenza. Se l’opinione è un’espressione soggettiva, se l’opinione è pone una qualche informazione allora l’opinione è l’espressione linguistica di una conoscenza inadeguata.
Tesi PXXIII: dunque, l’opinione è l’espressione linguistica di una conoscenza inadeguata.
Inferenza. Se la conoscenza è conoscenza dell’universale, se l’idea è universale allora la conoscenza dell’idea è conoscenza dell’universale.
Tesi PXXIV: dunque, la conoscenza dell’idea è conoscenza dell’universale.
Inferenza. Se la conoscenza dell’idea è conoscenza dell’universale, se la conoscenza empirica è conoscenza del particolare, se le percezioni sono esperienze, se le esperienze sono informazioni acquisite dall’esterno[8], allora le idee sono conosciute indipendentemente dall’esperienza.
Tesi PXXV: dunque, le idee sono conosciute indipendentemente dall’esperienza.
Inferenza. Se le idee sono conosciute indipendentemente dall’esperienza allora il soggetto le conosce in sé stesso.
Tesi PXXVI: dunque, il soggetto conosce le idee in se stesso.
Specifica a: la conoscenza in se stesso o è dipendente dalla memoria oppure dalla propria natura corporea. Questo è un ostacolo: se il soggetto fosse puramente materiale, non ci sarebbe alcun modo di giungere alla conoscenza delle idee. Per tale ragione Platone sostiene l’esistenza di un’anima che partecipa della natura delle idee: l’anima dovrà essere immateriale.
!!Specifica b: l’anima o conoscerà le idee per via diretta o per via indiretta: la conoscenza per via diretta è quella che passa attraverso la memoria, mentre la conoscenza indiretta è la conoscenza deduttiva che passa attraverso la ragione e la dialettica. La dialettica platonica dispiega la conoscenza per divisione: poniamo che noi vogliamo raggiungere la conoscenza di una particolare entità, per esempio, “un gatto”, qualora noi non ne abbiamo conoscenza diretta. Dobbiamo procedere così: “un gatto o è un animale o è un essere inanimato. Il gatto è un animale. Un animale o vive nell’acqua o vive nella terra. Il gatto è un animale terrestre. Il gatto è un animale terrestre o è un insetto o è un mammifero. Il gatto è un animale terrestre mammifero. Il gatto è un animale terrestre mammifero erbivoro o carnivoro. Il gatto è un animale terrestre mammifero carnivoro. Il gatto è un animale terrestre mammifero carnivoro, bipede o quadrupede. Il gatto è un animale terrestre mammifero carnivoro quadrupede. Il gatto è un animale terrestre mammifero carnivoro quadrupede, canide o felino. Il gatto è un animale terrestre mammifero carnivoro quadrupede felino”. Come si vede, la dialettica scioglie le diverse categorie ideali fino a giungere alla “classe” gatto, senza arrivare al singolo essere. In questo senso, la conoscenza dell’universale, delle idee, per via deduttiva, non raggiunge mai la conoscenza della singola entità e questo sarà oggetto di feroce critica da parte di Aristotele.
!!Specifica c: la conoscenza diretta delle idee è detta “reminiscenza” in quanto l’anima “ricorda” ciò che aveva visto prima che fosse incarnata.
Specifica d: l’anima sta al corpo, come il timoniere della nave sta alla nave: essa guida il corpo nel mondo.
Ipotesi P6: l’anima è l’essenza incarnata che partecipa della natura delle idee.
Specifica a: “essenza incarnata” non significa “essenza corporea” nel senso che l’anima è sia essenza sia corporea. Ciò sarebbe una contraddizione in quanto l’anima sarebbe corporea e incorporea allo stesso tempo. Ciò che Platone sostiene è che nell’entità “uomo” esistono contemporaneamente due diverse “entità”, da un lato l’anima, da un altro lato il corpo. L’uomo, come entità, non esisterebbe senza corpo, ma non sarebbe un soggetto se non fosse anche anima.
Specifica b: che l’uomo sia sia anima che corpo è implicato dalla stessa teoria della conoscenza delle idee. Se l’uomo non fosse anima, ma solo corpo, egli sarebbe del tutto incapace di giungere alla conoscenza delle idee. Ma ciò è smentito dai fatti: l’uomo può arrivare alla conoscenza dell’universale senza passare dal particolare.
Specifica c: se l’uomo non fosse anche anima, ma solo corpo, sarebbe qualitativamente inscindibile dagli altri esseri animali e sarebbe in tutto dominato dai suoi bisogni e dall’opinione. Ma ciò è smentito da molti fatti e, per tanto, si deve concludere che l’anima esiste nel corpo, indipendentemente da esso.
Inferenza. Se l’anima è l’essenza incarnata che partecipa della natura delle idee, se il corpo non è un’idea allora se il corpo muore, l’anima non muore.
Tesi PXXVII: dunque, il corpo muore, l’anima non muore.
Specifica a: ciò risulta evidente dal fatto che (1) le idee non nascono e non deperiscono. Se l’anima partecipa della natura delle idee, nel senso che essa è parte di quel mondo, allora l’anima non nasce né deperisce.
Specifica b: (2) le idee non sono entità corporee, per tale ragione, ciò che causa la scomparsa del corpo non può essere causa della distruzione dell’idea. Come abbiamo detto, il mondo degli oggetti è caratterizzato dalla sua continua evoluzione determinato dall’incessante presenza di cause. Viceversa, nel mondo delle idee, non v’è generazione né corruzione. Le idee sono e basta.
Specifica c: dunque, alla morte del corpo, l’anima semplicemente torna a contemplare le idee senza essere influenzata dalla conoscenza parziale e soggettiva posta dalla natura del corpo.
Inferenza. Se l’opinione è l’espressione di una conoscenza inadeguata, se l’anima può giungere alla conoscenza adeguata, se la conoscenza adeguata è la conoscenza delle idee, se le idee sono essenze universali allora l’espressione linguistica sulle idee sarà a sua volta universale.
Tesi PXXVIII: dunque, l’espressione linguistica sulle idee sarà a sua volta universale.
Specifica a: tra linguaggio e conoscenza esiste una relazione di “conservazione dell’informazione” cioè: se la conoscenza è adeguata allora il linguaggio esprimerà in maniera ad essa aderente, mentre se la conoscenza è inadeguata allora il linguaggio mostrerà le sue manchevolezze. In questo senso, il linguaggio è perfettamente aderente alla fonte della sua informazione e il suo compito è mostrare ciò che noi conosciamo. Esso funziona come uno “specchio”.
Specifica b: Con “linguaggio” non si deve intendere “lingua scritta” ma in generale “capacità di comunicazione di una conoscenza”.
Spiegazione α: Platone aveva una visione positiva del linguaggio orale mentre negativa per il linguaggio scritto. Ciò era dovuto a una ragione storica e ad una ragione pratica: (1) la cultura greca era ancora sostanzialmente orale. In realtà, gran parte della cultura occidentale, fino, probabilmente ai giorni nostri, è fondamentalmente orale. Senza dubbio, almeno fino all’invenzione della stampa, è più orale che scritta. La maggior parte delle persone conosce attraverso il linguaggio parlato che quello scritto. In Italia, ancor oggi, la lingua italiana è più una lingua usata in veste formale più che informale. Nell’antica Grecia è molto basso il livello medio di alfabetizzazione: ciò è dedotto da ragioni storiche. E non è un caso che la cultura divenga sinonimo di emancipazione sociale. (2) Il fatto che la scrittura cambi la parola da “rivedibile” a “fatto compiuto” implica che colui che scrive è spesso travisato da colui che legge. In questo senso, la parola è chiarificabile se è espressa oralmente: essa può essere travisata ma anche chiarita, cosa in tutto impossibile per chi scrive. Ciò è mostrato dalla frustrante e sterminata letteratura di “interpretazione” degli scritti altrui: la filologia nel rinascimento è nata proprio per sopperire alla “soggettività” dell’interpretazione dei testi, soggettività che diventava, assai spesso, autorità inflessibile e costituita. Di ciò, si era già avveduto Eraclito, pensatore caro a Platone. Platone stesso si lamenta dei limiti della scrittura e non è un caso che le sue espressioni letterarie siano proprio i celebri “Dialoghi”. Sia per ragioni storiche ( l’abitudine all’oralità della cultura, la presa di coscienza diurna del problema della scrittura da parte di Eraclito ), sia per ragioni pratiche ( problemi di interpretazione e travisamento dell’opera altrui, incapacità linguistica dello scrittore di essere chiaro fino in fondo sul suo stesso pensiero ) Platone non ama il linguaggio scritto.
Curiosamente, con Aristotele arriverà a maturazione il processo di “valorizzazione” della scrittura. Egli, lettore accanito, sarà il primo filosofo a concepire una visione logica e scientifica del linguaggio ed egli sarà il primo “filosofo del linguaggio” propriamente detto della storia occidentale.
Inferenza. Se l’espressione linguistica sulle idee sarà a sua volta universale, se l’espressione linguistica delle idee esprimerà una conoscenza adeguata, allora l’espressione linguistica delle idee sarà vera.
Tesi PXXIX: dunque, l’espressione linguistica delle idee sarà vera.
Specifica a: se l’espressione linguistica delle idee fosse falsa, allora non ci sarebbe modo di mostrare la propria conoscenza: il linguaggio sarebbe sempre inadeguato. Ma il sapiente si distingue dagli altri uomini sia per il comportamento virtuoso che per la propria parola, dunque, il linguaggio può esprimere delle proposizioni vere.
Specifica b: “verità” e “falsità” sono due categorie relative non agli oggetti fisici, né alle idee. Non esiste un “oggetto vero” né “un oggetto falso”, allo stesso modo, le idee. Per tale ragione, “verità” e “falsità” sono categorie del linguaggio.
Inferenza. Se un uomo può avere una conoscenza delle idee, se un uomo può avere conoscenza sensibile, se la conoscenza delle idee è diversa dalla conoscenza delle percezioni allora un uomo razionale[9] si comporterà in maniera diversa da un uomo irrazionale.
Tesi PXXX: dunque, un uomo razionale si comporterà in maniera diversa da un uomo irrazionale.
Specifica a: un uomo razionale non è colui la cui anima esclude le percezioni o gli istinti. Non esiste un’anima fatta a tal modo, nemmeno quella del filosofo. L’anima è sempre costituita da tre parti, esse sono ineliminabili. Ciò che distingue un uomo dall’altro è la capacità di seguire una parte piuttosto che un’altra della propria anima. Se tutti gli uomini seguissero la parte razionale allora non ci sarebbe alcun problema e tutti saremmo felici. Ma così non è, non perché la maggior parte degli uomini non possieda una parte razionale, ma perché nelle decisioni si lascia guidare dalla conoscenza inadeguata o dai bisogni. Dunque, la differenza tra un uomo razionale e uno irrazionale non sta nella “costituzione” dell’anima. Se così fosse, l’anima non sarebbe definibile in modo universale e, dunque, non sarebbe più un’idea.
Specifica b: dunque, un uomo è razionale se e solo se nelle azioni segue la ragione e non le altre facoltà dell’anima.
Specifica c: un uomo è detto “irrazionale” se egli lascia che la sua anima sia condotta non dalla ragione ma dalle altre facoltà. Un oggetto non dotato di un’anima non è “irrazionale” nel senso che è “non-razionale”, dunque, si può dire che un’entità è “irrazionale” se e solo se è dotata di un’anima che non asseconda la propria ragione.
Inferenza. Se l’uomo razionale si comporterà in maniera diversa da un uomo irrazionale, se un uomo razionale conosce le idee, se le idee sono la fonte di una conoscenza adeguata allora l’uomo razionale si comporterà in modo aderente alla conoscenza delle idee.
Tesi PXXXI: dunque, l’uomo razionale si comporterà in modo aderente alla conoscenza delle idee.
Specifica a: l’uomo razionale o si comporterà in modo aderente alle idee oppure no. Se no allora non ci sarebbe alcuna differenza tra un uomo razionale e uno irrazionale. Se così fosse, non potremmo distinguere i vari uomini in base alla loro conoscenza. Ma ciò è assurdo in quanto noi distinguiamo l’uomo razionale da uno irrazionale, dunque, l’uomo razionale si distinguerà dall’uomo irrazionale in quanto sarà aderente alla propria conoscenza adeguata.
Inferenza. Se l’uomo razionale si comporterà in modo aderente alla conoscenza delle idee, se le idee sono la fonte della conoscenza adeguata, se in una situazione un uomo o segue la ragione oppure no allora l’uomo razionale si determinerà sempre per il meglio.
Tesi PXXXII: dunque, l’uomo razionale si determinerà sempre per il meglio.
Specifica a: la scelta migliore è il bene.
Corollario A: dunque, l’uomo razionale determinerà sempre il bene.
Corollario B: dunque, il bene è determinato dalla conoscenza adeguata, ovvero dalla conoscenza delle idee.
Specifica b: la conoscenza delle idee da parte del saggio è la causa adeguata del comportamento virtuoso, sebbene è discutibile che si possa parlare di “causa” da parte delle idee di un qualsivoglia comportamento. In effetti, tale difficoltà è inerente al discorso di Platone il quale è convincente seppure, in questo, non possa essere coerente: accettando il salto logico tra le idee e i corpi, non si vede come l’anima dell’uomo possa determinare anche il corpo dell’uomo. In ogni caso, è chiaro che colui che segue la ragione, dunque, le idee, determinerà sempre la scelta migliore di tutte: il bene. Questa forma forte di “determinazione dell’azione” a partire da “conoscenza adeguata” è chiamata “intellettualismo” e sarà una visione “etica” destinata ad avere un grande seguito. Aristotele e quasi tutto il pensiero empirista combatterà questa visione etica, in virtù della sua difficoltà applicativa: “Vedo meglio e faccio il peggio” sembra una contraddizione evidente con il pensiero di Platone per il quale vale al proposizione “Conosco il meglio, quindi faccio il meglio” dove “faccio il meglio” è conseguenza del “Conosco il meglio”.
Inferenza. Se l’uomo razionale si determinerà sempre per il meglio, se l’uomo irrazionale non seguirà la conoscenza delle idee, se l’uomo irrazionale o seguirà le percezioni o seguirà il proprio bisogno istintuale allora l’uomo irrazionale non farà il bene se non a caso.
Tesi PXXXIII: dunque, l’uomo irrazionale farà il bene solo se a caso.
Specifica a: il bene è il risultato di una conoscenza adeguata. Le possibilità di fare il bene sono poche, mentre di fare il male sono molte. Dunque, colui che procederà a caso, sarà statisticamente assai improbabile che faccia il bene e assolutamente impossibile che proceda nella strada giusta senza saperlo. Così l’uomo irrazionale farà il bene solo a caso e farà il male o sempre o per lo più.
Spiegazione α: dunque, da queste premesse e da queste tesi, si può procedere a tutte le altre inferenze, come la deduzione da tali principi dello stato secondo Platone. Ma noi ci limitiamo a questo punto perché ci pare che il resto possa essere facilmente dedotto dal lettore. In ogni caso, per ulteriori approfondimenti si possono vedere le schede degli “inserti speciali” o il riassunto discorsivo “filosofia” in cui si ripercorre in termini più classici e meno rigorosi il pensiero di Platone.
Filosofia
Platone e il suo tempo.
Platone si muove in un momento storico assai fecondo ed egli fu capace di assorbire la riflessione a lui precedente, tematizzare problemi insoluti e analizzare alcune risposte possibili.
La prima eredità che Platone assume è quella di Socrate, suo primo maestro. Egli ha chiaro il problema degli universali e sarà sempre a quelli che avrà in mente quando svilupperà la sua filosofia. La definizione delle proprietà essenziali delle cose, come derivare il reale, come dalla conoscenza della realtà affermare delle azioni giuste, in conformità con la conoscenza esatta del mondo: questa la fondamentale lezione socratica ereditata da Platone. Ma, a differenza di Socrate, Platone non si ferma alla ricerca della definizione delle cose in senso astratto, ma ricerca propriamente i principi ultimi a partire dai quali tutte le cose sono e da cui sono regolate: egli non si ferma al problema, ma avanza anche delle soluzioni.
Questo tema ci porta direttamente alla filosofia eleatica, in particolare a Parmenide e, non a caso, Platone scriverà un importante dialogo della maturità intitolato proprio “Parmenide”.
La conoscenza della poesia e dei miti influirà sul pensiero e sullo stile del filosofo e da cui trarrà una certa tendenza al misticismo, intendendo con questa parola, l’idea che esistono delle essenze disincarnate, a prescindere dalla realtà sensibile alle quali accediamo attraverso un distacco dalla realtà. D’altra parte, il misticismo platonico è particolare perché nel distacco necessario per contemplare le idee, non c’è una perdita della ragione: anzi, solo attraverso essa si giunge alla comprensione chiara del mondo. Questa forma di misticismo presente in Platone, è ripresa dai miti orfici.
In fine, sebbene il peso della recente storia della filosofia fosse in Platone, è importante notare da subito la sua originalità, profondità e fecondità, nonché universalità. In effetti, Platone fu un pensatore che spaziò in lungo e in largo, nel grande mare che è la conoscenza. Egli si interrogò su problemi politici, su problemi epistemologici, ontologici e su problemi etici. Ma anche sulla generazione del mondo e sull’arte. Tutto ciò che Platone disse ebbe una straordinaria fortuna e fu grazie al suo pensiero che Cartesio poté elaborare la sua grandiosa visione.
L’Etica della conoscenza.
“So di non sapere”, la frase di Socrate dalla quale prende avvio tutta la sua ricerca. Una frase che lascia aperte alcune questioni: se siamo certi di non sapere, quando è che possiamo, invece, dire di conoscere?, la conoscenza ha implicazioni etiche oppure no. Delle due l’una. Il problema è chiaramente il fondamento ultimo della conoscenza e, contemporaneamente, della vita pratica.
Con il termine “etica” si intendono cose assai diverse. In primo luogo si intende la “morale”, un insieme di regole scritte o non verbali alle quali bisogna aderire, in questo modo “morale” ed “etica” hanno il medesimo significato. Con “etica” si intende anche lo studio dei costumi sociali di una certa popolazione: l’etica degli Stati Uniti è riassunta nel “Self made man”, l’uomo che “si è fatto da solo”. Ma c’è anche un’ulteriore interpretazione possibile della parola “etica”: il comportamento dell’uomo in quanto uomo, ovvero lo studio dell’azione virtuosa. L’etica, in quest’ultimo significato, intende rispondere alla domanda: “come si deve agire?”
Il problema del significato della parola “etica” riassume le possibili prospettive di problemi, in realtà, assai diversi. Il problema “morale” è di due generi almeno: la morale è un complesso di regole, stabilite dalla prassi o dall’abitudine o dalla storia. Esempi di morali sono le religioni, tutte dotate di un corpus di regole irremovibili e indiscutibili. Un problema morale è la soluzione di possibili contraddizioni di all’interno di un contesto in cui una determinata morale sembra entrare in conflitto. Un altro problema morale è il tentativo di dare una giustificazione valida di certe regole, le regole della stessa impostazione morale.
Se l’etica coincide con la morale allora i problemi detti sopra sono problemi etici. Oggi se ne pongono in abbondanza. In realtà, questi problemi sono solo di facciata, superficiali, e non intaccano quasi mai questioni veramente profonde perché non sono i problemi ma le soluzioni ad andare sin dentro la profondità delle cose e degli uomini. Gran parte dei problemi di bioetica, tra i quali quello della clonazione, sono semplici facciate per nascondere altri tipi di inquietudini: l’animo umano è fatto in modo tale che si ribelli ad ogni cosa di cui ha paura, per ragioni valide o assurde. Ma quando le ragioni sono assurde, dunque non sono vere e proprie “ragioni” ecco che ancor più facilmente cade nel panico e dice e fa cose senza senso in nome della paura. Il tempo e la ragione impongono solo lentamente il loro ordine. Il presente è sempre impietoso.
Ad ogni modo, l’etica non necessariamente coincide con la morale, viene a coincidere con essa qualora sia fondata su delle regole o abitudini. Infatti, l’Etica si pone come obbiettivo quello di indicare le proprietà formali delle azioni virtuose. L’etica del dovere, per esempio, sosterrà che l’azione etica virtuosa è quella posta dal dovere: l’assolvimento del dovere coincide con l’azione giusta. Azione virtuosa e azione giusta. Ecco che ci ricongiungiamo a Socrate.
Socrate durante tutto l’arco della sua ricerca, aveva ricercato la conoscenza dei principi astratti, di virtù, come il coraggio, la giustizia etc.. Alla sua morte, rimaneva aperto il quesito: quale è l’azione giusta, da dove essa nasce e come fare a spiegarla. I dialoghi giovanili di Platone sono incentrati su questo tema ma non arrivano a dare conclusioni certe, tratteggiano il problema, lo delineano ma non lo risolvono.
Le strade per la fondazione dell’etica sono principalmente due[10]: o si fonda sulla conoscenza, o si fonda sull’abitudine. La fondazione dell’etica sull’abitudine implica una visione antropologica abbastanza diversa da chi fonda l’etica sulla conoscenza. In un caso, l’uomo agirà in virtù della ragione o della conoscenza, nell’altro caso, agirà a partire da desideri e dalla volontà. L’abitudine non implica necessariamente una perdita di intersoggettività: essa può essere un’abitudine comune, accettata dai più.
Platone procede per definizioni e domande. Egli nota che ciò che v’è di comune tra tutte le azioni virtuose è la virtù: la comunanza tra gli atti di coraggio è che tutti rimandano a quell’unico concetto che è, appunto, il coraggio. Le azioni virtuose sono, però, diverse in quanto esistono molti generi diversi di virtù: esiste il coraggio, la prudenza, la temperanza… In questo senso, l’evidenza successiva è: se tutte le azioni virtuose sono accomunate dall’idea di virtù particolare, ce ne deve essere una più generale che le racchiuda tutte. Questa è l’idea di sapienza. L’idea della sapienza è presente in tutte le virtù ed è alla base di tutte le azioni virtuose dell’uomo.
In altre parole, la conoscenza è la base delle azioni dell’uomo. Ciò non significa che tutte le azioni umane siano azioni virtuose. L’uomo agisce per tanti motivi, solo raramente in nome della ragione o di una chiara conoscenza. Per lo più, egli si lascia condurre dalla vita e dalle cose. In questo senso, il problema etico di Platone non è tanto la genesi, per così dire, naturale della decisione o dell’azione, quanto dare una risposta al problema di “come si deve agire”.
Non c’è azione che non sia ascrivibile in qualche forma di conoscenza. Il che non significa che tutte le conoscenze siano identiche. C’è la conoscenza per sensazioni, per immagini, per ragioni. L’atto virtuoso è quello che nasce da una visione adeguata delle cose in quanto solo una volta che ho preso atto delle varie possibilità posso determinarmi per quella migliore. L’idea di Platone è semplice: se so, allora agisco per il meglio e non posso non agire secondo virtù. Questo perché se comprendo la situazione in cui sono, riconosco immediatamente la possibilità migliore e mi determinerò per quello. Egli, potremmo dire, ha una visione “matematica” dell’etica giacché l’azione nasce, di fatto, da una conoscenza del reale in modo che la somma delle possibilità determini quale è la migliore. Non ce n’è più di una: solo una è l’azione virtuosa. In questo senso, se io conosco adeguatamente il mondo, non si vede per quale ragione non possa fare il bene.
Il bene è dunque il risultato dell’attività conoscitiva ed è ricercato in sé e per sé. Il bene è il fine ultimo dell’azione virtuosa e non abbisogna di ulteriori giustificazioni. Il bene, però, non è perseguibile se non attraverso una precisa conoscenza, in quanto non si persegue a caso o a partire dall’ignoranza. Tra tutte le possibilità di una data situazione, senza una adeguata analisi, c’è una possibilità infinitesima che io compia l’azione giusta e anche qualora abbia tanta fortuna, non saprei di averla avuta e non potrei sperare di avere la stessa sorte nell’azione successiva in quanto le probabilità di fare la cosa giusta a caso sono irrilevanti.
Per avere un’idea di questa visione etica prendiamo prima il caso del gioco degli scacchi e poi di quello del poker e mettiamo in pratica l’impostazione di Platone. Nel gioco degli scacchi, si possono calcolare praticamente infinite varianti, come è dimostrato dal computer. Quando giochiamo a scacchi, non ci appelliamo alla sorte per la vittoria o la sconfitta perché qualsiasi mossa sia stata giocata, è opera di una certa conoscenza, adeguata o meno. Se un giocatore calcolerà precisamente le mosse e se valuterà bene le posizioni di là da venire, riconoscerà qual’è meglio e qual’è peggio e definirà la sua situazione a partire da questo calcolo. In ultima analisi, un giocatore di scacchi si distingue dagli altri proprio per la capacità di attingere ad un bagaglio di conoscenza e poterlo potenzialmente ampliare in partita, nella situazione. Un giocatore di scacchi alle prime armi avrà difficoltà di calcolo e farà enormi errori di valutazione: egli non conosce abbastanza gli scacchi e tendenzialmente si lascerà guidare dal caso. Per tale ragione chi conosce, riconosce la possibilità migliore e, di conseguenza, si muoverà in tal senso. Viceversa, un giocatore scadente, tenderà a fare mosse a caso. Una mossa debole sarà giocata da una considerazione sbagliata, da una ignoranza: sarebbe assurdo immaginare che pur conoscendo il meglio, faccio il peggio a meno che, per qualche ragione di ordine psicologico, non mi dimentico immediatamente il ragionamento appena fatto. Così, le probabilità che un giocatore di scacchi alle prime armi giochi una partita senza errori è praticamente impensabile perché le probabilità di giocare bene senza ragione sono puramente irrisorie: è possibile in linea di principio, ma, di fatto, impossibile.
Per quanto riguarda una partita di Poker a cinque carte, possiamo sempre fare una analisi di questo genere. Platone, preferirebbe giocare a scacchi piuttosto che a poker, perché è messo nelle condizioni di determinare le proprie decisioni in maniera chiara e non fondata sull’ignoranza. Ma la sua impostazione si può immaginare anche in una partita a poker: un bravo giocatore di poker non gioca con l’istinto ma col calcolo delle probabilità. Una probabilità è una possibilità che, in linea di calcolo statistico, è più attendibile, prevedibile rispetto ad un’altra, ugualmente possibile. Dunque, se ho un tris, vedo che l’altro ha preso una carta, le cose sono: o ha poker, o full, o ha colore, o ha scala o doppia coppia o non ha nulla. In questo senso, il tris batte la doppia coppia o la carta più alta, ma perde con la scala o il colore, in altre parole, ha il 4/6, cioè i 2/3 di pura di possibilità di perdere. Io invece ho una possibilità su tre di vincere. Questo calcolo, come si vede, mostra chiaramente quali sono le possibilità, cioè dice esattamente le cose come stanno. Il fatto che io non possa sapere le carte dell’altro, non toglie che so posso approssimativamente stimare i pro e i contro di una azione scelta in nome dell’insicurezza. Infatti, Platone potrebbe perfettamente dire che la scelta di un giocatore di poker nasce ugualmente dalla conoscenza, in questo caso, la conoscenza della probabilità. Anche perché possiamo benissimo procedere oltre nella valutazione della situazione: il poker è una possibilità estremamente remota, così come il full. Dunque possiamo togliere due possibilità e arriviamo al 50%. A questo punto, posso tener conto che ci sono tredici carte dello stesso seme e averne cinque nello stesso momento di uguale è una possibilità remota: ho una possibilità su quattro ogni volta che pesco una carta di prendere una di stesso colore, dunque, esattamente 1/55 di avere quattro carte di stesso seme. Insomma, il nostro tris ha di fatto una buona possibilità di vincere. Naturalmente, ci sono altre regole di prudenza, per esempio, è sconsigliabile giocare un “all in” con un semplice tris. E così via.
In ultima analisi, abbiamo messo alla prova la visione etica di Platone e abbiamo visto come egli, in ultima analisi, faccia appello alla conoscenza come ragione necessaria e sufficiente dell’azione. I filosofi successivi criticheranno questa posizione o scalzando la ragione dalle possibilità di “movente” di un’azione, oppure dalle possibilità di essere decisiva nella decisione. Aristotele, per esempio, dirà che la ragione è una pura unità di calcolo, in questo senso, non è capace di determinarsi ma è solo determinabile. Lo stesso, per esempio, diranno Locke e Hume. Kant, sebbene in una prospettiva “morale”, dirà, invece, che solo la ragione potrà indirizzarci verso la determinazione del sommo bene: la legge morale è posta esclusivamente dalla ragione. C’è da segnalare questa particolarità del pensatore tedesco perché la legge morale è di natura formale e di carattere intersoggettivo. Platone, in realtà, avrebbe probabilmente detto che l’azione, sebbene portata da una ragione universale e universalmente condivisibile, non è, però, uguale per tutti: egli avrebbe notato come tutti agiscono giustamente al momento giusto: l’azione è solo nel concreto.
Definizione delle idee.
Tutte le azioni virtuose sono accomunate dalla virtù e ogni virtù è accomunata alle altre dalla sapienza. Alla domanda: cosa è la sapienza? Diremmo che è un’idea.
Un’idea è una proprietà universale di alcune cose. Platone interpreta tale “proprietà universale” in termini di entità reale, oggettiva, extramentale. In altre parole, un’idea è un’essenza al di fuori della mia mente, indipendente dal mio pensare, dalla psicologia. L’idea è un’essenza, il che significa che è ciò che noi indichiamo con alcuni atti di predicazione, di attribuzione: “Il tavolo è grande”. La “grandezza” è l’idea che accomuna tutti i corpi[11]. “La virtù è sapienza”, la parola “sapienza” indica un’idea. E così via.
Ciò che fa storcere il naso è che le proprietà degli oggetti non siano negli oggetti, ma fanno parte di un regno a parte, il regno delle idee, appunto. In questo senso, esistono due generi di entità del tutto diverse: da una parte di sono le idee, da un’altra ci sono i corpi. I corpi sono entità materiali extramentali e oggettivi. La differenza tra i corpi e le idee sta nel fatto che le idee non sono soggette a mutamento[12], a differenza dei corpi, le idee sono uniche in se stesse mentre esistono molti corpi che partecipano alla stessa idea, in fine, le idee non sono costituite da materia, mentre i corpi si. Il mondo delle idee, detto Iperuranio, è la totalità delle idee mentre la totalità del mondo corporeo è la totalità dei corpi. I due mondi sono contraddistinti da caratteri del tutto eterogenei. Le idee, infatti, sono tutto ciò che è associato all’essere come “essenza”, mentre i corpi sono tutto ciò che “è presente qui e adesso”, in altri termini, i due livelli di “essere”, delle idee e delle cose, sono del tutto diversi.
Le idee non sono in un “qui e adesso” non sono “nello spazio e nel tempo” esse sono e basta. In questo senso, vanno immaginate come “modelli” delle cose.
Le cose sono nello spazio e nel tempo e sono soggette ad un continuo mutamento. Platone era senza dubbio d’accordo con Eraclito, per un verso, con Parmenide per un altro. Egli considerava il mondo delle cose come un continuo divenire, contemporaneamente attribuiva al mondo delle idee quella stabilità e quella universalità che il mondo delle cose non può avere.
Il mondo delle idee è ordinato secondo un ordine gerarchico: il principio d’ordine è l’universalità dell’idea, ciò che è comune a più idee è al di sopra delle idee che accomuna. L’idea che ordina tutte le altre è il bene e, in questo senso, possiamo dire che tutta la conoscenza è automaticamente anche “conoscenza del bene”. Conoscere e fare il bene, come abbiamo visto, sono di fatto un’unica e stessa cosa.
Soluzione di Platone al problema dell’essere.
Il problema dell’essere è la definizione delle proprietà comuni a ciò che esiste, al di là delle determinazioni accidentali che ciascuna cosa ha. La filosofia precedente a Platone era arrivata ad una risposta, affermando che solo l’”essere essenziale” esiste, cioè l’essere come essenza e non come presenza[13]. Dire “il tavolo su cui scrivo è marrone” è assurdo in quanto adesso esiste, ma prima o poi cesserà di esistere, dunque, è assurdo pensare che una cosa possa esistere e non esistere. Posso solamente dire che “l’essere esiste ed è uno, eterno, immutabile” in quanto l’essere non cambia altrimenti non sarebbe, è uno altrimenti sarebbe più d’uno e se così fosse allora sarebbe una cosa e non un’altra, deve essere immutabile altrimenti ammetto che ora sia in un modo e ora in un altro.
Questo era il punto di vista di Parmenide. Platone però ha riconosciuto due livelli di esistenza, da un lato il regno delle idee, da un altro lato il regno delle cose. In questo duplice livello si pone la domanda: che cosa è l’essere? In quanto le cose sono mutevoli e non offrono la possibilità di definizione chiara e distinta e stabile, non si può dire che le cose siano. Il mondo delle cose non intelleggibile di per sé, esso è parzialmente comprensibile solo qualora io ponga mente al mondo delle idee: le idee, come abbiamo detto, sono dei modelli delle singole cose, delle proprietà comuni a più entità, dunque, mi rendono direttamente manifesto ciò che è anche nelle cose, ciò a cui le cose partecipano e a cui tendono. In questo modo, la comprensione ideale implica una certa comprensione del mondo anche se questo non è esaurito in quelle[14].
La domanda intorno all’essere deve avere una risposta, innanzi tutto, all’interno del mondo delle idee e solo in secondo momento si passa al mondo delle cose. Platone si domanda ciò che è comune a tutte le idee: egli osserva come tutte le idee siano identiche a se stesse e diverse dalle altre. Dunque, ogni idea è una, eterna e immutabile ma è anche diversa dalle altre. Il diverso è interpretabile come “non-essere”. Dunque Platone si sta contraddicendo, secondo Parmenide. Ma Platone osserva come l’”essere” non è solamente essere identico a sé stesso, ma è anche essere diverso da altro. L’essere-diverso è semplicemente l’attestazione che una cosa è distinta dalle altre, ossia non è un non-essere in contraddizione con l’essere se stesso. La frase “l’uomo non è irrazionale” non sto dicendo “l’uomo è razionale e non razionale”, ma sto dicendo “l’uomo è razionale e non è irrazionale”. Di conseguenza, dire “l’uomo è diverso dall’essere irrazionale” non sto negando per intero l’essere dell’uomo, ma solo una proprietà che non gli compete. Un cane è un cane e non è un gatto, in questo non c’è contraddizione perché non sto negando nulla che neghi l’essenza del cane. Se invece dicessi “il cane è non è un animale” allora starei negando una proprietà essenziale del cane: questo genere di non-essere è quel che implica contraddizione secondo Platone. La negazione, in ultima analisi, è interpretata non come negazione-di essere ma come privazione di qualcosa, semplicemente una mancanza di proprietà. Ma dal punto di vista dell’idea in sé stessa l’essere è completo, unico: il fatto che non gli competa una certa proprietà è indice del fatto che non è definito attraverso essa.
In questo senso, un’idea è uguale a se stessa e diversa dalle altre. Ciò non esclude che un’idea abbia in comune una terza idea con altre idee. Ma non tutto l’essere si esaurisce con i generi sommi “uguale” e “diverso”. I generi sommi sono le proprietà comuni a tutte le cose. Infatti, le cose del mondo, sebbene non sono idee, esistono. Esse sono caratterizzate dal fatto di essere o in moto o in quiete. Qualsiasi cosa estesa, infatti o è ferma o è in movimento. Dunque, “quiete” e “moto” sono altre due caratteristiche fondamentali dell’essere. “Identico”, “diverso”, “quiete” e “moto” sono i quattro generi sommi, comuni a tutto l’essente ( ciò che esiste o in quanto idea o in quanto corpo ). I quattro generi sono predicati alla fine dell’essere: dunque, l’essere è essere identico a se stesso, diverso da qualcos’altro, in quiete o in moto. Platone nota che tutto ciò che è predicabile del mondo, si esaurisce all’interno di queste quattro proprietà di cui tutte le altre fanno parte ( ad esempio, la grandezza è predicata dell’identità: l’identità è la coincidenza di un’essenza con la somma dei suoi predicati. L’uomo coincide con l’essere-razionale e l’essere animale ).
Il problema lasciato aperto da Parmenide è brillantemente risolto da Platone, al prezzo di perdere, in qualche modo, quell’estrema semplicità che era propria dell’essere di Parmenide. L’Essere di Platone non è una totalità, nel senso che si disperde all’interno di una molteplicità ideale. Di fatto, avviene una riunione di tutte le proprietà definite da Parmenide, ma le idee sono molte e, di fatto, più di una. La categoria del “diverso” come privazione di qualità ma non di essenza, lascia spazio alla pluralità, profondamente avversata da Parmenide e Zenone. Questa cristallinità della definizione dell’Essere in Platone, che, di fatto, racchiude tutto l’essente, ciò che esiste sia in quanto idea che in quanto corpo, è, però, una buona riunione di tutte le caratteristiche delle idee, ma è poco efficace, in pratica nella conoscenza dei corpi singoli.
Il prezzo da pagare per una conoscenza dell’universale, cioè di ciò che si predica di molti o di tutto a prescindere dalle singole cose, è appunto quella di riuscire difficilmente a spiegare il comportamento delle singole cose, fatto, questo, caratteristico della filosofia delle idee di Platone e prontamente notato da Aristotele.
La teoria della conoscenza.
La nostra esposizione del pensiero di Platone non è di tipo “storico”, cioè non segue una linea cronologica immaginaria dello sviluppo biografico della filosofia del Nostro. Infatti, abbiamo posto come primo problema l’etica platonica solo in quanto è una buona introduzione ai temi della dottrina delle idee e alla relativa visione della conoscenza. L’Etica, in tutti i pensatori razionalisti, non è che il vertice della piramide alla cui base stanno la conoscenza ed, eventualmente, l’ontologia o metafisica generale. In realtà, non si può mai capire l’Etica sin nel profondo se non si sono preliminarmente capite le interpretazioni della conoscenza o della mente umana: in queste due possibilità si esauriscono le “basi” dell’Etica e del comportamento umano. In un secondo momento abbiamo presentato la proposta del mondo ideale e, successivamente, dell’essere. Questa tematizzazione segue un’idea di unità di pensiero della visione platonica, probabilmente estranea in Platone. Ma ha una sua giustificazione nel fatto che solo comprendendo il filosofo nella sua coerenza si più capire pienamente, nella sua evoluzione.
Il mondo delle idee è stato istituito da Platone per almeno due buone ragioni: da un lato bisogna spiegare cosa siano le “proprietà delle cose”, da un altro bisogna dare ragione della stabilità della nostra conoscenza.
Le proprietà delle cose sono nelle cose o fuori delle cose. Se sono nelle cose allora ciò che esiste sono primariamente le cose stesse, se sono fuori delle cose allora sono delle entità eterogenee alle cose. Se le cose sono in continuo mutamento, è perché esse di continuo perdono delle proprietà, tendono a passare da una condizione ad un’altra, tal volta, senza soluzione di continuità. Le cose sono mutevoli, le proprietà non lo sono. La proprietà del quadrato di esser costituito da quattro lati e quattro angoli uguali non cambia nel tempo. Il fatto che il numero uno sia il primo dei numeri naturali non cambia nel tempo. Ma anche la proprietà del coltello di essere esteso non cambia: può cambiare la grandezza, non il fatto che sia esteso. Per tale ragione, possiamo concludere che il mondo della materia, il mondo delle cose sia in continuo mutamento. Da un lato abbiamo le cose, da un altro le proprietà. Platone vede in questa differenza essenziale una diversa costituzione ontologica del reale. Egli, cioè, separa l’essente in due categorie diverse, da un lato ciò che è pura essenza, cioè le proprietà, “l’essere proprio in se stesso”; dall’altra parte le cose, il mondo degli oggetti, “l’essere presente qui e ora”.
Quando conosciamo noi cerchiamo di arrivare all’universale, cioè ciò che c’è di comune in più cose. Per esempio, quando cerchiamo di capire cosa ci sia di comune in tutti i giochi di società, vediamo che ci sono delle proprietà essenziali che, se negate, negano i giochi di società: “insieme di regole che pongono un obbiettivo a più partecipanti”. Se nego “l’essere un insieme di regole” o “un obbiettivo” o “più partecipanti” nego la stessa essenza del gioco di società. La definizione di qualcosa non è un che di cangiante: arriva a definire la cosa una volta per tutte. In questo senso, posso negare l’idea, ma allora nego tutte le cose che ricadono dentro di essa, mentre se nego una singola cosa che ricade nell’idea, non nego l’idea stessa: se dico “la pallanuoto non è un gioco, è uno sport” non ho ancora negato l’esistenza dell’idea di “gioco”, ma solo che l’idea dello sport, di cui la pallanuoto fa indubbiamente parte, è diversa da quella di “gioco”. Dunque, la definizione, l’universale è eterno, uno, immutabile. Quando noi conosciamo, attingiamo a questa dimensione, la vera conoscenza non è mutevole.
Da un lato abbiamo le idee, da un altro lato abbiamo le cose. Le cose o consentono una conoscenza stabile oppure no. Ma le cose sono in continuo cambiamento, dunque non consentono una conoscenza stabile del mondo. Le idee o sono immutabili o sono mutevoli. Ma se le idee sono mutevoli allora negheremmo il fatto che esse sono eterne e indipendenti dall’accadere del mondo. Di conseguenza le idee consentono una dimensione stabile della conoscenza.
Per tale ragione Platone sostiene che le idee sono la base della nostra conoscenza adeguata: le cose le conosciamo solo parzialmente, mentre delle idee noi abbiamo una conoscenza chiara e distinta. Ma come arrivare a conoscere le idee? Le idee o sono in noi o sono fuori di noi. Se fossero in noi, non ci sarebbe problema in quanto non avremmo da andare tanto lontano per trovarle. Ma se fossero in noi, sarebbero anche materiali e soggette alla nostra psicologia singolare, il che male si accorda con la definizione delle idee, come realtà oggettive e extramentali. Dunque, le idee devono essere fuori di noi. E’ da osservare che questa condizione di “estraneità” è condizione necessaria affinché almeno le idee siano atemporali, cioè, fuori dal tempo. Solo in questa condizione si può dare una base stabile della nostra conoscenza.
A questo punto, però, rimane un problema aperto: come arrivare alle idee se noi non siamo che di carne e le idee sono fuori di noi? E’ chiaro che alle idee non ci arriviamo mediante gli organi di senso, giacché essi possono vedere e sentire solo ciò che la materia gli trasmette. E nella trasmissione di informazione dalla materia alla nostra sensibilità, non si perviene che ad una conoscenza parziale delle cose. In questo senso, non arriviamo alle idee mediante i sensi o mediante l’immaginazione, la nostra capacità di unire le percezioni ricevute dagli organi di senso. Platone deve mostrare un modo per arrivare alle idee e la posta in gioco è elevatissima: se non potesse indicare un modo per arrivare alla loro conoscenza, tutta la sua impostazione crollerebbe come un castello dalle fondamenta di argilla fresca. Infatti, ammettiamo che non ci sia un modo per conoscere le idee: in primo luogo devo ammettere che non ci sarebbe alcun modo di pervenire ad una conoscenza adeguata del mondo. Abbiamo già escluso ogni forma di conoscenza attraverso i sensi ed anche l’affermazione “non conosco nulla di stabile” sarebbe dubbia in quanto dubbio è il modo attraverso cui sono giunto ad asserirla. In altre parole, ne va proprio della nostra possibilità di esseri umani di conoscere qualsiasi cosa. Probabilmente, la stessa affermazione “so di non sapere” potrebbe venir meno: non potrei più esser sicuro neanche di quello. Ma non solo. Se non posso arrivare a conoscere le idee, non posso nemmeno asserire che esse siano delle “essenze” indipendenti dalla nostra psicologia e dalla realtà dei fatti. In altre parole, esse non avrebbero alcun senso né ragione e risulterebbero un’ipotesi di lavoro piuttosto campata per aria.
Platone affronta il problema in due modi diversi: egli sostiene che noi non siamo fatti di pura carne, in quanto abbiamo anche un’anima. L’anima è un’essenza immateriale che partecipa in un qualche grado alla natura delle idee. Platone tratteggia l’anima come immateriale, extramentale, come le idee. In questo senso, l’anima non si riduce al corpo ed è paragonabile al timoniere di una nave che è capace di muovere la nave sebbene non sia l’imbarcazione stessa. L’anima è sospinta verso le idee grazie alla bellezza che vede nelle cose attraverso cui può aspirare alle idee: la bellezza delle cose mi pone il problema di cosa sia il comune tra quelle cose e ciò è proprio l’idea della bellezza. Infatti, dalla bellezza dei corpi, siamo indirizzati verso qualcosa di più astratto, cioè la bellezza intrinseca alle leggi e alla scienza. Dopo di che si può arrivare alla certezza della bellezza delle idee stesse. La bellezza fa da tramite, ispirazione al mondo delle idee, essa produce una tensione verso la verità, non la verità stessa. L’anima, una volta superato l’ostacolo della materia, può aspirare ad avere un’immagine del mondo delle idee e ciò può farlo in virtù della sua parziale appartenenza a quel mondo.
La visione del mondo delle idee è descritta da Platone attraverso il celebre mito della caverna: uno schiavo in catene è posto di fronte ad una caverna e non può voltarsi verso la luce. Egli vede solo delle ombre che si muovono di fronte a sé. Le ombre sono poste da delle marionette illuminate da un fuoco dietro di esse e connesse alle ombre sentirà anche dei suoni. Lo schiavo si abitua talmente tanto alla vista e ai rumori delle ombre che non ci fa più caso, crede anch’egli di essere un ombra. Ma un giorno, lo schiavo viene liberato dalle catene ed è libero di girarsi: egli verrà abbagliato dalla luce vera del sole e contemplerà così il mondo e si renderà conto che egli non è un’ombra e che le cose che credeva solo ombre, non erano delle finzioni poste lì per ingannarlo. Lo schiavo è poi incatenato nuovamente nella caverna e non potrà più farsi una ragione del fatto che non vede più il mondo della realtà: egli riconoscerà in quelle ombre il lato ingannevole, falso e cercherà di convincere gli altri schiavi che non è quello il mondo vero e per tale ragione non sarà bene accetto dai suoi compagni di sventura.
In questo mito c’è tutta la visione di Platone, vediamo un po’ di analizzarlo meglio. La figura dello schiavo protagonista è quella stessa del filosofo che, come tutti, è posto inizialmente in una condizione di inganno perpetuo, dal quale occorre un atto di liberazione per riuscire a contemplare il mondo nel suo aspetto verace. Tale visione, però, non è del tutto indolore in quanto la luce del sole è molto più intensa della luce del fuoco e la visione delle cose è più nitida che quella delle ombre. In questo senso, la “conversione” dal mondo dell’ignoranza al mondo della conoscenza è totale ed investe tutta l’anima, per intero. Il cambiamento operato non è reversibile in quanto ciò che si conosce è irremovibile. Il ritorno dello schiavo all’interno della caverna è il simbolo del filosofo che insegna la propria conoscenza ai suoi concittadini: egli difficilmente verrà accettato, ed anzi, verrà piuttosto oltraggiato perché sono tutti troppo assuefatti a vedere il falso per comprendere il vero. Per questa ragione, il filosofo non ha vita facile ma non può che seguire quella strada che la conoscenza gli ha tracciato.
Questa prima versione della strada della conoscenza può apparire misticheggiante, in quanto c’è un certo livello di ascesi dal mondo fisico a quello ideale. Per questo suo accento, la dottrina platonica è stata oggetto di accomodamento da parte delle visioni religiose successive, in particolare da parte del cristianesimo, basti pensare ad Agostino. Ma, ed è un punto importante, la visione di Platone non è affatto né irrazionalista né misticheggiante in quanto il cammino della conoscenza va di pari passo al cammino della ragione: lo schiavo non annulla mai la propria interiorità, non si disperde nel mondo, non ottenebra la ragione. Anzi. Senza la ragione, senza la comprensione della bellezza, non si giunge alla conoscenza verace del mondo: la conoscenza della bellezza è segnata da vari gradini di astrazione, impossibili senza la ricerca della comprensione da parte della ragione. E’ la ragione, non il mistico, a trionfare in Platone.
La seconda grande proposta di Platone è la famosa teoria della reminiscenza. Questa teoria avrà un grande seguito e ancor oggi si discute sulla sua plausibilità. Uno schiavo, del tutto digiuno di geometria, aiutato da Socrate, riesce a dimostrare il teorema di Pitagora. Questa operazione come è possibile? O lo schiavo conosceva il teorema di Pitagora oppure non lo conosceva affatto. In realtà, sebbene lo schiavo non sapesse nulla di geometria, egli riesce ad arrivare alla dimostrazione del teorema in quanto egli aveva già la conoscenza dentro di sé. La reminiscenza consiste proprio nel fatto che l’anima può attingere da se stessa le informazioni necessarie alla conoscenza delle idee. In altre parole, l’anima non deve andare a cercare le informazioni nelle percezioni, nell’esperienza, ma dentro di sé. In questo modo, egli saprà (ri)costruire ragionamenti: Platone usa l’immagine della catena che, una volta afferrato un anello, viene giù tutta.
A questo punto, possiamo avere chiara la visione della conoscenza di Platone: egli ritiene che il primo e più infimo grado della conoscenza sia quella sensibile. Questa forma di conoscenza allontana dalle idee in quanto ci offuscherà con informazioni parziali ed inadeguate rispetto alla conoscenza delle idee. Nel mito della caverna, ciò corrisponde allo schiavo abituato a vedere le ombre e sentirne le voci. L’immaginazione, l’associazione di percezioni eterogenee, sarà il secondo grado di conoscenza anch’essa del tutto inadeguato in quanto è la somma di più conoscenze parziali. Dopo di questo ordine di informazioni insufficienti c’è la conoscenza della ragione discorsiva, cioè la conoscenza degli enti matematici e delle deduzioni da questi. Questa la prima forma di conoscenza adeguata in quanto essa attinge ad un certo grado del mondo delle idee. Ma non è la contemplazione diretta del mondo ideale spetta all’intelletto il quale conosce direttamente le idee, senza mediazione, come la ragione discorsiva.
Se la vera conoscenza non nasce dai sensi ma dalla conoscenza intellettuale delle idee, allora va da sé il motivo per cui Platone rifiuta l’arte come genere adeguato di conoscenza. Effettivamente, anche l’arte andrebbe riconosciuta come conoscenza, ma, in quanto essa attiene al livello di “ricomposizione della percezione”, di conoscenza del sensibile, non si eleva alla contemplazione dell’idea ma, al contrario, della bellezza delle cose materiali. L’arte, dunque, è copia della copia, in quanto essa non guarda alle idee, ma alle cose, che sono solo copie sbiadite delle idee corrispondenti. Il punto è che l’arte, non soltanto è una conoscenza inadeguata delle cose, ma è anche sovversiva nei confronti della conoscenza: essa svia, invece di aiutare.
L’anima platonica.
A questo punto, abbiamo visto in che modo il mondo sia costituito, in che modo sia conoscibile e la conseguente visione etica. Si pone però un’ulteriore questione a cui abbiamo accennato: l’anima. Il problema è semplice: o siamo costituiti solo ed esclusivamente di materia oppure no. Platone non può accettare l’idea che siamo solo di carne e ossa, egli deve porre in noi qualcosa che sia a metà strada tra il mondo fisico e le idee. Da un lato deve spiegare come noi agiamo, da un altro come noi possiamo conoscere. Le due cose non sono slegate: da come noi conosciamo, dipende come noi agiamo.
L’anima deve avere qualcosa in comune con le idee e qualcos’altro in comune col corpo. In realtà, Platone scinde l’anima dal corpo e sostiene che l’anima è stata a suo tempo a contatto diretto con le idee. L’anima si incarna dopo la morte del corpo e di volta in volta decide in quale corpo reincarnarsi: non è una condizione stabile quella dell’anima platonica, in un certo senso.
L’anima o è una pura idea oppure no. Se fosse una pura idea allora non si vede come noi possiamo agire in modo così spesso contrario alla ragione. Dunque, l’anima deve essere costituita anche da parti sensibili al mondo delle cose.
Ed infatti, Platone divide l’anima in tre parti: la parte istintuale, la parte emotiva e la parte razionale. La parte istintuale è quella sensibile ai bisogni del corpo dai quali l’anima non è del tutto avulsa. La parte emotiva è quella che sospinge l’anima ora verso una atto ora verso l’altro. Sta alla parte razionale quella di gestire in modo armonioso le due parti. Secondo Platone, non tutti di desideri sono da rigettare, da mortificare, sono da gestire in modo razionale.
Il sistema politico.
Il problema politico lo poniamo alla fine e si riallaccia al principio. Sia l’etica che la politica nascono da un solo problema: cosa è la giustizia? Da un lato la soluzione è posta a livello individuale, da un altro lato è posta a livello sociale.
Ci sono diverse corrispondenze tra etica e politica in Platone e ciò non potrebbe che esser così: Platone aveva una visione unitaria della conoscenza, il sommo ideale delle idee non è altro che la manifestazione di quella “conoscenza universale” tale che pone tutta la conoscenza in una volta. Tutto è collegato, tutto è deducibile dalla conoscenza.
La nascita della politica coincide con la nascita dell’uomo. L’uomo non è pensabile che in una società in quanto è incapace di vivere da solo. Posto questo, si pone immediatamente il problema di come si debba agire. A livello individuale, bisogna conoscere e agire aderentemente alla conoscenza.
O la politica si fonda anch’essa sulla conoscenza, oppure si fonda su qualcos’altro. Ma se ogni agire virtuoso è fondato sulla conoscenza, allora anche nella politica l’azione virtuosa sarà da ricercare nella conoscenza dell’universale. La giustizia è da trovare nelle idee e riportarla nel mondo. Per questo Platone cerca di trovare un’immagine adeguata della società ideale, un’unità politica fondata sulla conoscenza.
Ma se a livello individuale la conoscenza, una volta appianato il discorso teoretico, diventa solo una questione di ricerca personale, a livello sociale ci sono problemi ulteriori. Innanzi tutto, c’è il fatto che i più non sono dediti alla conoscenza, in secondo luogo che uno stato, sebbene debba essere governato in modo sapiente, non si può fondare unicamente sulla sapienza.
Il pragmatismo di Platone non è così insignificante come sembra. Già con l’anima, Platone aveva mostrato come la sua tripartizione la vincoli potentemente al resto delle cose. Allo stesso modo, uno stato specchia l’uomo: non basta pensare per vivere, ma deve anche essere sostentato e difeso. Per tale ragione, al microcosmo dell’uomo si rispecchia il macrocosmo della società. Così come l’uomo è tripartito, così è tripartita la società. In fondo, ciò è dedotto dal solo fatto che:
(1) l’uomo non è autosufficiente,
(2) l’uomo deve trovare in altro modo ciò che non trova in se stesso.
Dunque, la politica e la società devono rispondere a questo problema che, in ultima analisi, nasce dal fatto che l’uomo non può sopravvivere senza gli altri. In questo c’è una netta e profonda differenza tra Aristotele e Platone anche su questo punto: la società non nasce da un’autodeterminazione intrinseca all’uomo, ma solo estrinseca. Se l’uomo fosse autosufficiente, non ci sarebbe problema, potrebbe vivere anche da solo. Aristotele, invece, definisce l’uomo come “animale sociale” intendendo che è nella natura dell’uomo vivere insieme agli altri, il che suggerisce che un uomo solo o è impensabile in linea di principio, oppure è impensabile in linea storica. In ogni caso, il solo fatto di essere uomini, per Aristotele, implica un certo livello di socialità.
La società è formata da tre classi sociali: la prima è quella degli artigiani, in generale la classe produttiva. Questa fascia corrisponde alla parte istintiva dell’anima, cioè quella parte dedita al recupero delle risorse necessarie per la sopravvivenza.
La seconda classe è quella dei guerrieri, utili per la difesa ma non per l’attacco. Questa classe sociale corrisponde alla parte emotiva dell’anima.
In fine, v’è la classe dei governanti i quali coincidono con i filosofi. I filosofi, infatti, in quanto conoscono la verità, sono gli unici adatti a comandare e non essere comandati. Non ci può essere nessuno che abbia l’autorità per comandare i filosofi perché o l’ordine o nasce da conoscenza o nasce dall’ignoranza, ma se nasce dalla conoscenza allora non ci può essere nessuno che meglio dei filosofi possa arrivare a sapere ciò che v’è o non v’è da fare. Se nasce dall’ignoranza allora l’atto stesso di comando è infondato. In effetti, l’idea, per Platone, che ci possa essere un’ideologia dominante è fondamentalmente assurda in quanto l’ideologia è una forma di ignoranza e non di conoscenza.
Così come nell’Etica, Platone porta il suo intellettualismo anche nella politica: la società virtuosa non può che fondarsi sulla giusta armonia delle parti di cui è condizione necessaria e sufficiente l’essere gestite tutte dalla ragione e dalla conoscenza. Platone era, in ciò, un ottimista cosmico in quanto egli riteneva che con la sola forza della conoscenza, ogni bene non fosse inaccessibile, ma fosse solo questione di tempi e modi.
Un grande problema storico e filosofico nasce dalla stessa posizione platonica: se è vero che i filosofi devono governare, altri difendere e altri produrre, come selezionare queste parti? In effetti, il problema sta tutto qui. Se fosse possibile decidere, riconoscere il filosofo, l’uomo razionale dall’uomo irrazionale di per sé, in fondo, sarebbe tutto più semplice. Ma così non è. Intanto, Platone osserva che la soddisfazione personale, la felicità, nasce dalla possibilità di far ciò che ci si addice. Se sono bravo a giocare a biliardino, va da sé che sarò contento quando gioco ma se un’altra persona è brava a suonare, allora che suoni, così che sia felice. Da questa osservazione, Platone deriva l’idea che una società felice e stabile è quella in cui tutti fanno ciò che sanno fare meglio. Di nuovo: come fare a sapere ciò in cui uno è bravo e ciò in cui uno è incapace? Due problemi in uno: come riconoscere i filosofi, come riconoscere ciò in cui si è portati?
Platone sposta il problema: se il problema è determinare l’ambito delle proprie capacità, allora sarà bene istituire una scuola capace di selezionare ed educare i giovani in modo che ciascuno, alla fine, riesca a raggiungere ciò che meglio sa e, quindi, ciò che meglio sa fare. Una volta appurato le qualità dei bambini, essi riceveranno un’educazione peculiare in modo che l’inserimento nella società sia perfetto. Da questa organizzazione, si potranno stabilire i ruoli sociali e i mestieri.
Per quel che riguarda l’organizzazione, non ci interessa soffermarci sui particolari, eccetto che per la classe dominante. Per Platone, i filosofi devono occuparsi esclusivamente dell’organizzazione della società e della sua educazione. D’altra parte, però, devono essere del tutto avulsi dalle “tentazioni” della proprietà privata in quanto questo provocherebbe facilmente una deviazione dall’interesse pubblico. Per fare il bene pubblico, non bisogna avere interessi privati: condizione necessaria e sufficiente. In effetti, è condizione necessaria perché gli interessi dei propri vantaggi sono molto forti. D’altra parte, è condizione sufficiente? Se non si hanno interessi privati, non è così chiaro il motivo per cui agirò virtuosamente. Ma questo non è un ostacolo per Platone perché il filosofo, uomo di conoscenza, agirà in nome della conoscenza adeguata e, dunque, non sviato dai vantaggi personali, non avrà alcuna opposizione a fare il vero bene della società. Per tutte queste ragioni, la classe dirigente, i filosofi, dovranno vivere nel nome di un comunismo radicale in cui sia assente anche la famiglia: la famiglia, osserva Platone, è il primo dei luoghi di convergenza e formazione di interessi privati, del tutto alieni al bene sociale universale.
Per Platone, la politica riveste un ruolo più importante dell’individuo stesso, in quanto la società è più universale del singolo e, per ciò, più vicina al mondo delle idee di quanto non lo sia l’individuo particolare. D’altra parte, da una buona organizzazione sociale, non potrà che nascere la felicità e soddisfazione universali.
Riferimenti
« – Ebbene, Erissimaco, – disse Aristofane – ho proprio in animo di parlare diversamente da come sia tu che Pausania avete parlato. Mi sembra infatti che gli uomini non si rendano conto per nulla della potenza dell’amore, poiché, se l’avvertissero, certo costruirebbero per lui i più grandi templi, ed altari, e gli offrirebbero i sacrifici più grandi; non già come ora, in cui nulla di ciò accade per lui, mentre più di tutto dovrebbe accadere. È invero, tra gli dei, il più amico degli uomini, poiché degli uomini è protettore, e medico di quei mali, la cui guarigione sarebbe per il genere umano la più grande felicità. Io cercherò ora di spiegarvi qual è la sua potenza, e voi sarete maestri agli altri. Ma dapprima occorre che voi impariate che cos’è la primitiva natura umana, e le modificazioni da essa subite. Anticamente, infatti, la nostra natura non era la stessa di ora, ma differente. Anzitutto, invero, i generi dell’umanità erano tre, e non due – come adesso –, il maschio e la femmina; piuttosto, c’era inoltre un terzo genere, partecipe di entrambi i suddetti, di cui ora rimane il nome, ma esso, come tale, è scomparso. A quel tempo infatti l’androgino era un’unità, e partecipava, per aspetto e per nome, di entrambi, il maschio e la femmina, ma ora non è se non un nome, di intenzione oltraggiosa. In secondo luogo la forma di ogni uomo era, tutta quanta, arrotondata, con il dorso e i fianchi disposti in cerchio; ciascuno aveva quattro mani, e gambe in numero uguale alle mani, e, sopra un collo tornito circolarmente, due volti, in ogni punto simili; aveva poi un’unica testa per entrambi i volti, situati l’uno all’opposto dell’altro, e quattro orecchi, e due organi genitali, e tutte le altre parti, secondo ciò che si potrebbe raffigurare partendo da queste. Ed essi potevano anche camminare diritti, come ora, in quale delle due direzioni volessero; oppure, quando si avviavano velocemente in corsa – come volteggiano in cerchio gli acrobati, che fanno ruotare completamente le gambe – appoggiandosi sulle estremità, che allora erano otto, si muovevano rapidamente in cerchio. E i generi erano tre, e di tale natura, per la seguente ragione: il maschio era in origine progenie del sole, la femmina della terra, e il genere partecipe di entrambi era progenie della luna, poiché anche la luna partecipa del sole e della terra; essi stessi, dunque, erano sferici, e circolare il loro procedere, per la somiglianza con i loro genitori. Così, erano terribili per il vigore e la possanza, nutrivano propositi arroganti, e tentarono un attacco contro gli dei; e ciò che Omero dice di Efialte e di Oto – il tentativo di dare la scalata al cielo, per assalire gli dei – si adatta a quelli. Zeus e gli altri dei, orbene, si consultavano su ciò che dovessero fare, ed erano in difficoltà: non sapevano decidersi, invero, né ad ucciderli e, fulminandoli come i Giganti, fare scomparire la schiatta – sarebbero in tal caso scomparsi gli onori e i sacrifici che potevano giungere loro da parte degli uomini – né a lasciarli infuriare. Dopo faticose riflessioni, Zeus dichiara: “Ho un mezzo, credo, perché gli uomini possano esistere, eppure abbandonino la sfrenatezza, una volta divenuti più deboli. Ora infatti” disse “taglierò ciascuno di loro in due, ed essi da un lato saranno più deboli, e d’altro lato saranno al tempo stesso più utili a noi, per l’accrescersi del loro numero; e cammineranno eretti, su due gambe. Ma se ancora pretenderanno di infuriare, e non vorranno rimanere tranquilli, una seconda volta” disse “li taglierò in due, cosicché cammineranno su una gamba sola, saltellando”. Ciò detto, tagliò gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per metterle in conserva, o come quelli che tagliano le uova con un capello; e man mano che tagliava qualcuno, ordinava ad Apollo di rovesciare verso il lato del taglio il volto e la metà del collo, perché l’uomo, contemplando la propria sezione, fosse più moderato, e comandava di risanare tutto il resto. E quello rovesciava il volto, e raccogliendo e tirando da ogni parte la pelle su ciò che oggi è chiamato ventre – come le borse che si chiudono tirando a questo modo – manteneva una sola apertura e la stringeva fortemente nel mezzo del ventre, il che appunto viene chiamato ombelico. E spianava quasi tutte le numerose rugosità, e foggiava le varie parti del petto, con uno strumento simile a quello con cui i calzolai spianano sulla forma delle scarpe le rugosità del cuoio; ne lasciò tuttavia alcune, proprio quelle attorno al ventre e all’ombelico, perché fossero un vestigio dell’antico evento. Allora, una volta divisa in due la natura primitiva, ciascuna metà, bramando la metà perduta che era sua, la raggiungeva; e avvincendosi con le braccia e intrecciandosi l’una con l’altra, per il desiderio di fondersi assieme, perivano di fame e, anche per il resto, di inazione, perché non volevano fare nulla l’una separata dall’altra. E ogni volta che una delle metà moriva, mentre l’altra rimaneva in vita, la superstite cercava un’altra metà e si intrecciava con essa, sia che si imbattesse nella metà di una donna tutta intera – la metà appunto che ora chiamiamo donna – sia che si imbattesse in quella di un uomo. E così perivano. Ma Zeus, mosso da pietà, appresta un altro artificio, e sposta sul davanti i loro genitali – sino allora, infatti, avevano anche questi sul lato esterno, e generavano e partorivano, non già gli uni verso gli altri, ma sulla terra, come le cicale –, spostò dunque a questo modo i loro genitali sul davanti, e mediante questi stabilì la generazione tra di loro, attraverso il maschio nella femmina, con lo scopo che, nell’abbraccio, se un uomo si imbatteva in una donna, generassero e si producesse la stirpe, e al tempo stesso, se un maschio si imbatteva invece in un maschio, sorgesse almeno la sazietà di quella congiunzione, e facessero pausa, e si volgessero all’agire, e si curassero del resto della vita. Da un tempo così remoto, dunque, è connaturato negli uomini l’amore degli uni per gli altri; esso ricongiunge la natura antica, e si sforza di fare, di due, uno, e di guarire la natura umana. Ciascuno di noi è quindi un complemento di uomo, in quanto è stato tagliato – come avviene ai rombi – da uno in due: ciascuno, dunque, cerca sempre il proprio complemento. Tra gli uomini, orbene, tutti quelli che sono una parte tagliata dal genere congiunto, che allora si chiamava appunto androgino, si rivolgono con desiderio alle donne, e da questo genere derivano, per la massima parte, gli adulteri; del pari da questo genere discendono tutte le donne desiderose degli uomini e le adultere. Quanto poi alle donne formate dalla sezione di una donna, esse non prestano per nulla attenzione agli uomini, ma si rivolgono piuttosto verso le donne, e da questo genere nascono le tribadi. Tutti quelli, infine, formati dalla sezione di un maschio, inseguono i maschi, e sin tanto che sono fanciulli, essendo frammenti del maschio, amano gli uomini, e godono di giacere assieme agli uomini, avvinti strettamente ad essi; e tra i fanciulli e gli adolescenti, questi sono i più eccellenti, in quanto sono per natura i più coraggiosi. Certo, alcuni affermano che essi sono degli spudorati, ma dicono il falso: non è per spudoratezza, infatti, che si comportano così, bensì per ardimento, coraggio e virilità, attaccati a ciò che è simile a loro. E di questo c’è una prova importante: giunti alla maturità, infatti, soltanto gli uomini di tale natura si dimostrano adatti alla politica. Quando sono diventati uomini, inoltre, amano i fanciulli, e non si interessano del matrimonio e della procreazione dei figli, per loro natura, ma vi sono costretti dalla legge: a loro basta, piuttosto, passare la vita assieme, senza nozze. Un tale individuo, dunque, diventa in tutti i modi sia amante dei fanciulli, sia innamorato degli amanti, attaccandosi sempre a ciò che gli è affine. Orbene, quando l’amante dei fanciulli, o qualsiasi altro, si imbatta appunto in quella che è la propria metà, allora precisamente essi sono sopraffatti in modo mirabile dall’affetto, dall’intimità e dall’amore; e non vogliono, se così si può dire, separarsi l’uno dall’altro, neppure per breve tempo. E coloro che trascorrono assieme tutta la vita sono individui, che non saprebbero neppure dire cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. Nessuno invero potrà credere che si tratti del contatto dei piaceri amorosi, ossia che in vista di ciò l’uno si rallegri di stare vicino all’altro, con uno slancio così grande: è evidente, al contrario, che l’anima di entrambi vuole qualcos’altro, che non è capace di esprimere; di ciò che vuole, piuttosto, essa ha un presentimento, e parla per enigmi. E se, mentre giacciono accostati, Efesto comparisse dinanzi a loro, con i suoi strumenti, e domandasse: “Che cos’è, uomini, ciò che volete ottenere l’uno dall’altro?”, e se, di fronte al loro imbarazzo, di nuovo li interrogasse: “Forse è questo che desiderate, l’accostarvi quanto più è possibile l’uno all’altro, così da non rimanere staccati, né di notte né di giorno, l’uno dall’altro? se desiderate questo, voglio fondervi e saldarvi in qualcosa di unico, in modo che, da due che siete, diventiate uno, e finché rimarrete in vita, viviate entrambi in comunione, come un essere solo, e quando sarete morti, ancora laggiù, nella dimora di Ade, siate uno in luogo di due, in comunione anche da morti; guardate dunque, se tale è l’oggetto della vostra passione, e se vi appagate di raggiungere questo”: noi sappiamo che neppur uno di costoro, udendo ciò, rifiuterebbe, o manifesterebbe di volere qualcos’altro; ciascuno, piuttosto, riterrebbe senz’altro di aver udito proprio quello che da gran tempo agognava: diventare – congiungendosi e confondendosi con l’amato – da due uno. La causa di ciò, invero, è che la nostra natura antica era cosiffatta, e noi eravamo interi: alla brama e all’inseguimento dell’interezza, orbene, tocca il nome di amore. E in precedenza, come ho detto, eravamo un’unità, mentre adesso, per avere agito male, siamo stati dispersi dal dio, come gli Arcadi dai Lacedemoni. C’è dunque da temere, se non ci comportiamo bene verso gli dei, di essere spaccati ancora una volta, e di andare in giro come se fossimo le figure modellate di profilo, in bassorilievo, sulle stele, segati a metà lungo la linea del naso, trasformati in contrassegni, come i due frammenti di un dado spezzato. Proprio per questo bisogna esortare ogni uomo ad agire con riverenza riguardo agli dei, in tutti i punti, al fine, da un lato, di sfuggire a qualcosa, e, d’altro lato, di cogliere qualcosa, secondo che ci guida e ci comanda Eros. Nessuno agisca contro di lui – contro di lui, peraltro, agisce chiunque si renda odioso agli dei – poiché, se diventiamo amici del dio e ci riconciliamo con lui, scopriremo e incontreremo proprio i nostri fanciulli, il che accade a pochi degli uomini di oggi. Ed Erissimaco non mi faccia una ritorsione, irridendo il mio discorso, come io mi riferissi a Pausania e ad Agatone: anch’essi invero fanno forse parte dei suddetti, e sono forse entrambi – quanto alla natura primitiva – maschi. Ma in realtà io, riferendomi a tutti, sia uomini sia donne, dico che la nostra schiatta diverrebbe felice, nel caso in cui portassimo l’amore al suo compimento, e ciascuno incontrasse la giovane persona amata che è sua, ritornando alla natura antica. E se questo è l’ottimo, è necessario altresì che tra le cose oggi alla nostra portata sia ottima quella che più vi si approssima, e tale è l’incontro con una persona amata, la cui natura si accordi coi nostri desideri. Se vogliamo dunque celebrare un dio che sia la causa di ciò, sarà giusto celebrare Eros, il quale sia nel tempo presente ci procura i più grandi benefici, conducendoci verso ciò che ci appartiene, sia per il tempo avvenire offre le speranze più grandi, se noi offriremo riverenza verso gli dei, che – ricostituendoci nella nostra natura antica e risanandoci – ci renderà beati e felici ».
Platone, Simposio, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1979.
« Apollodoro
Su ciò che volete sapere, credo di non essere impreparato. L’altro ieri, infatti, da casa mia, al Falero, stavo salendo verso la città, quando un conoscente, ravvisandomi da dietro, da lontano mi chiamò e assieme rivolgendosi a me con atteggiamento scherzoso, disse:
– O Falereo, detto Apollodoro, non vuoi attendermi?
Ed io mi fermai per aspettarlo. Egli riprese:
– Sai, Apollodoro, che proprio ora stavo cercandoti? Voglio notizie dettagliate sull’incontro di Agatone, Socrate e Alcibiade, e degli altri che furono presenti in quell’occasione al banchetto: vorrei sapere quali furono i loro discorsi d’amore. Un tale mi ha raccontato la cosa, per averla udita da Fenice figlio di Filippo, e mi disse che anche tu eri informato. Ma non ha saputo dirmi nulla di preciso. Raccontami dunque tu: più di ogni altro, è giusto che sia tu a riferire i discorsi dell’amico. Ma prima dimmi – continuò – a quell’incontro tu stesso eri presente, oppure no?
Ed io gli risposi:
– Sembra davvero che non ti abbia raccontato nulla di preciso, chi ha raccontato, se tu credi che l’incontro di cui tu vuoi notizie sia stato recente, cosicché anch’io abbia potuto assistervi.
– Lo credevo, certo.
– Su quale base, – dissi – o Glaucone? Non sai che da molti anni Agatone non abita più qui e che non sono passati ancora tre anni, da quando vivo assieme a Socrate, e mi preoccupo ogni giorno di sapere ciò che egli dice o fa? Prima di allora, aggirandomi per caso e credendo di fare qualcosa, ero più sventurato di chicchessia, non diversamente da te adesso, che pensi di dover fare qualsiasi cosa piuttosto che vivere da filosofo.
E quegli a dire:
– Non prenderti gioco di me, e dimmi invece quando avvenne quell’incontro.
Ed io gli risposi:
– Eravamo ancora ragazzi, fu quando Agatone vinse con la sua prima tragedia, all’indomani del giorno in cui egli e i coreuti offrirono il sacrificio per la vittoria.
– Allora, – disse – a quanto pare è passato molto tempo davvero. Ma chi ti ha raccontato la cosa? Forse Socrate stesso?
– No, per Zeus, – risposi – ma proprio quello che l’ha raccontata a Fenice. Fu un certo Aristodemo, del demo Cidateneo, un piccolo uomo, sempre scalzo. Aveva assistito alla riunione, poiché, a quanto mi risulta, era tra i più innamorati di Socrate, a quel tempo. Nondimeno, ho poi interrogato Socrate stesso su taluni particolari che avevo uditi da costui, e me li confermò così come egli li aveva raccontati.
– Ebbene – disse quello – e a me non vuoi fare il racconto? La strada che conduce alla città è proprio adatta, per chi cammina, a parlare e ad ascoltare.
Così dunque, camminando, assieme parlammo di queste cose, e di conseguenza, come appunto dissi da principio, non mi trovo impreparato. Se poi occorre fare anche a voi questo racconto, ebbene, facciamolo. D’altronde per parte mia, quando tengo io stesso, o ascolto da altri, discorsi sulla filosofia, provo una mirabile gioia, senza considerare che credo di trarne giovamento. Di fronte ad altri discorsi invece, soprattutto i vostri, dei ricchi e degli uomini d’affari, io mi irrito, e vi compiango, miei compagni, perché credete di far qualcosa, mentre non fate nulla. Dal canto vostro, forse ritenete che io sia un povero diavolo, e credo che la vostra credenza sia vera; ma io, per quanto vi riguarda, non è che lo creda, bensì lo so con certezza.
Compagno
Sei sempre uguale, Apollodoro: sempre parli male di te e degli altri, e mi sembra che a tuo avviso, a cominciare da te stesso, tutti siano assolutamente miserabili, all’infuori di Socrate. Donde mai tu abbia preso quell’appellativo di “tenero”, con cui ti chiamano, non lo so davvero: nei tuoi discorsi, infatti, sei sempre a questo modo, aspro verso di te e gli altri, ad eccezione di Socrate.
Apollodoro
Mio caro, è dunque evidente che, se penso a questo modo di me stesso e di voi, io sia folle e fuori di senno?
Compagno
Non vale la pena adesso, Apollodoro, di disputare su tali argomenti: ciò di cui ti abbiamo pregato, piuttosto, non rifiutarlo, ma racconta quali erano i discorsi.
Apollodoro
Ebbene, furono pressappoco i seguenti, quei discorsi… Ma è meglio che, cominciando da principio, come aveva raccontato Aristodemo, così cerchi anch’io di raccontarli a voi.
Raccontava di aver incontrato Socrate, ben lavato e con i sandali ai piedi, il che gli avveniva di rado, e di avergli chiesto dove andasse, fattosi così bello.
Quello rispose:
– A cena da Agatone. Ieri invero, alla cerimonia per la sua vittoria, l’ho evitato, per timore della folla; ma accettai di intervenire oggi. È per questo che mi sono agghindato, per presentarmi bello a uno che è bello. Ma tu – continuò – che ne pensi di venire senza invito a questa cena?
Ed io, raccontava, dissi:
– Come tu vuoi.
– Seguimi dunque – riprese – e così indeboliremo il proverbio, modificandolo nella forma: anche ai banchetti degli uomini di valore vanno spontaneamente gli uomini di valore. In realtà, c’è caso che Omero abbia non solo indebolito, ma altresì offeso questo proverbio: dopo di aver presentato Agamennone come uomo eccezionalmente valoroso in guerra, e Menelao invece come “molle guerriero”, quando poi Agamennone celebra un sacrificio, e offre un festino, Omero fa andare senza invito al banchetto Menelao, chi ha meno valore al banchetto di chi ne ha di più.
All’udire ciò, secondo il racconto, aveva replicato:
– Ma forse si darà il caso che anch’io, non come dici tu, o Socrate, bensì come dice Omero, vada senza invito, essendo uomo dappoco, al banchetto di un uomo sapiente. Nel condurmi, cerca dunque una giustificazione, poiché per parte mia non ammetterò di essere venuto senza invito, e dirò invece di essere stato invitato da te.
– In due procedendo assieme lungo la strada – disse – decideremo che cosa dire. Andiamo dunque.
Dopo di aver conversato pressappoco a questo modo, raccontava, ci mettemmo in cammino. E Socrate, rivolgendo per così dire su se stesso la sua forza conoscitiva, camminava lungo la strada rimanendo indietro, e quando mi fermai ad attenderlo, mi ordinò di procedere avanti. Giunto alla casa di Agatone, trovai la porta aperta e mi accadde là, raccontava, di essere in una situazione divertente. Subito un domestico mi venne incontro, e mi condusse dove gli altri stavano sdraiati: li trovai già sul punto di cenare. Non appena mi vide, Agatone esclamò:
– Aristodemo, giungi al momento opportuno per cenare con noi. Se sei venuto per qualche altro motivo, rimanda ciò a più tardi. Anche ieri ti cercavo per invitarti, ma non mi riuscì di vederti. Piuttosto, com’è che non ci conduci Socrate?
Ed io, raccontava, volgendomi non vidi da nessuna parte Socrate dietro di me. Spiegai allora che appunto assieme a Socrate io stesso ero venuto, invitato da lui qui alla cena.
– Hai fatto benissimo, – replicò – ma costui dov’è?
– È entrato poco fa dietro di me: ma sono meravigliato anch’io, e mi domando dove possa essere.
E raccontava che Agatone disse:
– Muoviti, ragazzo, cerca Socrate e conducilo qui. E tu, Aristodemo, – continuò – sdraiati accanto ad Erissimaco.
Un servo, seguitava Aristodemo, si occupò delle sue abluzioni, perché si mettesse a giacere; e un altro servo giunse ad annunziare:
– Il Socrate in questione si è isolato nel vestibolo dei vicini, e sta lì immobile. L’ho chiamato, ma non vuole entrare.
– Dici delle assurdità: – esclamò Agatone – chiamalo di nuovo e non perderlo d’occhio.
E Aristodemo raccontava di aver detto:
– Ma no: lasciatelo stare. Ha questa abitudine: talvolta si isola, dove gli capita, e sta lì immobile. Verrà presto, io credo. Non turbatelo, dunque, lasciatelo stare.
– Facciamo allora così, se ti sembra opportuno – raccontava che Agatone dicesse. – Ma ragazzi, servite la cena a noialtri.
– Voi mettete sempre in tavola ciò che volete, quando nessuno vi sorveglia – il che io non ho mai fatto – ed ora, dunque, immaginando che sia stato invitato da voi a cena, io assieme a questi altri, prendetevi cura di noi, in modo che possiamo lodarvi.
Dopo di ciò, diceva Aristodemo, cominciammo a cenare, ma Socrate non si presentava. E Agatone più volte voleva mandarlo a chiamare, ma io non lo permisi. Giunse poi, a un certo momento – si era trattenuto per un tempo meno lungo che d’abitudine – quando pressappoco si era a metà della cena. E Agatone, che si trovava disteso nell’ultimo posto, da solo, disse, secondo il racconto:
– Sdraiati qui, Socrate, presso di me, in modo che, toccando te, anch’io goda della recondita sapienza che si è accostata a te nel vestibolo. Tu l’hai trovata e la possiedi, evidentemente: se no, non ti saresti mosso.
E Socrate si sedette e disse:
– Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse fatta in modo da scorrere, se ci tocchiamo l’un l’altro, da chi di noi ne è più pieno a chi ne è più vuoto, così come nelle coppe l’acqua scorre attraverso il filo di lana, dalla più piena alla più vuota. Se le cose stanno a questo modo anche per la sapienza, apprezzo molto l’esser disteso accanto a te: penso infatti che sarò riempito, da parte tua, di una grande e bella sapienza. La mia, in realtà, se mai vale poco, o addirittura è discutibile, simile a un sogno; la tua, invece, è fulgida, e capace di grande accrescimento, essa che è lampeggiata così violentemente da te, che sei giovane, e si è resa manifesta ieri l’altro, avendo per testimoni più di trentamila Elleni.
E Agatone a dire:
– Sei aggressivo, Socrate. Questa disputa sulla sapienza la decideremo fra poco, io e tu, prendendo come giudice Dioniso. Ma ora, pensa prima alla cena.
Dopo di ciò, raccontava, Socrate si distese e cenò, e così pure gli altri; fecero quindi le libagioni, e intonato il canto in onore del dio e celebrati gli altri riti tradizionali, si volsero al bere. Pausania allora, secondo il racconto, diede inizio ai discorsi, in questi termini. Egli disse:
– Ebbene, voi tutti, come potremo bere con la maggiore levità? Per parte mia, devo dirvi che in realtà non sto affatto bene, per la bevuta di ieri, e ho bisogno di un po’ di respiro. E credo che anche la maggior parte di voi ne abbia bisogno: ieri eravate presenti, infatti. Guardate dunque in qual modo possiamo bere con la maggior levità.
Disse allora Aristofane:
– Parli bene, Pausania, bisogna ottenere in ogni modo un respiro nel bere: anch’io faccio parte di quelli che ieri erano immersi nel vino.
E udendoli, continuò Erissimaco, figlio di Acumeno:
– Avete ragione. Uno di voi vorrei ancora ascoltare, su come si senta per resistenza al bere, cioè Agatone.
Questi disse:
– No certo, neppur io mi sento forte.
– A quanto pare, a noi capita allora una fortuna insperata, a me, ad Aristodemo, a Fedro e a costoro, se voi, i più potenti bevitori, avete ora abdicato. Noi infatti siamo sempre dei deboli. Socrate, invece, lo tolgo dal conto: in entrambi i casi è capace di far fronte, cosicché si troverà bene, che ci comportiamo in un modo oppure nell’altro. Poiché mi sembra quindi che nessuno dei presenti abbia una gran voglia di bere molto vino, forse, dicendo la verità sulla natura dell’ubriachezza, potrò essere meno sgradevole. Proprio questo, infatti, ritengo risulti evidente dalla mia esperienza medica, che cioè per gli uomini l’ubriachezza è un male. E per parte mia non vorrei spingermi troppo oltre nel bere, né lo consiglierei ad altri, soprattutto quando si abbia ancora il capo indolenzito dal giorno precedente.
– Ma certo, – intervenne a dire, secondo il racconto, Fedro, del demo Mirrinunte – per conto mio sono abituato ad obbedirti, specialmente in ciò che dici di medicina. Ora però anche gli altri ti ascolteranno, se vorranno decidere saggiamente.
Quando ebbero udito ciò, tutti furono d’accordo di non destinare all’ubriachezza quella riunione, e di bere, piuttosto, secondo il piacere.
– Poiché dunque – disse Erissimaco – è stato concesso questo, che ciascuno beva quanto vuole, e che non vi sia nessuna costrizione, propongo, dopo di ciò, di mandar via la flautista che è entrata poco fa – potrà suonare da sola, o, se vuole, per le donne di casa – e quanto a noi, di stare assieme oggi, intrattenendoci con discorsi. E, sulla natura di questi discorsi, se volete, intendo farvi una proposta.
Tutti dissero che volevano, e lo invitarono a fare la proposta. Erissimaco allora parlò:
– Il mio discorso trae principio dalla Melanippe di Euripide: infatti non mie sono le parole che sto per dire, ma di Fedro qui presente. Ad ogni occasione, invero, Fedro mi dice indignato: “Non è concepibile, Erissimaco, che a molti altri dei i poeti abbiano dedicato inni e peani, e a Eros, invece, che è un dio così grande e potente, neppur uno, fra tutti i grandi poeti del passato, abbia mai destinato un encomio? E d’altro canto, se vuoi considerare i sofisti di valore, è di Eracle e di altri che essi scrivono elogi in prosa. Così fa l’ottimo Prodico. E di ciò non vi sarebbe poi tanto da meravigliarsi; senonché a me stesso è capitato tra le mani il libro di un uomo sapiente, in cui il sale riceve un mirabile elogio per la sua utilità. Ed è possibile vedere esaltati molti altri oggetti di questa natura. Orbene, mentre ci si è rivolti con grande impegno a cose di questo genere, nessun uomo invece ha mai osato, sino a questo giorno, di celebrare degnamente Eros. Un così grande dio, piuttosto, è stato trascurato a questo punto”. In ciò mi sembra dunque che Fedro abbia ragione. Desidero quindi offrire un contributo a costui, facendogli cosa grata, ed assieme mi sembra conveniente, in questa occasione, per noi presenti, di onorare il dio. Se perciò anche voi siete d’accordo, saremo sufficientemente occupati in questi discorsi. Mi sembra invero che ciascuno di noi, procedendo verso destra, debba pronunciare un elogio di Eros, il più bello che gli sia possibile, e che per primo dia l’avvio Fedro, poiché è disteso al primo posto, ed è al tempo stesso il padre del discorso.
E Socrate disse:
– Nessuno, Erissimaco, voterà contro di te. In verità, non potrò oppormi io, che affermo di non conoscere null’altro se non ciò che riguarda l’amore, né Agatone o Pausania, né certo Aristofane, il quale non si occupa d’altro che di Dioniso e di Afrodite, né alcun altro di costoro che vedo qui. A dire il vero, per noi che siamo distesi negli ultimi posti non si presenta una condizione di parità; ma se quelli che ci precedono parleranno in modo bello ed esauriente, questo ci basterà. Con buona fortuna, cominci dunque Fedro, e pronunci l’elogio di Eros.
Tutti gli altri furono d’accordo su di ciò, e si associarono all’invito di Socrate. Orbene, di tutto ciò che fu detto da ciascuno dei presenti, Aristodemo non si ricordava compiutamente, né io, a mia volta, mi ricordo di tutto ciò che costui ha raccontato. Ma le cose più importanti, e più degne di memoria, a mio avviso, nei discorsi di ciascuno, ve le dirò.
Raccontava, come ho detto, che Fedro per primo cominciò a parlare, prendendo così le mosse.
– Un grande dio è Eros, meraviglioso fra gli uomini e gli dei, e ciò per molti altri rispetti, ma non da ultimo per la nascita. In verità, l’essere tra gli dei il dio più antico, è un onore – egli disse – ed ecco un segno di questa antichità: genitori di Eros non ve ne sono, né vengono nominati da nessuno, prosatore o poeta; Esiodo, piuttosto, afferma che anzitutto è sorto Caos:
poi in seguito
Terra dall’ampio petto, del tutto sostegno sempre saldo,
ed Eros.
E con Esiodo concorda Acusilao, nel dire che dopo il Caos nacquero questi due, Terra ed Eros. Parmenide poi, quanto alla nascita, dice:
primo di tutti gli dei, inventò Eros.
Così da molte parti si ammette concordemente che Eros sia, tra gli dei, il più antico. Ma se è il più antico, è causa per noi dei più grandi beni. Per parte mia, infatti, non posso affermare che vi sia un bene maggiore, sin dalla prima giovinezza, che un nobile amante, e per l’amante, che un fanciullo. In realtà, ciò che deve guidare tutta la vita degli uomini destinati a vivere in modo bello, è qualcosa che non sono in grado di inculcarci, con una tale bellezza, né la parentela, né gli onori, né la ricchezza, né qualcos’altro, se non l’amore. E con ciò cosa intendo dire? La vergogna per le cose brutte, e l’aspirazione alle belle: senza di esse, infatti, non è possibile né ad una città né ad un privato, di compiere opere grandi e belle. Affermo invero, per parte mia, che un uomo il quale ami, se una sua azione vergognosa risulta manifesta, o se per viltà subisce da altri qualcosa di brutto senza difendersi, non si affliggerà tanto, nel caso in cui sia visto dal padre, o dai compagni, o da qualsiasi altro, quanto nell’esser visto dal suo fanciullo. E lo stesso osserviamo anche nell’amato, che cioè si vergogna, più che di ogni altro, dei suoi amanti, quando sia visto mentre si comporta in modo brutto. Se dunque si offrisse un mezzo per formare una città o un esercito, di amanti e di amati, non sarebbe possibile che governassero la loro città in modo migliore, che per l’appunto astenendosi da tutte le cose vergognose e gareggiando tra loro nel desiderio di stima; e uomini siffatti, combattendo gli uni accanto agli altri, vinceranno – pur essendo pochi – per così dire tutta l’umanità. Per l’uomo che ama, infatti, l’esser visto abbandonare il posto assegnatogli, o gettare le armi, sarà certo più intollerabile se a vederlo è l’amato, che qualsiasi altro, e piuttosto preferirà molte volte la morte. Quanto poi all’abbandonare nelle difficoltà l’amato, o a non soccorrerlo nel pericolo, non c’è nessuno così vile, che Eros stesso non renda posseduto dal dio, rispetto al coraggio, tanto da essere simile al più valoroso per natura. E in realtà, quello che disse Omero, che in alcuni eroi il dio ispira la furia guerriera, è ciò che Eros offre agli amanti, un dono sorto da lui stesso.
Il morire per un altro, di più, gli amanti soli lo vogliono; e non soltanto gli uomini, ma anche le donne. Di ciò d’altronde la figlia di Pelia, Alcesti, offre una testimonianza, sufficiente sostegno di fronte agli Elleni per questo nostro discorso: essa sola volle morire in luogo del suo sposo, mentre egli aveva padre e madre, che quella tanto superò con un affetto che nasceva dall’amore, da dimostrarli estranei al figlio, e a lui congiunti solo per il nome; e avendo compiuto quest’atto, il suo agire sembrò così bello, non solo agli uomini, ma anche agli dei, che questi ultimi, pur essendo molti che hanno compiuto molte e belle imprese, concessero a pochi, che è facile contare, questo privilegio, di lasciar ritornare la loro anima dall’Ade, eppure l’anima di quella la lasciarono, ammirati del suo atto. Così anche gli dei onorano in sommo grado lo slancio e l’eccellenza connessi all’amore. Al contrario, cacciarono dall’Ade Orfeo, figlio di Eagro, inappagato, mostrandogli un fantasma della donna per la quale era venuto, senza tuttavia dare lei, poiché ad essi sembrava, in quanto suonatore di cetra, un uomo debole, privo del coraggio di morire per amore come Alcesti, e preoccupato invece di riuscire ad entrare vivo nell’Ade. Proprio per questo gli imposero una pena, e fecero che la sua morte avvenisse per opera di donne. Ben diversamente onorarono Achille, figlio di Teti, e lo mandarono alle isole dei beati, poiché, avendo saputo dalla madre che uccidendo Ettore sarebbe morto, e non facendo questo, invece, sarebbe ritornato in patria e sarebbe morto vecchio, egli osò scegliere – soccorrendo l’amante Patroclo e vendicandolo – non solo di morire per lui, ma anche di seguire lui morto nella morte. Senza dubbio per questo gli dei, pieni di ammirazione, gli concessero onori eccezionali, poiché aveva stimato in così alto grado l’amante. Eschilo invece dice un’assurdità, quando afferma che Achille era l’amante di Patroclo, Achille, che era più bello non solo di Patroclo, ma anche di tutti gli eroi, e ancora imberbe, e inoltre assai più giovane, come dice Omero. Ma in realtà gli dei, pur onorando più di ogni altra cosa questa eccellenza connessa all’amore, tuttavia maggiormente si meravigliano e ammirano e concedono favori quando l’amato mostra amore verso l’amante, che quando l’amante lo mostra verso l’amato. Più divino, in realtà, è l’amante che l’amato: difatti è posseduto dal dio. E per questo onorarono Achille più di Alcesti, mandandolo alle isole dei beati.
Così dunque io affermo che Eros, fra gli dei, è il più antico, e possiede la più grande dignità e autorità, rispetto all’acquisto dell’eccellenza e della felicità, per gli uomini sia vivi sia morti ».
Platone, Simposio, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1979
« Quanto a te, comunque, ormai ti lascerò in pace; ma il discorso intorno ad Eros, che un giorno udii da una donna di Mantinea, Diotima, la quale era sapiente e in queste cose e in molte altre – e agli Ateniesi una volta, per un sacrificio da essi offerto, prima della peste, procurò una dilazione di dieci anni dell’epidemia –, il discorso, dunque, che costei pronunciò, cercherò di riferirvelo – partendo da ciò che è stato concordato fra me ed Agatone – io stesso con le mie forze, per quanto sarò capace. Bisogna ora, come spiegavi tu, Agatone, trattare anzitutto di Eros stesso, dicendo chi è e qual è la sua natura, e in seguito delle sue opere. Mi sembra, orbene, che la cosa più facile sia di raccontare seguendo il modo di procedere della straniera, quando mi interrogava. Anch’io infatti dissi a lei approssimativamente le stesse cose appunto, che ora Agatone ha detto a me, ossia che Eros sarebbe un gran dio, e si rivolgerebbe alle cose belle; essa allora mi confutò proprio con quegli argomenti con cui io ho confutato costui, e provò che, secondo le mie dichiarazioni, Eros non doveva essere né bello né eccellente.
Ed io domandai: – Che dici, o Diotima? Eros è dunque brutto e dappoco?
E quella esclamò: – Non bestemmiare! Ciò che non è bello, credi forse che debba necessariamente essere brutto?
– Certo che lo credo.
– Allora anche ciò che non è sapiente dovrà essere ignorante? O non ti accorgi invece che tra la sapienza e l’ignoranza c’è qualcosa di mezzo?
– E che cos’è?
– Il possedere opinioni giuste, senza essere in grado di renderne ragione, non sai forse – disse – che non è né sapere (come potrà essere scienza, infatti, una cosa priva di ragione?), né ignoranza (come potrà essere ignoranza, infatti, una cosa che coglie ciò che è?)? L’opinione giusta, orbene, è senza dubbio qualcosa di tale natura, a mezzo tra la saggezza e l’ignoranza.
– Dici la verità – feci io.
– Non pretendere dunque che ciò che non è bello sia necessariamente brutto, e ciò che non è eccellente sia necessariamente dappoco. Così pure, riguardo a Eros, dal momento che tu stesso ammetti che non è né eccellente né bello, allo stesso modo non credere che egli debba essere brutto e dappoco: piuttosto – disse – sarà qualcosa di mezzo tra i due.
– Eppure, – dissi io – è certo ammesso da tutti, che egli sia un gran dio.
– Dicendo da tutti – domandò – intendi da coloro che non sanno, o anche da coloro che sanno?
– Da tutti quanti, ti dico.
E lei ridendo: – E come, o Socrate, – fece – potrà essere riconosciuta la sua natura di grande dio da parte di coloro che affermano che egli non è neppure un dio?
– Chi sono costoro? – chiesi io.
– Uno intanto – disse – sei tu, e un’altra, poi, io.
E io replicai, domandando: – Come puoi dire questo?
E quella: – È facile – dichiarò. – Dimmi un po’, non affermi forse che tutti gli dei sono felici e belli? Oppure oserai asserire che qualcuno degli dei non è né bello né felice?
– Per Zeus, io no di certo! – dissi.
– E felici non chiami, poi, coloro che possiedono le cose buone e le cose belle?
– Senza dubbio.
– Eppure hai ammesso che Eros, per la mancanza delle cose buone e belle, desideri appunto queste cose di cui è mancante.
– L’ho ammesso, infatti.
– Come potrà essere un dio, allora, colui che è privo delle cose belle e buone?
– Non lo potrà affatto, almeno a quanto pare.
– Vedi dunque, – disse – che anche tu non ritieni che Eros sia un dio?
– Che mai sarà allora Eros? – feci. – Un mortale?
– Meno che mai.
– Ma che cosa, dunque?
– Come nei casi precedenti – disse – qualcosa di mezzo fra mortale e immortale.
– Che sarà allora, Diotima?
– Un grande demone, o Socrate: giacché tutto ciò che è demonico è qualcosa di mezzo tra dio e mortale.
– Quale potere – feci io – possiede?
– Di tradurre e di trasmettere agli dei le cose che giungono dagli uomini, e agli uomini quelle che giungono dagli dei, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri i comandi e le ricompense dei sacrifici: e stando a metà tra gli uni e gli altri, riempie completamente tale regione, cosicché il tutto risulta collegato con se stesso. Attraverso il demonico procede tutta quanta la divinazione, come pure l’arte dei sacerdoti e di coloro che si dedicano ai sacrifici, ai riti di iniziazione, agli incantesimi, a ogni potere profetico e alla magia. Il dio, peraltro, non si mescola all’uomo, ed è attraverso il demonico, piuttosto, che gli dei tengono ogni comunicazione e ogni dialogo con gli uomini, sia nella veglia sia nel sonno. E chi è esperto in tali argomenti è un uomo demonico, chi invece è esperto in qualcos’altro, o nelle arti o nei lavori manuali, è un uomo volgare. Questi demoni, orbene, sono molti e svariati: uno di essi, poi, è anche Eros.
– Ma chi è suo padre – domandai io – e chi sua madre?
– È piuttosto lungo – disse – a raccontare. Tuttavia te lo dirò. Dunque, quando nacque Afrodite, gli dei tenevano banchetto, e tra gli altri c’era anche il figlio di Metis, Poros. E dopo che ebbero cenato, giunse Penia per mendicare, poiché il cibo era stato sontuoso, e stava alla porta. Poros intanto, ubriaco di nettare, il vino infatti non c’era ancora, era entrato nel giardino di Zeus e, appesantito dall’ebbrezza, dormiva. Penia allora, proponendosi, per la propria povertà, di avere un figlio da Poros, si distende accanto a lui e concepisce Eros. Per tale ragione, del resto, Eros risulta seguace di Afrodite e dedito al suo servizio: egli infatti è stato generato durante la festa per la nascita di lei, e al tempo stesso è, per natura, amante della bellezza e di Afrodite, che è bella. In quanto è figlio di Poros e di Penia, dunque, ad Eros è toccata una siffatta sorte. Anzitutto, è sempre povero, e ben lungi dall’esser morbido e bello, come crede il volgo; piuttosto è ruvido e irsuto e scalzo e senza asilo, si sdraia sempre per terra, senza coperte, dorme a cielo scoperto davanti alle porte e sulle strade, e possiede la natura della madre, sempre dimorando assieme all’indigenza. Secondo la natura del padre, d’altro canto, ordisce complotti contro le cose belle e le cose buone: invero, è coraggioso e si getta a precipizio ed è veemente, è un mirabile cacciatore, intreccia sempre delle astuzie, è desideroso di saggezza ed insieme ricco di risorse, passa tutta la vita ad amare la sapienza, è un terribile mago, e stregone, e sofista. E la sua natura non è né di un immortale né di un mortale: in una stessa giornata, piuttosto, ora è in fiore e vive, quando trova una strada, ora invece muore, ma ritorna di nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ciò che si è procurato, peraltro, a poco a poco scorre sempre via, cosicché Eros non è mai né sprovvisto né ricco, e d’altro canto sta in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza. Le cose stanno infatti nel modo seguente. Nessuno degli dei ama la sapienza, né desidera diventare sapiente, poiché lo è già; se poi c’è qualcun altro ad essere sapiente, neppure costui ama la sapienza. D’altro canto, nemmeno gli ignoranti amano la sapienza, né desiderano diventare sapienti. Proprio in questo, difatti, l’ignoranza è insopportabile, nel credere, da parte di chi non è né bello né eccellente, e neppure saggio, di essere adeguatamente dotato. Chi non ritiene di essere privo, dunque, non desidera ciò di cui non crede di aver bisogno.
– Chi saranno allora, o Diotima, – chiesi io – gli amanti della sapienza, se non lo sono né i sapienti né gli ignoranti?
– A questo punto la cosa è ormai evidente – disse – anche per un bambino: saranno coloro che stanno in mezzo a questi due, e tra di essi vi sarà anche Eros. In effetti, la sapienza fa parte senza dubbio di ciò che vi è di più bello, ed Eros, dal canto suo, è amore a riguardo della bellezza, cosicché necessariamente Eros sarà amante della sapienza e, essendo amante della sapienza, sarà nel mezzo tra il sapiente e l’ignorante. E la causa, per lui, di queste cose sta del pari nella sua nascita: ha infatti un padre sapiente e ricco di risorse, una madre invece non sapiente e priva di risorse. Orbene, la natura del demone, caro Socrate, è questa: quanto poi a colui che tu ritenevi essere Eros, non ti è accaduto nulla di sorprendente. Tu credevi invero – come mi sembra, a giudicare da quanto dici – che l’oggetto amato, e non già quello che ama, fosse Eros. Per questo, io penso, Eros ti appariva totalmente bello. Giacché l’oggetto degno di essere amato è ciò che essenzialmente è bello e tenero e perfetto e da ritenere felice; ciò che ama, invece, certo ha un’altra figura, quella appunto che io ho spiegato.
E io dissi: – Sin qui va bene, o straniera, poiché tu parli in modo bello. Tale essendo la natura di Eros, quale servizio egli rende agli uomini?
– Appunto questo, o Socrate, – riprese – cercherò di insegnarti, dopo ciò che si è detto. In realtà, Eros ha dunque una tale natura e una tale nascita, ed inoltre, come tu affermi, si rivolge alle cose belle. Ma se qualcuno ci domandasse: “In che senso, o Socrate e Diotima, Eros si rivolge alle cose belle?” o più chiaramente, in questa forma: “Chi ama le cose belle, ama; che cosa ama?”.
E io risposi:
– Che esse diventino sue.
– Ma questa risposta – disse – suscita un’altra domanda, del seguente tenore: “Che cosa accadrà a colui, cui vengano ad appartenere le cose belle?”.
Dissi che io non ero ancora del tutto in grado di rispondere prontamente a questa domanda.
– Ma – disse – è proprio come se qualcuno, servendosi del bene in luogo del bello, mutassse la domanda: “Suvvia, Socrate, chi ama le cose buone, ama; che cosa ama?”.
– Che esse – feci io – diventino sue.
– E che cosa accadrà a colui, cui vengano ad appartenere le cose buone?
– A questo – dissi io – sono in grado di rispondere più facilmente: sarà felice.
– È infatti per il possesso delle cose buone – disse – che i felici sono felici, e non occorre più domandare ulteriormente: “A qual fine vuole essere felice, colui che lo vuole?”. Piuttosto, la risposta non ha seguito, a quanto pare.
– Dici la verità – feci io.
– Questo desiderio e questo amore, orbene, credi che siano comuni a tutti gli uomini, e che tutti vogliano essere sempre in possesso delle cose buone? Oppure come intendi dire?
– Così, – risposi io – che siano comuni a tutti.
– Perché mai allora, o Socrate – domandò – non diciamo, a proposito di tutti, che amano, se è vero che tutti amano le stesse cose, e sempre; e perché di alcuni, piuttosto, diciamo che amano, e di altri invece non lo diciamo?
– Me ne stupisco anch’io – feci.
– Non c’è da stupirsi, invece, – disse – giacché noi, isolando una certa specie di amore, la chiamiamo appunto, imponendole il nome della totalità, amore, e per le altre specie invece usiamo sempre altri nomi.
– Analogamente a che cosa? – chiesi io.
– Analogamente a questo. Tu sai che creazione è un termine vasto. In effetti, per qualsiasi cosa che proceda da ciò che non è a ciò che è, senza dubbio la causa di questo processo è sempre una creazione; di conseguenza, sia le produzioni che rientrano in tutte le arti sono creazioni, sia i loro artefici sono tutti creatori.
– Dici la verità.
– Ma tuttavia – continuò lei – tu sai che non sono chiamati creatori, bensì hanno altri nomi, e che una sola parte, staccata dalla sfera totale della creazione – la parte che riguarda la musica e la poesia – viene designata con il nome della totalità. Soltanto questa parte, difatti, è chiamata creazione, e coloro cui appartiene questa parte della creazione sono chiamati creatori.
– È vero – dissi.
– Così dunque avviene anche riguardo all’amore. Riassumendo, il desiderio delle cose buone e della felicità si riduce interamente, per chiunque, ad essere l’amore potentissimo ed ingannevole; senonché gli uni, ricorrendo a lui in molte e diverse maniere, o nella tendenza agli affari, o nella passione per la ginnastica, o in quella per la sapienza, non ricevono il nome di amanti né si dice che amino, mentre gli altri, procedendo e impegnandosi secondo una singola specie di amore, portano il nome della totalità: amore e amare e amanti.
– Quello che dici – feci io – è probabilmente vero.
– Certo, viene sostenuta una teoria – disse – secondo cui sono coloro che cercano la metà di loro stessi, quelli che amano; ma la mia teoria afferma che l’amore non si rivolge né alla metà né all’intero, a meno che non si tratti in qualche modo, amico mio, di una cosa che è buona. In effetti gli uomini sono disposti a farsi amputare piedi e mani, quando ritengono che queste parti di loro stessi siano troppo in cattivo stato. Non è invero a ciò che fa parte di lui stesso – io credo – che ciascuno si attacca, fuorché non sia il bene ad essere chiamato proprio e appartenente a noi stessi, e il male, invece, estraneo. Ché anzi, null’altro se non il bene è ciò che amano gli uomini. Oppure ti sembra che amino qualcos’altro?
– Non mi sembra davvero, per Zeus – feci io.
– È dunque possibile – riprese lei – dire, in modo così semplice, che gli uomini amano il bene?
– Sì – dissi.
– E allora? Non bisogna forse aggiungere – domandò – che essi amano altresì il possesso del bene?
– Bisogna aggiungerlo.
– Dunque, oltre a ciò, – disse – non solo il possesso, ma anche l’eterno possesso?
– Bisogna aggiungere anche questo.
– L’amore allora, in complesso, – disse – tende a possedere eternamente il bene.
– È verissimo – feci io – quello che dici.
– Dal momento che appunto in questo consiste sempre l’amore, – disse lei – per quale atteggiamento e per quale azione l’entusiasmo e lo sforzo violento di coloro che sono in caccia di ciò potranno ricevere il nome di amore? Quale sarà mai questo atto? Sei in grado di dirlo?
– Se lo fossi, o Diotima, – feci io – non starei certo ad ammirarti per la tua sapienza, né ricorrerei a te per imparare appunto queste cose.
– Allora te lo dirò io – continuò. – Questo atto, invero, è un dare alla luce in ciò che è bello, sia rispetto al corpo, sia rispetto all’anima.
– Ciò che intendi dire – feci – richiede un potere divinatorio, ed io non capisco.
– Ebbene, – disse lei – te lo spiegherò più chiaramente. Gravidi invero, o Socrate, – continuò – sono tutti gli uomini, e nel corpo e nell’anima, e quando sono giunti ad una certa età, la nostra natura brama di partorire. Ma nel brutto non può partorire, nel bello invece sì. Il congiungimento dell’uomo e della donna, in realtà, è un dare alla luce. Questo atto, orbene, è divino, e nell’essere vivente che è mortale vi è questo di immortale, il concepimento e la procreazione. Ma l’uno e l’altra è impossibile che si producano in ciò che è discordante. Il brutto, orbene, è discordante rispetto a tutto ciò che è divino, mentre il bello è con esso in accordo. Callone, la bellezza, è dunque Moira ed Ilitia per la generazione. Perciò, ogni volta che un essere gravido si avvicina a ciò che è bello, si dispone alla benevolenza, e rallegrandosi si diffonde e partorisce e procrea; quando invece si avvicina a ciò che è brutto, allora, incupito e rattristato, si contrae, cerca di scostarsi, si rinchiude e non procrea, e piuttosto, trattenendo in sé la creatura concepita, la sopporta penosamente. Onde sorge appunto, in un essere gravido e ormai turgido di latte, la violenta emozione a riguardo di ciò che è bello, poiché questo libera chi lo possiede da grandi doglie. L’amore infatti, o Socrate, – disse – non ha come fine ciò che è bello, come invece tu credi.
– Ma che cosa allora?
– La procreazione e il dare alla luce in ciò che è bello.
– Ammettiamolo – feci io.
– È senza dubbio così – disse. – E perché mai, proprio la procreazione? Perché la procreazione è ciò che di eterno e di immortale può toccare a un mortale. Da quanto si è ammesso, peraltro, risulta necessario che, assieme al bene, si desideri l’immortalità, se è vero che l’amore tende a possedere eternamente il bene. In base a questo discorso è dunque necessario che l’amore tenda altresì all’immortalità.
Tutte queste cose appunto mi insegnava, in ogni occasione in cui teneva discorsi in materia di amore; e una volta mi domandò:
– Quale credi, o Socrate, che sia la causa di questo amore e di questa brama? O non ti accorgi in quale disposizione mirabilmente strana si trovino tutti gli animali, ogni volta che li coglie il desiderio di procreare, sia quelli che vivono sulla terra sia quelli che volano, tutti ammalati e amorosamente disposti, per ciò che si riferisce, anzitutto, all’accoppiarsi gli uni con gli altri, e, in seguito, all’allevamento della prole; e come i più deboli siano pronti, per i loro nati, a combattere contro i più forti, e a morire per loro, sia subendo essi stessi le torture della fame al fine di tirar su i nati, sia facendo ogni altra cosa? Quanto agli uomini invero – disse – si potrebbe credere che facessero ciò per riflessione: ma gli animali, quale causa c’è che siano così amorosamente disposti? Sai dirmelo?
E io di nuovo dissi che non sapevo; e lei riprese:
– Pensi forse di riuscir mai ad eccellere in materia di amore, se non capisci ciò?
– Ma è ben per questo, Diotima, – come appunto dicevo poco fa – che vengo da te: perché so di aver bisogno di maestri. Suvvia, dimmi la causa di queste cose, come pure delle altre che rientrano nella sfera dell’amore.
– Se dunque sei convinto – continuò – che l’amore miri per natura a quello che di frequente abbiamo ammesso, non meravigliarti. Nel caso presente infatti, allo stesso modo di prima, la natura mortale cerca, per quanto è possibile, di essere eterna e immortale. Ma lo può fare solo a questo modo, con la generazione, in quanto lascia sempre dietro di sé, in luogo del vecchio, qualcos’altro di giovane. In effetti, anche durante il tempo in cui si dice, di ogni singolo essere vivente, che vive ed è qualcosa di identico, ad esempio di un uomo, si dice che rimane il medesimo, da quando è bambino sino a che diventa anziano, costui invero, non avendo mai in se stesso le medesime parti, pure viene detto identico, ma in realtà ringiovanisce sempre – perdendo però talune cose – e nei capelli e nella carne e nelle ossa e nel sangue e in tutto quanto il corpo. E non che solo rispetto al corpo si possa dire a questo modo, bensì inoltre – per quel che riguarda l’anima – i temperamenti, i caratteri, le opinioni, i desideri, i piaceri, le sofferenze, i timori, tutte queste cose insomma, non appartengono mai identicamente ai singoli uomini, ma in parte nascono e in parte periscono. Assai più strano ancora di ciò, peraltro, è il fatto, anche a riguardo delle conoscenze, non solo che alcune nascono e altre invece periscono in noi, e che noi non siamo mai i medesimi neppure rispetto alle conoscenze, ma altresì che ogni singola conoscenza subisce la stessa cosa. Ciò che viene chiamato applicarsi, in realtà, sussiste in quanto una conoscenza se ne sia andata. Difatti, la dimenticanza è l’uscir fuori di una conoscenza, mentre l’applicazione, producendo per contro, in luogo del ricordo che è partito, uno che è fresco, salva la conoscenza, di modo che questa sembra essere la stessa. Tutto ciò che è mortale si preserva invero a questo modo, non già per il fatto di essere completamente identico per sempre, come avviene al divino, ma perché ciò che se ne va ed invecchia lascia dietro di sé qualcos’altro di giovane, simile a quello che esso stesso era. Con questo artificio, o Socrate, – disse – ciò che è mortale partecipa – sia per il corpo sia per tutto il resto – dell’immortalità; ciò che è immortale, invece, vi partecipa altrimenti. Non meravigliarti dunque che ogni essere, per natura, tenga in pregio il proprio germoglio: in vista dell’immortalità, difatti, ciascuno è accompagnato da questo slancio e da questo amore.
Ed io, ascoltando quel discorso, rimasi stordito, e intervenendo:
– Un momento! – dissi – o sapientissima Diotima; queste cose stanno poi veramente così?
E lei, come i perfetti maestri di sapienza, rispose:
– Siine pure convinto, o Socrate; giacché certo, quanto agli uomini, se vuoi inoltre considerarne l’ambizione, rimarrai stupefatto della loro irragionevolezza, a meno che tu non rifletta su quanto è stato detto da me, considerando in quale straordinaria disposizione amorosa si trovino, per la brama di diventare famosi e di accumulare per l’eternità dei tempi una gloria immortale, e come per questo fine siano pronti, più ancora che per i loro figli, ad affrontare tutti i pericoli, e inoltre a dissipare le loro ricchezze e a sopportare qualsiasi fatica e a morire per questo. Giacché pensi forse – disse – che Alcesti sarebbe morta per Admeto, o che Achille avrebbe seguito Patroclo nella morte, o che il vostro Codro sarebbe morto per assicurare il regno ai suoi figli, se non avessero creduto che della loro eccellenza sarebbe poi esistito un ricordo immortale, quello che noi ora conserviamo? Proprio per nulla, – disse – e io penso, piuttosto, che in vista di un’eccellenza immortale e di una siffatta fama gloriosa tutti si adoprino con ogni mezzo, e tanto più quanto più valgono: poiché amano l’immortale. Orbene, – continuò – coloro che sono gravidi rispetto al corpo si rivolgono di preferenza verso le donne, e si atteggiano amorosamente a questo modo, col procurarsi – così essi credono – attraverso la procreazione dei figli, l’immortalità e il ricordo e la felicità per tutto il tempo avvenire; quanto a coloro invece che sono gravidi rispetto all’anima – vi sono invero (continuò) quelli che ingravidano nell’anima, più ancora che nel corpo, di ciò che spetta all’anima concepire e partorire: e che mai le spetta? Sia la saggezza sia il resto dell’eccellenza, quelle cose, appunto, che sono generate da tutti i creatori e da quanti, tra gli artefici, vengono chiamati inventivi; ma l’aspetto di gran lunga più alto e più bello della saggezza (disse) è quell’ordinamento imposto alle questioni delle città e degli stanziamenti, cui toccano appunto i nomi di moderazione e di giustizia – anche qui, quando uno sin da giovane sia gravido di queste cose nell’anima, essendo divino, e quando, col giungere dell’età, brami ormai e di partorire e di generare, in quel momento anche costui cerca – io credo –, andando in giro, l’oggetto bello in cui potrà generare: giacché nel brutto mai genererà. E allora si avvince, in quanto è gravido, ai corpi belli piuttosto che a quelli brutti, e insieme, se incontra un’anima bella e nobile e naturalmente dotata, ecco che si attacca violentemente al complesso dei due, e di fronte a questo uomo trova in abbondanza discorsi sull’eccellenza, su come debba essere l’uomo di valore e di che cosa debba occuparsi, e si sforza di educarlo. Toccando infatti l’oggetto bello – io penso – e stando in sua compagnia, costui partorisce e genera le cose di cui era gravido da lungo tempo; e sia quando è presente sia quando è assente si ricorda di quello; e in comune con quello contribuisce a tirar su ciò che è generato: cosicché uomini di tale natura stringono tra loro una comunanza assai più forte di quella dei figli, e un’amicizia più salda, in quanto hanno in comune figli più belli e più immortali. E chiunque accetterebbe che gli nascessero siffatti figli, a preferenza di quelli umani, sia rivolgendo lo sguardo verso Omero, sia reputando fortunati Esiodo e gli altri creatori eccellenti, per la natura dei discendenti nati da loro, che lasciano dietro di sé, e che a quelli procurano una gloria e un ricordo immortali, essendo essi stessi cosiffatti; e inoltre, se vuoi, – continuò – per la natura dei figli che Licurgo lasciò a Sparta dietro di sé, salvatori di Sparta e – si può dire – dell’Ellade. E anche da voi è tenuto in onore Solone, perché generò le leggi, e in molti altri luoghi, sia fra gli Elleni sia fra i barbari, sono tenuti in onore altri, per aver portato alla luce molte e belle opere, e generato una molteplice eccellenza: a costoro inoltre furono già dedicati molti riti sacri, grazie a siffatti figli, mentre a nessuno mai ne toccarono grazie ai figli umani. A queste dottrine d’amore, orbene, anche tu forse, o Socrate, potrai essere iniziato; ma al grado perfetto e contemplativo dei misteri d’amore, cui tendono del resto le cose dette prima, quando si segua correttamente la strada, non so se tu sarai capace di esserlo. Parlerò dunque io – continuò – né mancherò certo di buona volontà; cerca per parte tua di seguirmi, se ne sei capace. Invero, – disse – chi procede rettamente verso questo oggetto, bisogna che cominci, sin da giovane, a dirigersi verso i corpi belli, e che anzitutto, se chi gli fa da guida è una buona guida, egli ami un corpo solo, e in esso generi discorsi belli, e che in seguito, peraltro, egli comprenda che la bellezza presente in un corpo qualsiasi è sorella della bellezza presente in un altro corpo, e che, se occorre inseguire ciò che è bello nella figura, sarebbe una grande follia non ritenere una sola e identica la bellezza presente in tutti i corpi. E considerando ciò, egli deve diventare amante di tutti i corpi belli, ed allentare invece quell’amore eccessivo per un corpo solo, che disdegna e giudica poca cosa. Dopo di questo, peraltro, la bellezza che sta nelle anime egli dovrà tenerla in maggior pregio di quella che sta nel corpo: di conseguenza, quand’anche uno, leggiadro nell’anima, abbia un misero fiore di giovinezza, egli si contenterà e lo amerà e si interesserà ansiosamente di lui, e partorirà e ricercherà discorsi tali, che rendano migliori i giovani, al fine di venir costretto poi a contemplare ciò che nelle maniere di vita e nelle leggi è bello, e a vedere che tutto questo, come tale, è omogeneo con se stesso, per poter giudicare che il bello riguardante il corpo è qualcosa di meschino. E dopo le maniere di vita, bisogna guidarlo verso le conoscenze, affinché veda a questo punto la bellezza delle conoscenze, e affinché, con lo sguardo diretto alla sfera ormai ampia del bello, e senza più mostrare affezione, come uno schiavo, per la bellezza presente in un solo oggetto, quella di un fanciullo o di un certo uomo o di una sola maniera di vivere, cessi dalla bassezza e dalla meschinità del servire, e piuttosto, rivolto verso l’ampio mare del bello e contemplandolo, partorisca molti discorsi, belli e magnifici, e pensieri, in un amore – senza invidia – per la sapienza, sinché, essendosi rafforzato ed avendo accresciuto il suo potere, percepirà ad un certo momento una conoscenza, una sola, tale da riferirsi al bello, di cui ora parlerò. Ma sforzati – continuò – di prestarmi attenzione quanto più ti è possibile. Chi invero sia stato condotto per mano sino a questo punto delle dottrine d’amore, contemplando gli oggetti belli secondo un ordine e nel modo giusto, costui ormai, giunto alla fine della disciplina amorosa, scorgerà – in un istante – un qualcosa di bello, ammirabile nella sua natura, proprio quello, o Socrate, in vista del quale, inoltre, tutte le sofferenze di prima erano appunto esistite: un qualcosa, anzitutto, che sempre è, e non nasce né perisce, non si accresce né vien meno, e in seguito, che non è in parte bello e in parte brutto, né a volte bello e a volte no, né bello rispetto a una cosa e brutto rispetto a un’altra, né bello in un certo luogo e brutto in un altro, in quanto sia bello per alcuni e brutto per altri. E il bello neppure si renderà visibile a lui come un volto, o delle mani, o qualcos’altro di ciò cui partecipa il corpo, né apparirà come un discorso o una conoscenza, e neanche come esistente in qualche luogo, in un oggetto differente, ad esempio in un essere vivente oppure sulla terra o nel cielo o in qualcos’altro: si manifesterà, piuttosto, esso stesso, per se stesso, con se stesso, semplice, eterno. Tutte le altre cose belle, invece, partecipano di quello in un modo tale che, pur nascendo esse e cessando di esistere, quello tuttavia in nulla diventi maggiore o minore, né soffra alcunché. E allora, quando mai uno, innalzandosi da questo mondo attraverso un giusto amore per i fanciulli, cominci a scorgere quell’oggetto, il bello, toccherà quasi, si può dire, il termine. Proprio in questo, difatti, consiste la via giusta per procedere verso la disciplina amorosa, o esservi condotto da un altro: cominciando dalle cose belle di questo mondo, innalzarsi sempre – con quell’oggetto, il bello, come fine – mediante l’aiuto, per così dire, di scalini, da uno solo a due e da due a tutti i corpi belli, e dai corpi belli alle maniere belle di vita, e dalle maniere di vita agli apprendimenti belli, e dagli apprendimenti innalzarsi e finire in quell’apprendimento, che non di altro è apprendimento se non di quel bello in se stesso; e coglierà, giunto al compimento, proprio ciò che è bello, come tale. È questa regione della vita, caro Socrate, – disse la straniera di Mantinea – proprio qui, se mai altrove, che è degna di essere vissuta da un uomo che contempli il bello in se stesso. Il quale, se mai ti accadrà di vederlo, non ti sembrerà commisurabile con un ornamento d’oro e con un vestito, né con i fanciulli e i giovani belli, alla cui vista oggi resti sbigottito e sei pronto – lo sei tu come lo sono molti altri, pur di vedere gli amati e di stare sempre assieme a loro –, se mai fosse possibile, a non mangiare né bere, bensì unicamente a contemplarli, e a stare assieme. Che pensare, allora, – continuò – se a qualcuno riuscisse di vedere il bello in se stesso, puro, senza macchia, non mescolato, e costui fosse in grado di scorgerlo, non già aggravato da carni umane e da colori e da molte altre follie mortali, ma in se stesso, il bello divino, nella sua semplicità? Credi forse – disse – che risulterebbe di poco conto la vita di un uomo, che guardasse a quel mondo, e contemplasse quell’oggetto mediante ciò che occorre, e vivesse congiunto con esso? Non consideri, piuttosto, – disse – che là, in quel solo luogo, a costui, il quale vede il bello con ciò mediante cui è visibile, accadrà di partorire, non già fantasmi di eccellenza, in quanto non avrà messo le mani su un fantasma, bensì l’eccellenza vera, in quanto avrà messo le mani sul vero? E che inoltre, a chi partorisce e si alleva l’eccellenza vera, spetta diventare caro agli dei, e se mai tocchi a qualcun altro degli uomini di diventare immortale, tocca anche a lui?
Queste cose dunque, o Fedro e voi altri, Diotima le disse, ed io me ne sono persuaso: una volta persuaso, cerco di persuadere anche gli altri, che per acquistare questo possesso non sarebbe facile prendere un collaboratore della natura umana migliore di Eros. Quanto a me, perciò, affermo che ogni uomo deve onorare Eros, e io stesso onoro la disciplina d’amore e in essa specialmente mi esercito, e agli altri la raccomando, e ora e sempre faccio l’elogio della potenza e della virilità di Eros, per quanto sono capace. Questo discorso allora, Fedro, ritienilo detto, se vuoi, come un elogio dedicato a Eros; se no, comunque ti piaccia chiamarlo, dagli il nome che vorrai ».
Platone, Simposio, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1979
Platone, Fedone, 78d-79e. Tr. It. Di M. Valgimigli, in Opere, cit. vol. I, pp. 131-133.
« Torniamo ora, egli disse, a ciò di cui ragionavamo precedentemente. La realtà dell’essere, che è ciò di cui interrogando e rispondendo siamo soliti dare la definizione, permane invariabilmente costate o è variabile? L’eguale in sé, il bello, e insomma ogni data cosa che è in sé, l’ente, c’è mai caso che patisca mutazione veruna, sia pure in qualunque modo? Oppure ciascuna di queste cose che è in sé, permane invariabilmente costante, e non si dà mai il caso che per nessuna via e per nessun modo patisca alterazione veruna?
-Necessariamente o Socrate, disse Cedete, permane invariabilmente costante.
-E dimmi, : che pensi tu delle infinite cose, come uomini, cavalli, vesti, e così via di tutte le altre quali esse siano o eguali o belle, e insomma tutte quante alle quali diamo lo stesso nome che alle cose in sé? Permangono esse costanti, oppure tutto il contrario che a quelle, non si dà mai che conservino lo stesso rapporto, né esse rispetto a se stesse né le une rispetto alle altre, e insomma non siano mai per nessun modo costanti?
-Vero anche questo, disse Cebete, non sono mai allo stesso modo.
-Vene: e tu codeste cose puoi toccarle, puoi vederle, puoi comunque percepirle con gli altri sensi, ma quelle che permangono costanti non c’è altro mezzo col quale tu le possa apprendere se non col pensiero o con la meditazione: perché quelle di questa specie sono invisibili e non si possono percepire con la vista. Non è vero?
-Perfettamente vero, egli disse, è questo che dici.
-Vuoi tu dunque, disse, che poniamo due specie di cose, l’una visibile, l’altra invisibile?
-Poniamole, disse.
-E che l’invisibile sia costante, il visibile non sia mai?
-Anche questo, disse, poniamo.
-Ora dimmi, soggiunse, non ci sono in noi stessi due cose, da una parte il corpo, dall’altra l’anima?
-Precisamente, disse.
-E quale è delle due specie sopra dette quella a cui diremo che sia più simile e più congenere il corpo?
-E’ chiaro a tutti, disse, che è la visibile.
-E l’anima? E’ visibile o invisibile?
-Non certo dagli uomini, egli disse, o Socrate, è visibile.
-Ma evidentemente le cose visibili e le non visibili noi le dicevamo cos’ riferendoci alla natura umana: o tu forse pensi riferita qualche altra natura?
-No; alla natura umana.
-Dunque, che cosa diciamo dell’anima, che è visibile o non è visibile?
-Che non è visibile.
-Dunque, è invisibile, e il corpo al visibile.
-Necessariamente, o Socrate.
-E dicevamo da un pezzo anche questo, che l’anima, quando per qualche sua ricerca si vale del corpo, adoperando la vista o l’udito o altro senso qualunque,
-perché ricercare mediante il corpo è come dir ricercare mediante i sensi.
-precisamente.
-Quando incede l’anima procede tutta sola in se stessa alla sua ricerca, allora se ne va colà dov’è il pur, dov’è l’eterno e l’immortale e l’invariabile; e, come di questi è congenere, così sempre insieme con questi si genera, ogni volta che le accade di raccogliersi in sé medesima e le è possibile; e cessa dal suo errare, e rimane sempre rispetto a essi invariabilmente costante, perché tali sono appunto codesti esseri a cui egli si appiglia. E questa sua condizione è ciò che diciamo intelligenza.
-Proprio così, disse, tu dici bene e con verità, o Socrate.
-Orsù, dunque, ancora una volta, da ciò che si disse prima e da ciò che s’è detto ora, a quale di queste due specie pare a te che l’anima sia più congere e più somigliante?
-Chiunque, dissìegli, anche il pià rozzo, messo così su la traccia, pare a me debba convenire in questo, che l’anima è simile in tutto e per tutto a ciò che è sempre invariabile eche a ciò che non è.
-E il corpo?
-All’altra specie.
Platone, Timeo, 27d-30b. Tr. It. Di C. Giarratano, in Platone, Opere, cit., vol II, pp.476-480.
« Timeo.
Prima di tutto, secondo la mia opinione, si devono distinguere queste cose. Che è quello che sempre è e non ha nascimento, e che è quello che nasce sempre e mai non è? L’uno è apprensibile dall’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nello stesso modo; l’altro invece è opinabile dall’opinione mediante la sensazione irrazionale, perché nasce e muore, e non esiste mai veramente. Tutto quello poi che nasce, di necessità nasce da qualche cagione, perché è impossibile che alcuna cosa abbia nascimento senza cagione. Ora, quando l’artefice, guardando sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di così fatto modello, esprime la forma e la virtà di qualche opera, questa di necessità riesce tutta bela: non bella, invece, se guarda a quel che è nato, giovandosi d’un modello generato. Dunque, intorno a tutto il cielo o mondo o, se voglia chiamarsi con altro nome, si chiami pure così, conviene prima considerare quel che abbiamo posto che si deve considerare in principio intorno ad ogni cosa, se cioè è stato sempre, senz’avere principio di nascimento, o se è nato, cominciando da un principio. Esso è nato: perché si può vedere e toccare ed ha un corpo. Se tali cose sono tutte sensibili, e le cose sensibili, che son apprese dall’opinione mediante la sensazione, abbiamo veduto che sono in processo di generazione e generate. Noi poi diciamo che quello che è nato deve necessariamente esser nato da qualche cagione. Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest’universo, e, trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti. Pertanto questo si deve invece considerare intorno ad esso, secondo qual modello l’artefice lo costruì: se secondo quello che è sempre nello stesso modo e il medesimo, o secondo quello che è nato. Se è bello questo mondo, e l’artefice buono, è chiaro che guardò al modello eterno: se no, -ciò che neppure è lecito dire,- a quello nato. Ma è chiaro a tutti che guardò a quello eterno: perché il mondo è il più bello dei nati, e dio il più buono degli autori. Il mondo così nato è stato fatto secondo modello, che si può apprendere con la ragione e con l’intelletto, e che è sempre nello stesso modo. E se questo sta così, è assoluta necessità che questo mondo sia immagine di qualche cosa. Ora in ogni questione è di grandissima importanza il principiare dal principio naturale: così dunque conviene distinguere fra l’immagine e il suo modello, come se i discorsi abbiano qualche parentela con le cose, delle quali sono interpreti. Pertanto quelli intorno a cosa stabile e certa e che risplende all’intelletto, devono essere stabili e fermi e, per quanto si può, inconfutabili e immobili, e niente di tutto questo deve mancare. Quelli poi intono a cosa, che raffigura quel modello ed è a sua immagine, devono essere verosimili e in proporzione di quegli altri: perché ciò che è l’essenza alla generazione, è la verità alla fede. Se dunque, o Socrate, dopo che molti han detto molte cose intorno agli dei, e all’origine dell’universo, non possiamo offrirti ragionamenti in ogni modo seco stessi pienamente concordi ed esatti, non ti meravigliare; ma, purché non ti offriamo discorsi meno verosimili di quelli di qualunque altro, dobbiamo essere contenti, ricordandoci che io che parlo e voi, giudici miei, abbiamo natura umana: sicché intorno a queste cose conviene accettare una favola verosimile, né cercare più in là.
Socrate: Molto bene, o Timeo, e bisogna accettarla senz’altro, come dici tu. Già abbiamo accolto il tuo preludio con molto diletto, e ora seguitando fa che noi ascoltiamo il canto.
Timeo: Diciamo dunque per qual cagione l’artefice fece la generazione e quest’universo. Egli era buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se alcuno accetta questa dagli uomini prudenti come la principale cagione della generazione e dell’universo, l’accetta molto rettamente. Perché dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quand’era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse da disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai, né è lecito all’ottimo di far altro se non la cosa più bella. Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nessuna priva d’intelligenza, sarebbe stata mai più bella di un’altra, che abbia intelligenza, e ch’era impossibile che alcuna cosa avesse intelligenza senz’anima. Per questo ragionamento componendo l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo, fabbricò l’universo, affinché l’opera da lui compiuta fosse la più bella secondo natura e la più buona che si potesse. Così dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di dio.
».
Glaucone: e iveri filosofi quali chiami?
Socrate: I desiderosi della contemplazione della verità.
G: Benissimo, questo. Ma come lo intendi?
S: Non sarebbe putno facile dirlo a un altro; ma tu penso converrai con me in questo.
G: IN che cosa?
S: che dato che il bello è opposto al brutto, essi sian due.
G: Come no?
S: Se son due, ognui d’essi sarà uno.
G: Anche questo è vero.
S: E anche sul giusto e sull’ingiusto, e il buono e il cattivo, e su ogni concetto vale lo stesso discorso, che ognuna di queste cose sia una, ma che compraendo in ogni dove, per la commistione degli atti e dei corpi e fra di loro stesse, ognuna appaia molteplice.
G: Dici giusto, disse.
S: Fai dunque in questo senso una divisione, ponendo da un lato gli amanti degli spettacoli e delle arti e i pratici di cui ora parlavi, e dall’altro quelli su cui verte il discorso, che soli potrebbero giustmanete esser chiamati filosofi.
G: Come dici?, fece.
S: Gli amici delle audizioni e degli spettacoli, dissi, amano le belle voci, i colori e le forme e tutto ciò che di su questi elementi viene ad arte foggiato, ma la natura del vello in sé la loro mente è incapace di vederla ed amarla.
G: Così è infatti, disse.
S: Coloro invece capaci di tendere al bello in sé e di vederlo, non saranno rari?
G: E d’assai.
S: Or chi riconosca l’esistenza di singole cose belle ma la bellezza in sé né riconosca né, ove alcun conduca a conoscerla, sia capace di seguirlo, ti par che viva egli in sogno o da desto? Guarda un po’, il sognare non è appunto questi, quando un in sonno o da sveglio prenda qualcosa che sia simile a un’altra non già per simile ma proprio per la cosa stessa cui quella assomiglia?
G: io direi appunto che un cotale sogna.
S: E chi al contrario di questi ritenga ci sia un bello insé, e sia capace di discernere ed esso né esso per ciò che ne è partecipe, senza prendere ciò che ne è partecipe, costui ti par egli che viva da desto o in sogno?
G: Ben da desto, disse.
S: Or il pensiero di costui, come conoscente, non chiameremo noi conoscenza, e quello dell’altro, come soltanto opinante, opinione?
G: Perfettamente.
S: E se questi che diciamo opinare e non conoscere ci si arrabbia e viene a disputare che noi non diciamo il vero? Non potremo noi ammonirlo e persuaderlo con le buone, dissimulandogli il fatto che non è sano di mente?
G: Così bisogna.
S: Su dunque, guarda un po’ cosa gli diremo. O vuoi che sentiamo noi da lui a questo modo, dicendo che se sa qualcosa nessuno gliela invidierà, ma che anzi volentieri vedremo uno che sa qualcosa: “Ma dicci questo: chi conosce, conosce qualcosa o niente?”. E tu rispondimi ora in suo nome.
G: Risponderò, disse, che conosce sì qualche cosa.
S: Esistente o non esistente esser conosciuto?
G: Esistente; come potrebbe altrimenti qualcosa di inesistente esser conosciuto?
S: Abbiamo dunque acquisito a sufficienza questo punto, anche se ripetutamente tornassimo a esaminarlo, che ciò che interamente è è interamente conoscibile, e quel che non è, e quel che non è affatto del tutto inconoscibile?
G: Perfettamente a sufficienza.
S: Bene: se poi qualche cosa è in modo da essere e non essere insieme, non si troverebbe essa a mezza strada fra ciò che assolutamente è, e ciò che non è affatto?
G: A mezza strada.
S: A ciò che è, dunque, si applica la conoscenza, la ignoranza necessariamente a ciò che non è, e a questo che è a mezza strada bisognerà cercare qualcosa a mezza strada fra l’ignoranza e la scienza, dato che alcunché di simile esista.
G: perfettamente.
S: Diciamo ora che l’opinione sia qualcosa?
G: Come no?
S: Con facoltà diversa da certa scienza, o con la stessa?
G: Diversa.
S: A una cosa dunque è ordinata l’opinione, e a un’altra la scienza ciascuna secondo la propria opinione, e a un’altra la scienza, ciascuna secondo la propria facoltà.
G: Appunto.
S: Or la scienza non è per natura destinata a ciò che è, a conoscere che è ciò che è?… Ma piuttosto mi pare sia prima necessario analizzar la cosa così.
G: Come?
S: Diremo che le facoltà sono un genere di realtà, con le quali siamo capaci, sia noi, sia ogni altra cosa che ha una qualche capacità: dico per esempio che la vista e l’udito sono di fra le facoltà, se intendi di che genere voglio parlare.
G: Intendo, disse.
S: Ascolta ora ciò che a me pare sul loro conto. D’una facoltà io non vedo né colore né forma alcuna, né altro di simile, qual è di tante altre cose, a cui avendo l’occhio distinguo fra me e me di alcune cose che sono a un modo, e di altre ad un altro. D’una facoltà invece guardo al solo fatto di ciò a cui è intesa e dell’effetto che produce, e per questo verso ho dato a ognuna d’esse il nome di facoltà, e quella ordinata alla stessa cosa e producente la stessa cosa chiamo la stessa, quella ordinata ad altro e altro producente, chiamo diversa. E tu, come fai?
G: Così.
S: Qua allora ancora, diss’io, o carissimo. La scienza dici tu che sia una facoltà, o in che genere la metti?
G: In questo, disse, come anzi la più forte di tutte le facoltà.
S: E l’opinione la riferiremo a una facoltà o a un altro genere?
G: A nessun altro, disse. Ciò infatti con cui abbiamo, facoltà di opinare altro non è che l’opinione stessa.
S: Ma poco fa riconoscevi che la scienza e l’opinione non sono la stessa cosa.
G: E come potrebbe uno da senno far la stessa cosa di ciò che è infallibile non è?
S: Bene, dissi, è dunque chiaro che riconosciamo l’opinione come qualcosa di diverso dalla scienza.
G: di diversissimo.
S: Dunque, ognuna, con diversa facoltà, è per natura intesa a cose diverse?
G: Per forza.
S: La scienza a ciò che è, a conoscere come è ciò che è.
G: Si.
S: E l’opinione, diciamo, a opinare.
G: Si.
S: A opinare le stesse cose che la scienza conosce? E la stessa cosa potrà essere conoscibile e opinabile a un tempo? O ciò è impossibile?
G: “E’ impossibile, disse, da quanto si è convenuto. Se ogni facoltà è intesa per natura a cosa diversa, e se sono ambedue facoltà, la scienza e l’opinione, ognuna diversa dall’altra, come diciamo, non è perciò ammissibile che la stessa cosa sia conoscibile e opinabile a un tempo.
S: Ora se ciò che è è conoscibile, l’opinabile sarà qualcosa di diverso da ciò che è.
G: Diverso.
S: L’opinione andrà forse a ciò che non è? O non sarà impossibile anche l’opinare ciò che non è? Pensaci un po’. L’opinante non applica l’opinione a qualche cosa? O è invece possibile opinare sì, ma opinare il nulla?
G: Impossibile.
S: Chi opina dunque, opina pur qualcosa?
G: Si.
S: Ma ciò che non è non può chiamarsi qualcosa, bensì giustamente il nulla.
G: Perfettamente.
S: A ciò che non è abbiam per forza attribuita l’ignoranza, e a ciò che è la conoscenza?
G: Giusto, disse.
S: L’opinione non va dunque né a ciò che è né a ciò che non è?
G: No.
S: Quindi l’opinione non sarebbe né ignoranza né conoscenza?
G: Non pare.
S: E’ forse essa al di fuori di questi due termini, superando la conoscenza in chiarezza, l’ignoranza in oscurità?
G: Né l’uno né l’altro.
S: Anzi, invece, diss’io, l’opinione no ti appare come più oscura della conoscenza, ma più chiara dell’ignoranza?
G: E di molto, disse.
S: Dunque, sta in mezzo alle due?
G: Si.
S: Dunque, l’opinione sarebbe a mezza strada di queste due.
G: Senz’altro.
G. or non abbiamo detto prima che se fosse apparso qualcosa che è e non è insieme, questo qualcosa sarebbe stato a mezza strada fra ciò che assolutamente è e ciò che totalmente non è, e ad esso non si sarebbe applicata né la scienza né l’ignoranza, ma ciò che a sua volta fosse apparso a mezza via tra l’ignoranza e la scienza?
G: Giusto.
S: Ora, non è apparso a mezza via tra queste ciò che noi chiamiamo opinione?
G: E’ apparso.
S: Ci resterebbe allora da trovare, a quanto sembra, quella cosa che partecipa di entrambi, dell’essere e del non essere, e che non può essere giustamente chiamata nel pieno senso con nessun dei due nomi; affinché ove compaia, possiamo dire con ragione che essa appunto sia opinabile, dando agli estremi gli estremi, e agli intermedi gli intermedi. Non è così?
G: Così.
S: Sulla base di queste premesse, mi dica e risponda, dir, quel valentuomo che non crede ci sia un bello in sé e un’idea alcuna di esso sempre ugualmente in sé costante, ma riconosce invece una molteplicità di cose belle; quell’amante di spettacoli che non sopporta se uno dica il bello essere uno, e così il giusto e tutto il resto: “Di tutte queste cose molteplici belle, gli diremo, o brav’uomo, c’è forse qualcosa che non possa anche apparir brutta? E delle giuste, ingiusta? E delle pie, empia?”
G: No, disse, ma ogni singolo oggetto comprenderà sempre entrambe le opposte qualità.
S: E dunque, o piuttosto non è ognuno di questi molteplici oggetti, ciò che uno dica esso sia?
G: Somiglia, disse, agli scherzi a doppio senso nei conviti e all’indovinello dei ragazzi sull’eunuco che colpisce il pipistrello, circa l’oggetto con cui dicono nell’enigma che lo colpisce e il luogo su cui lo colpisce. Anche queste cose sembrano infatti ambivalenti, e non è possibile pensare saldamente che nulla di loro sia né non sia, né ambedue né l’una delle due.
S: Sapresti allora tu, diss’io, trattarle in altro modo e dar loro una posizione migliore di quella intermedia fra l’essere e il non essere? Giacché né esse apparranno più oscure di ciò che non è rispetto migliore di quella intermedia fra l’essere e il non essere?
G: Verissimo, disse.
S: Abbiam dunque trovato, a quanto pare, che le varie opinioni correnti del volgo sul bello e il resto si aggirano a mezza strada fra ciò che non è e ciò che è in modo assoluto.
G: Si, abbiamo trovato.
S: Ma abbiamo prima convenuto, se apparisse un qualcosa del genere, che lo si dovesse chiamare opinabile e non conoscibile, cogliendosi con la facoltà intermedia l’oggetto vagante nella zona intermedia.
G: Abbiam convenuto.
S: Chi dunque contempla molte cose belle, ma la bellezza in sé non vede, né è capace di seguire altri che vi conduca, e molte cose giuste e non la giustizia in sé, e così tutto, diremo che ogni cosa opina, ma nulla conosce di quello che opina.
G: Per forza, disse.
S: diremo invece di quelli che contemplano ognuna di queste cose in sé, sempre immutabilmente costanti a se stesse? Non diremo forse che conosco e non già opinano?
G: Per forza, anche questo.
S: Non diremo quindi che questi abbian care ed amino le cose di cui v’è conoscenza, e quegli altri quelle di cui v’è opinione? Non ricordiamo che dicevamo come costoro amino e contemplino le belle voci e colori e simili, ma che non ammettono il bello in sé come una entità reale?
G: Ricordiamo.
S: Saremo allora stonati chiamandoli amici di opinione anziché di scienza ( filosofi )? E potran forse essi prendersela molto con noi, se diciamo così?
G: No, se vorranno darmi retta, disse. Ché prendersela con al verità non è lecito.
S: E quelli dunque che han cara ogni singola realtà in sé, non van chiamati amici di scienza ( filosofi ), anziché di opinione?
G: Perfettamente ».
Platone, Repubblica, 475r-480°- Tr. It. Di F. Gabrieli, Rizzoli, Milano 1984, pp. 197-204.
« Socrate: Da capo, dunque, rispondimi ancora: cosa dite che sia la virtù, tu ed il tuo compagno?
Menone: Socrate, anche prima d’incontrarmi con te, sapevo per sentito dire che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri; ora poi come mi sembra, mi affascini, mi dai beveraggi, m’incanti, tanto da non avere più alcuna via di sucita. E, se mi è lecito scherzare, mi somigli davvero, nella figura e nel resto, alla piatta torpedine di mare: perché anche questa, se qualcuno le si avvicini e la tocchi subito lo fa intorpidire. Ora mi sembra che tu abbia avuto su di me lo stesso effetto, poiché sono veramente intorpidito nell’anima e nella bocca, e non so più cosa risponderti. E sì che ho fatto tante orazioni sulla virtà e dinanzi a un gran pubblico, e molto bene, come mi pareva. E ora, invece, non so neppure dire che cosa essa sia. Mi sembra, poi, che tu abbia fattto benissimo a non volerti mai mettere in mare, a non voler viaggiare uori di qui, ché se da straniero, in straniera città, ti comprotassi in questo modo, suvito ti arresterevvero come un ammaliatore.
S: Sei capace di tutto, Menone, e per poco non mi hai messo nel sacco!
M: Ma che dici, Socrate?
S: So bene perché mi hai paragonato a una torpedine.
M: Per quale ragione, secondo te?
S: Perché a mia volta ti paragoni qualcosa. So bene che tutte le persone belle godono ad essere paragonate: da simili immagini traggono vantaggio poiché, credo belle sono le immagini delle persone belle. IO, invece, non ti paragonerà a nulla. Quanto a me, se la torpedine fa intorpidire che altri perché torpida essa se tessa, io allora le somiglio; se no, no, perché non è che io sia certo e faccia dubitare gli altri, ma io più di chiunque altro dubbioso, fo sì che anche gli altri siano dubbiosi. E così, tornando alla virtù, io non so che cosa essa sia; tu, forse, lo sapevi prima di toccare me: ora, invece sei divenuto simile a uno che non sa. Comunque voglio cercare di indagare con te cosa essa sia.
M: Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi?
S: Capisco quel che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! L’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca.
M: E non ti sembra, Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto?
S: A me no!
M: Dimmi perché.
S: Certo! Perché ho sentito dire da uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine (…) che l’anima umana è immortale, e che ora essa ha un suo compimento –il che si dice morire-, ora si rinasce, ma che mai essa va distrutta. (…) L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando ( ricordo che gli uomini chiamano apprendimento ) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza ( anamnesi )! Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico, ci renderebbe pigri ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d’essere nel vero, desidero cercare con te cosa sia virtù. [ A questo punto Socrate esemplifica la sua tesi ricorrendo ad un esempio pratico: interroga infatti uno schiavo di Menone, riuscendo a fargli risolvere un problema di geometria ( scienza della quale lo schiavo è assolutamente ignorante ) senza suggerirgli la soluzione, ma soltanto ponendogli opportune domande, atte a risvegliare nello schiavo il ricordo delle nozioni e delle regole necessarie alla risoluzione del problema. (…) ]
S: Che te sembra, Menone? Nelle sue risposte ha mai espresso una sola opinione che non fosse sua propria?
M: No, egli ha cavato tutto da sé.
S: Eppure, come dicevamo poco fa, non sapeva nulla.
M: E’ vero.
S: E tali opinioni vere, erano il lui o no?
M: Si.
S: Ma allora, in chi non sa sono insite opinioni vere, sulle stesse cose che ignora?
M: Sembra.
S: Tali opinioni sono emerse ora, sollevate in lui come in un sogno, e se ripetutamente lo s’interrogasse sugli stessi argomenti e da punti di vista diversi, puoi star sicuro che alla fine ne avrebbe scienza non meno esatta di chiunque altro.
M: Sembra.
S: Senza, dunque, che nessuno gl’insegni, ma solo in verità di domande giungerà al sapere avendo ricavato lui, da sé, la scienza?
M: S.
S: Ma ricavar da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare?
M: Senza dubbio.
S: E la scienza che ora possiede: o l’ha acquisita in un certo tempo o la possiede da sempre.
M: Si.
S: Se la possiede da sempre, egli sa da sempre; se l’ha fatta propria in un qualche tempo, ciò non è sicuramente avvenuto nella presente vita. Vi è forse tempo, ciò non è sicuramente assunto nella presente via. Vi è forse qualcuno che a questo ragazzo ha insegnato i primi elementi della geometria? Nello stesso modo si comporterà relativamente a tutta la scienza geometrica e a tutte le altre discipline. Vi è forse qualcuno che gli abbia insegnato tutto? Lo saprai certo, tanto più che egli è nato e cresciuto in casa tua.
M: So nerissimo che non gli ha insegnato nessuno.
S: Ma ha o non ha tali sue opinioni.
M: incontestabilmente, Socrate, sembra che le abbia.
S: E se non le ha acquisite nella presente vita, non già di per sé evidente che le possedeva e che le apprese in un altro tempo?
M: Evidente.
S: E non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo?
M: Si.
S: Se, dunque, nel suo tempo umano e nel tempo in cui non era uomo, saranno in lui opinioni vere, che ridestate divengono scienze, non dovrà l’anima sua averle apprese da sempre? Poiché, evidentemente, egli “è” per tutto il tempo, sia quando è uomo sia quando non lo è.
M: Evidente.
S: Se dunque, sempre è nella nostra anima la verità degli enti, immortale deve essere l’anima, per cui, coraggiosamente, non si deve porre mano a ricercare e a ridestare nella memoria ciò che ora ti capita di non sapere, e che, invece, è un dimenticare?
M: Non so come, ma Socrate, mi sembra che tu dica bene.
S: Anche a me, Menone! Forse su altri punti del riscorso non mi sentirei di essere tanto sicuro, ma per questo, che, cioè, pensando sia quasi un dovere cercare ciò che non si sa, diverremmo migliori, più forti, meno pigri, che se ritenessimo impossibile trovare e non dover cercare quello che non sappiamo, per questo, se ne fossi capace, combatterei con forza, con la parola e con i fatti.
M: Anche un questo, Socrate, mi sembra che tu dica bene ».
Platone, Menone, 79c-81 d e 85c-86b. Tr. It. F. Adorno, In Opere, cit., vol I, pp. 1266-1268 e 1274-1275.
« Quando ero giovine, io ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Or mi avvenne che questo capitasse allora alla città: il governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantun cittadini divennero i reggitori dello Stato. Undici furono posti a capo del centro urbano, dieci a capo del Pireo, tutti con l’incarico di sovrintendere al mercato e di occuparsi dell’amministrazione e, sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari e conoscenti, che subito mi inventarono a prender parte alla vita pubblica, come ad attività degna di me. Io credevo veramente ( e non c’è niente di strano, giovane come ero ) che avrebbero purificata la città dall’ingiustizia traendola a un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto. M’accorsi così che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l’altro, un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo ch’io non esito a dire il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice, volesse o no; ma egli non obbedì preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo, e ancor altri simili gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco dopo cadde il governo dei trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia potere meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. Anche allora, in quello sconvolgimento, accaddero molte cose da affliggersene, come è naturale, ma non c’è da meravigliarsi che in una rivoluzione le vendette fossero maggiori. Tuttavia bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dall’animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero, lui che non aveva voluto partecipare all’empio arresto di un amico degli esuli d’allora, quando essi pativano fuori dalla patria. Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla via politica, e le leggi e i costumi quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all’amministrazione dello Stato, restando onesto. None era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d’altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città. E impossibile era anche trovare di nuovi con facilità. Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché,io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene. Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e soprattutto se potesse migliorare il governo dello Stato, ma, per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati e a lodare solo essa. Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuto uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi ».
Platone, Lettera VII, 324b-326b. Tr.it. di A. Maddalena, in Opere, cit., vol. II, pp. 1058-1060.
« Invece, i sostenitori delle idee, anzitutto, nel loro tentativo di trovare le cause degli enti sensibili, hanno introdotto altri enti, in numero uguale a quelli sensibili, comportandosi come chi, volendo contare delle cose, è del parere di non potervi riuscire quando le cose sono poche, e si mette poi a contarle dopo averle accresciute di numero; infatti il numero delle idee è pressappoco uguale, o comunque non minore, rispetto a quello degli oggetti sensibili, dai quali, ricercandone le cause, sono partiti per giungere alle idee, giacché, secondo loro, ad ogni essere particolare, corrisponde un qualcosa che è ad esso omonimo; ed è così, oltre che per le sostanze, anche per le altre cose, siano essere sensibili o eterne, di cui esiste un’unità che è sopra la molteplicità.
Inoltre, da nessuno degli argomenti che noi ne addiciamo a prova, risulta l’esistenza delle idee: difatti da alcune argomentazioni non consegue una conclusione logica necessaria, da altre vengono fuori idee di cose delle quali non ammettiamo ci siano idee. Invero, in base agli argomenti che partono dalle scienze, dovranno esserci idee di tutte quelle cose di cui esistono scienze, e in base all’argomento dell’uno sui molti ci saranno idee anche della negazione, e infine, in base all’argomento secondo cui possiamo pensare qualcosa anche dopo che è stato distrutto, esisteranno idee anche delle cose che sono già distrutte, poiché di tali cose esiste una certa immagine. Inoltre, gli argomenti più rigorosi inducono a porre, alcuni, l’esistenza di idee dei relativi, di cui noi neghiamo che esista un genere per sé, altri portano alla difficoltà del “terzo uomo”. In generale, gli argomenti addotti per provare l’esistenza delle idee sopprimono proprio quelle cose alla cui esistenza noi teniamo più che all’esistenza delle idee; di fatti da tali argomenti risulta che prima non è la diade ma il numero, e primo non è ciò che è per sé, ma il relativo, e spuntano fuori tutte quante le conseguenze delle quali sono pervenuti alcuni seguaci della dottrina delle idee contro i loro stessi principi.
Inoltre, se si tien conto delle premesse da cui noi partiamo per affermare l’esistenza delle idee, ci dovranno essere idee non solo delle sostanze, ma anche di molte altre cose diverse dalle sostanze ( giacché è uno il pensiero che si riferisce non solo alle sostanze, ma anche alle altre cose, ed esistono scienze che hanno per oggetto non solo sostanze, ma anche altre cose, e da tutto questo derivano innumerevoli altre conseguenze di tal genere ); ma, d’altra parte, qualora noi teniamo conto della necessità logica e delle stesse opinioni di coloro che sostengono le idee, se queste ultime sono partecipabili, devono necessariamente essere soltanto idee di sostanze. Esse, infatti, non sono partecipate in via accidentale, ma di ciascuna idea si deve partecipare in quanto l’idea stessa non è predicata di un soggetto ( intendo dire, ad esempio, che se un certo oggetto partecipa del doppio in sé, esso partecipa anche dell’eterno, ma solo per accidente, perché è accidentale al doppio in sé l’essere eterno ), e di conseguenza le idee sono sostanza; ma, d’altra parte, le medesime cose significano la sostanza tanto in questo mondo sensibile quanto in quello ideale; altrimenti, quale senso avrebbe l’affermare che, oltre queste cose, c’è qualcosa, che c’è l’uno sui molti? E se le idee e le cose che di queste partecipano appartengono alla stessa specie, vi sarà qualcosa di comunque ( perché mai, infatti, dovrebbe esserci un’unica e identica diade per le diadi corruttibili e quelle matematiche, che sono molteplici ma eterne, e non anche per la dia de in sé e quella particolare? ) Se invece, la specie non è la stessa, allora tra le idee e le cose ci sarà solo omonimia, e sarà pressappoco come se si chiamasse “uomo” tanto Callia quanto la statua lignea di Callia, senza rilevare tra loro alcuna caratteristica comune.
Ma le maggiori difficoltà nascono nel caso che ci si chiedesse quale contributo mai arrechino le idee agli enti sensibili – tanto a quelli eterni quanto a quelli che nascono e periscono -, dal momento che esse non sono affatto cause né di un loro movimento né di alcun loro mangiamento. Ma esse non arrecano nessun ausilio né alla conoscenza scientifica delle altre cose ( esse, infatti, non sono la sostanza di queste, giacché, in tal caso, si troverebbero in loro ) né all’essere di tali cose, perché non ineriscono alle cose che di esse partecipano, e se, d’altra parte, esse fossero immanenti, potrebbe forse sembrare che esse ne siano la causa, come il bianco è causa della bianchezza delle cose a cui è mescolato, ma anche questo ragionamento, che fu sostenuto prima da Anassagora e poi da Eudosso e da alcuni altri, può essere agevolmente rimosse ( giacché ci vuole ben poco a raccogliere un gran numero di difficoltà insolubili da obiettare a siffatta teoria ). Né, d’altronde, è possibile dire che le altre cose derivino dalle idee, in nessuno dei modi che di consueto vengono indicati. Affermare che esse sono “modelli” e che le altre cose partecipano di esse, significa parlare a voto e uscirsene con metafore poetiche. Che così mai ciò che agisce guardando alle idee? E’ possibile che esista o si generi un qualsivoglia cosa simile ad un’altra, anche senza essere stata modellata su quest’ultima; sicché può ben nascere un uomo somigliante a Socrate, tanto se Socrate esiste quanto se non esiste; e accadrebbe lo stesso anche nel caso che esistesse un Socrate eterno. Ma vi sarebbe pure una molteplicità di modelli di una medesima cosa, epperò anche una molteplicità di idee: ad esempio, nel caso dell’uomo, vi sarebbero l’animale e il bipede, e, nello stesso tempo, l”uomo in sé”. Oltre a ciò, le idee sarebbero modelli non solo delle cose sensibili, ma anche di sé medesime, e tale sarebbe, ad esempio, il genere, in quanto genere delle idee in esso contenuto; ed in tal modo la stessa cosa sarà modello e copia. E ancora: sembrerà impossibile che la sostanza esista separatamente da ciò di cui è sostanza; epperò, come mai le idee potrebbero essere separate nel Fedone, che, cioè, le idee sono cause tanto dell’essere quanto del divenire; eppure, anche a voler ammettere l’esistenza delle idee le cose che di queste partecipano non nascono se non c’è una causa motrice, mentre, al contrario, sono prodotte molte altre cose – quali, ad esempio,una casa o un anello – di cui noi non diciamo che vi sono idee; sicché è chiaro che anche altre cose esistono e nascono mediante cause simili a quelle degli oggetti ora accennati ».
Aristotele. Il libro primo della metafisica. A cura di Enrico Berti. Laterza. Bari-Roma. 1973-2005.
Bibliografia essenziale.
Adorno F., Gregory T., Verra V., Manuale di storia della filosofia ( voll. 1 ), Laterza, Roma-Bari, 1996.
Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2000.
Aristotele, Primo libro della Metafisica, Laterza, Roma-Bari, 2005.
Mori M., Storia della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari, 2005.
Platone, Dialoghi, Einaudi, Torino, 1970.
Platone, Processo a Socrate, Demetra, Verona, 2000.
Severino E., Antologia filosofica, Rizzoli, Milano, 1988.
Severino E., La filosofia dai greci al nostro tempo, Rizzoli, Milano, 2004.
Contenuti Speciali.
Il problema essenziale.
Uno dei problemi più cardine di tutta la riflessione filosofica è la definizione delle proprietà delle, qualità essenziali, quelle che usiamo normalmente per riconoscere le cose le une delle altre, che usiamo per esplicare la natura di una cosa, che indichiamo per spiegare la realtà di un fenomeno.
La domanda può essere posta in questo modo: cosa significa “essere quadrato”? Il problema si pone in questi termini: o “essere quadrato” si predica di qualcosa, oppure “essere quadrato” è un’entità indipendente da ciò che viene predicato quadrato. Le due strade si escludono, metterle insieme implica contraddizione. Vediamo un attimo. Se dico che le proprietà sono dei “predicati”, cioè interpreto il valore della predicazione come qualcosa di estrinseco alla cosa, allora il predicato è una pura accidentalità: perché una qualità esista, deve esistere la cosa di cui si predica. In questo senso, non posso parlare di felini senza pensare che esista almeno un animale che rientri in quella categoria. In questo senso, la classe degli oggetti dotati di una certa proprietà, nasce dalla presa di coscienza che quegli oggetti hanno qualcosa di comune: ma quel che c’è di comune non ha una realtà indipendente dagli oggetti. Questo è il punto.
In altre parole chi ritiene che le proprietà degli oggetti siano dei predicati che non pongono la cosa in se stessa, allora interpreteranno le qualità ( qualità e proprietà sono sinonimi ) in questo modo:
- le proprietà non esistono indipendentemente dagli oggetti di cui sono predicate,
- le proprietà sono delle particolarità degli oggetti,
- le classi di oggetti fondate sulla comunanza di proprietà non sono entità indipendenti dagli oggetti,
- tutto ciò che esiste è l’oggetto particolare,
Il che significa che le proprietà non hanno un valore ontologico indipendente dal sostrato materiale di cui sono predicate. Da qui tutte le critiche di Aristotele, raccolte soprattutto nel primo libro della Metafisica, in particolare alla fine.
Ma un altro modo di intendere la “proprietà” è quello di interpretarle come:
- entità reali,
- extramentali,
- immateriali,
- increate,
- eterne.
Da questa seconda soluzione, si propende per un’altra visione delle cose. Le cose non sono ciò che pongono le proprietà ma, viceversa, sono le proprietà a definire l’essenza stessa delle cose. In questo senso, se si toglie una proprietà, si tolgono tutte le cose di quella proprietà: se, per assurdo fosse impossibile pensare all’idea di quadrato, dovremmo automaticamente escludere dalla realtà qualsiasi possibilità di avere un quadrato. La proprietà interpretata in questo modo “essenziale” risulta essere un’entità reale, al pari di un qualsiasi oggetto, con la differenza che l’oggetto ricade nella proprietà ma non viceversa.
Il problema: “cosa significa – essere quadrato – ?” Pone due strade del tutto diverse. Nel primo caso, si parte dalle cose per raggiungere le proprietà, nel secondo si parte dalle proprietà per raggiungere le cose.
La conoscenza di ciò che sta fuori di noi.
La soluzione del problema “cosa significa “essere-proprietà”, implica procedere in modo molto differente, a seconda di come si voglia procedere. Abbiamo detto: da un lato si sostiene che le proprietà non esistono indipendentemente dagli oggetti, dall’altro, che esse sono indipendenti dagli oggetti e costituiscono la vera essenza di quelli.
Inoltre, è bene notare che il problema si articola in almeno due questioni: prima di tutto cosa significhi “esser qualcosa”. Da un lato, coloro che propenderanno per gli oggetti, concepiranno le proprietà come in sé inesistenti. Gli altri riterranno che le idee sono entità reali indipendenti dagli oggetti[15].
La dipendenza delle proprietà degli oggetti implica che il soggetto che conosce gli oggetti, arriva a questi attraverso una relazione. Tale relazione è, per l’appunto, la proprietà dell’oggetto: se vedo una pipa marrone, l’”esser marrone” della pipa è il tramite relativo attraverso cui arrivo alla pipa stessa. D’altra parte, “l’esser marrone” della pipa non è “la pipa” e non è neanche indipendentemente dalla pipa. Infatti, se adesso, di fronte a me, non ci fosse una pipa o una sua immagine, non potrei percepire quel colore. Così, la proprietà è un mezzo, un tramite attraverso cui giungo alla conoscenza dell’oggetto. Ci sono due generi di proprietà: le proprietà essenziali e le proprietà inessenziali. Usando un linguaggio moderno ( lockeano ed entrato nel paradigma ) diciamo che ci sono proprietà primarie e proprietà secondarie: le prime sono quelle che, se tolte, non riusciamo a definire l’oggetto. Le seconde sono quelle proprietà che, pur essendoci, arricchiscono la conoscenza dell’oggetto particolare, ma, se tolte, non tolgono l’oggetto. Riprendiamo l’esempio della pipa: “la pipa marrone sul tavolo è un oggetto di legno cavo, contenente un cannello e un bocchino”. Questa definizione fa a meno della esplicazione funzionale dell’oggetto ( non dice che essa svolge un fine ) ma si attiene alle sole proprietà essenziali attuali dell’oggetto in se stesso.
Ora, il fatto che esso sia “cavo”, “contentente un cannello” e “un bocchino” sono tutte proprietà essenziali della pipa: se nego che sia cavo, nego che all’interno della pipa ci possa stare il tabacco. Se nego che ci sia un bocchino nego una parte della pipa che la rende tale e così via. Per quanto riguarda il sostrato materiale “legno” è fondamentale per descrivere la pipa “marrone che sta sul tavolo” ma non è una proprietà essenziale di tutte le pipe: ci sono pipe di molti materiali diversi.
Ma l’esempio più chiaro di proprietà secondaria è l’”esser marrone”. Sapere che la mia pipa è marrone ( in realtà è striata, con una parte più nera, bruciata per via della fiamma, a venature di marrone più caldo, tendente al rossiccio ) non dice alcun che della pipa.
Ciò diventa particolarmente evidente qualora proceda a negare le proprietà: se dico “la mia pipa sul tavolo non è marrone, è di legno cavo, ha un bocchino…” non ho negato la pipa stessa: la definizione nuova non è contraddittoria, cosa che sarebbe stata se avessi detto “la pipa sul tavolo non è cava…”.
In conclusione, per chi ritiene che le proprietà non siano che attributi particolari di particolari oggetti, esse non saranno che delle proprietà, più o meno accidentali, del particolare. In questo senso, pensare alle proprietà come indipendenti dall’oggetto è assurdo in quanto esse o sono nell’oggetto o non causate da esso e, dunque, in ogni caso, sono negate immediatamente una volta che nego l’oggetto.
L’altra prospettiva è diametralmente opposta: se le proprietà sono delle “essenze”, allora sono indipendenti dall’oggetto. Una proprietà o è dipendente dall’oggetto oppure non lo è, ma se non lo è allora deve essere considerata come un tutto indipendente, a se stante. La relazione tra proprietà e oggetto è la stessa che intercorre un punto rispetto al piano, o un oggetto di una particolare categoria rispetto alla categoria stessa: la classe di tutti i gatti non è un gatto. In altre parole, l’insieme dei gatti non è un gatto.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: queste “essenze” che cosa sono e, soprattutto, come arriviamo a conoscerle? La risposta implica molte prese di posizione anche perché le implicazioni sono molte. In primo luogo, l’”essenza” per Platone è un’idea ed attiene ad un regno a se stante. In secondo luogo, l’idea non muta e rimane sempre uguale a se stessa: il contrario implicherebbe contraddizione, in quanto non posso ammettere che “l’esser quadrato ora” sia diverso da “esser quadrato domani”. In effetti, “esser quadrato” è una proprietà che non esprime un fatto ma una particolare configurazione geometrica e le configurazioni geometriche definiscono spazi, non tempi. D’altra parte, tutto ciò che partecipa ad un’idea specifica, mantiene quella determinata caratteristica: la cosa, non l’idea, cambia. La cosa può anche cambiare proprietà, non la proprietà stessa. In questo senso, si vede come alcune proprietà siano “uniche” mentre altre abbraccino al loro interno altre proprietà: l’idea di “quadrato” implica l’idea di “linea” giacché senza l’una non si da l’altra ma l’idea di “linea” è più generale dell’idea di “quadrato” in quanto la linea implica più enti geometrici.
Come si vede, la concezione delle proprietà come entità indipendenti rispecchia la visione della conoscenza come un che di deduttivo e organicamente organizzato: le idee procedono per astrazione sempre crescente, astrazione che è anche generalizzazione. L’unità e l’universalità della conoscenza sono le due grandi “proprietà” della dottrina delle idee.
I due problemi di questa teoria sono:
(i) come arrivare alle idee,
(ii) quale relazione c’è tra le idee e le cose.
In realtà, il problema è abbastanza grosso ed è evitato molto facilmente dagli avversari di tale impostazione di pensiero: in quanto le proprietà sono dei “tramite” per arrivare all’oggetto, di fatto queste sono date immediatamente, mentre mediatamente è dato l’oggetto. Il problema di come arrivare alle proprietà non c’è perché esse sono poste immediatamente tra noi e l’oggetto: tale mediazione delle proprietà è dovuta al fatto che soggetto e oggetto non sono due realtà discontinue ma sono simili. Per quanto riguarda il secondo problema, gli empiristi risponderanno che le idee sono poste dalle cose stesse attraverso le sensazioni che riceviamo dalle cose: in altre parole, la “relazione” tra idea e cosa è, nell’empirismo, un’implicazione logica: “Se vedo allora ho una certa idea”.
Entrambe le soluzioni empiriste non sono possibili per chi sostiene la separazione ontologica tra idee e cose: da un lato perché si mischierebbero entità differenti, in secondo luogo perché il rapporto tra idee e cose non può essere di implicazione logica in quanto ci sarebbe, appunto, quella continuità di caratteristiche che non può esserci, a meno di entrare in contraddizione.
Platone risolve il problema della conoscenza ideale attraverso la reminiscenza, da un lato e della dialettica dall’altro. L’idea della reminiscenza è semplice: noi conosciamo le idee in quanto noi le abbiamo in qualche modo già in noi: ciò non implica che le idee siano “dentro di noi” ma semplicemente che noi possiamo arrivare a quelle senza passare né per i sensi né per le cose. In questo senso, è solo l’attività del soggetto che è capace di giungere alle idee: un’attività pura che non implica l’ausilio dei sensi. Da qui, la versione cartesiana delle idee e della “mente”. Platone concepiva le idee come entità fuori di noi, ma costruisce l’argomento in maniera tale che sia simile, per principio, a quello di Cartesio: la conoscenza è innata nel senso che è a prescindere dall’esperienza che, anzi, ci allontana dalla conoscenza adeguata del mondo.
Anche l’approccio dialettico può portare alla conoscenza delle idee nel senso che può portare ad un progressivo disvelamento delle idee nella loro unicità e distinzione. D’altra parte, solo l’intelletto può direttamente attingere alla dimensione ideale della realtà.
Lo scopo della dottrina delle idee è quello di giustificare la nostra conoscenza deduttiva e il carattere atemporale e universale di questa. In questo senso, tutti quelli che ritengono che la conoscenza dipenda esclusivamente dai sensi, ammettono un relativismo radicale in sede epistemologica e, di fatti, di questi pensatori non ce ne sono tanti perché implica, paradossalmente, rinchiudere il soggetto all’interno di se stesso non dal punto di vista delle idee ma da quello delle percezioni. D’altra parte, coloro che accettano la tesi che la nostra conoscenza inizi nei sensi e proceda comunque attraverso essi, ammettono che la conoscenza non sia mai un che di stabilito definitivamente.
Eppure, esiste un certo livello in cui la nostra conoscenza è effettivamente stabile e universale. Ciò è testimoniato sia in sede pratica che logica. Quale delle due visioni sia vera, è difficile dirlo, visto che due millenni e mezzo non sono bastati a dare una risposta definitiva.
[1] Vedi gli approfondimenti nella scheda su Parmenide.
[2] Abbiamo spiegato il motivo.
[3] Platone avrebbe ammesso una divisione infinita della materia, con tutta probabilità: egli sarebbe partito dal punto di vista “quantitativo”, matematico per dedurre il principio di infinita divisibilità.
[4] Entità qualunque: possono essere anche altre idee.
[5] Ciò è evidente dalla “Specifica a” e “b”, appena sopra.
[6] Ciò è evidente: un corpo si muove a partire da un altro che lo spinge. Se un corpo è immobile, permarrà in quello stato sin tanto che una forza esterna non ne muti lo stato di quiete. Dunque, la causa efficiente riguarda i corpi.
[7] Vedi sopra.
[8] Ciò è posto dalla natura del nesso causale tra soggetto e oggetto.
[9] Intendendo con “razionale” colui che conosce le idee o attraverso dialettica o attraverso intelletto, immediatamente.
[10] Sono molte, in realtà, ma le più importanti e le più indagate sono sostanzialmente di due generi.
[11] In effetti l’idea di “grande” e “piccolo” in Platone, corrisponderebbero alla proprietà universale dell’estensione dei corpi.
[12] Dunque sono eterne e sempre identiche a se stesse.
[13] Per avere un’idea chiara del problema, rimandiamo alla scheda di Parmenide.
[14] Il mondo delle idee non esaurisce il mondo della materia in quanto in questa c’è sempre un che di sfuggente ed indeterminato che non si lascia riassumere pienamente nel mondo delle idee. Il demiurgo di Platone non è, infatti, capace di stabilire l’esatto ordine ideale nel mondo, sebbene egli sia un bravissimo artigiano. Questo perché tra l’azione eroica e l’idea di eroicità c’è sempre un certo scarto che fa sì che le due cose non siano mai riducibili l’una all’altra.
[15] Le possibilità di soluzione del problema in ambito platonico sono diverse ma tutte nascono da questa contraddizione, rilevata, per altro, da Aristotele: che non esiste continuità “essenziale” tra “idee” e “oggetti”. Prendendo atto della distinzione radicale tra i due “generi” di cose esistenti, si deve riuscire a dare una versione “conciliata” dei due “regni”.
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