“La cura di sé, prende forma, e non può che formarsi, a partire da qualche riferimento all’Altro.”
-M. Foucault L’ermeneutica del soggetto
Il concetto di “cura di sé” è decisamente molto più complesso rispetto all’attuale mania dal retrogusto vagamente yuppie di frequentare le palestre, comprarsi l’orologio e le scarpe capaci di misurare le calorie che perdiamo mentre pensiamo di fare attività fisica, mangiare solo frutta verde o contare ogni grammo che ingeriamo. “Niente di troppo”, “Conosci te stesso” e “Prenditi cura di te”, questi i tre precetti delfici, la cui origine e attribuzione era motivo di dibattito già nell’antichità. In particolare l’ultimo, “Prenditi cura di te”, prima di essere lo slogan di una fin troppo nota catena di cosmetici, era uno dei più evocativi, come è oggi uno dei più densi e misteriosi a livello di significato. Originariamente cosa voleva dire prendersi cura di sé?[1]
Secondo gli antichi greci il precetto morale in questione andava inteso come un certo modo di considerare se stessi, una forma di attenzione, di “sguardo interiore” rivolto al nostro modo di vivere, di scegliere, di agire, di stare al mondo; di conseguenza, il prendersi cura di sé si evolveva anche in un certo numero di azioni per mezzo delle quali era possibile la modificazione e la trasformazione delle proprie nocive abitudini, mentali e non. Per prendersi cura di sé, scrive Michel Foucault nel saggio L’ermeneutica del soggetto, “diventa necessario lavorare per espellere, espurgare, padroneggiare, affrancarsi e liberarsi da un male come quello che si trova all’interno di ciascuno di noi”. Non è di certo un processo facile da mettere in pratica, in quanto bisogna essere in grado di farsi allo stesso tempo, soggetto e oggetto della cura:
Ti devi occupare di qualcosa che si identifica con te stesso, che è la stessa cosa di te stesso, [la stessa cosa] del soggetto che “si occupa di”: ti devi occupare di te stesso come oggetto.[2]
Dato che spesso però può risultare difficile riuscire a distinguere e a non far coincidere il soggetto dell’azione con la semplice somma delle azioni compiute, tali azioni possono comportare un disagio verso se stessi, un’incomprensione, una situazione di disorientamento; è qui allora che deve subentrare un ulteriore sguardo. Uno sguardo esterno che però fungerà da canale districante e da espediente terapeutico: l’incontro con la parola dell’Altro.
La cura di sé infatti è qualcosa che necessariamente deve passare attraverso il rapporto con qualcun altro, qualcun altro che sia in grado di prendersi cura della cura che si ha di se stessi, una persona che in maniera totalmente slegata da qualsiasi scopo utilitaristico, funga da forza centripeta e alimentatrice della cura che avremo nei nostri riguardi. Il “prenditi cura di te” si ribalta paradossalmente in un lasciare che qualcuno si prenda cura della nostra cura e la dimensione che lo renderà possibile è la dimensione dialogica, in grado di porre in atto un incontro con l’altro non più caustico e traumatico ma benefico e terapeutico.
Già anticamente si riconosceva il potere terapeutico nel dialogo, sia del soggetto con se stesso[3], sia con un altro, in grado di attuare “una trasformazione totale della sua rappresentazione del mondo, della sua atmosfera interiore, ma anche del suo comportamento esterno[4]”.
La questione non è banalmente ciò di cui si parla, ma colui che parla, un soggetto che trascinato in una serie di considerazioni si ritroverà infine a dover rendere conto di sé, rispetto al modo in cui si è vissuta la propria esistenza fino ad oggi. Nonostante sia considerabile dialogo anche il parlare a se stessi, è, come anticipato, il luogo dell’Altro che permette la messa in scena del discorso “trasformante”, che impedisce alla parola di essere cantilena indistinta e confusa per permetterle invece, di condurre ad un nuovo atteggiamento mentale.
Il potere trasformante della parola dell’Altro potremmo cercarlo in un altro antico concetto: la parresia, una sorta di regola del gioco che prescrive un principio di comportamento verbale da tenere all’interno del rapporto a due. Franchezza, apertura di cuore, apertura del pensiero. L’altro che allora ci si prospetta di fronte è un “personaggio incerto, un po’ fumoso e fluttuante[5]” che Michel Foucault, in Il coraggio della verità, presenta come una sorta di antenato del confessore, dello psicanalista o del consulente: il parresiastes, letteralmente “colui che dice tutto”.
Foucault esponendo la sua genealogia del concetto di parresia, mostra come essa si contrapponga del tutto alla retorica: non è infatti una tecnica, non forma professionisti, è più che altro un’attitudine virtuosa, che si estende da ciò che diciamo a ciò che siamo.
Per inquadrare ancora meglio la parola del parresiastes e per andare a definire contorni sempre più precisi alla parola che si dimostrerà terapeutica, possiamo contrapporla ad altre tre forme di dire-il-vero illustrate dal filosofo nel libro sopracitato:
-la profezia: la forma tipica del poeta che dice una verità ma che non è la sua, bensì è mediazione tra la parola di Dio e gli uomini che l’ascoltano; è mediazione tra il passato e il futuro, ascoltando parole che gli altri non possono e non riescono nemmeno a sentire; la sua verità non è chiara e trasparente ma è sempre enigma che va reinterpretato e di cui il profeta si fa interprete esterno. Il parresiastes invece, come si è visto, si esprime sempre in modo limpido per quanto anche la sua parola possa avere funzione di prescrizione.
-la saggezza: il dire-il-vero del saggio che vive appartato e parla solo raramente e solo se interpellato. Non è mosso da alcuna responsabilità generosa, non è e non si sente costretto a parlare; se il profeta parla di ciò che avverrà, il saggio dice ciò che è, ma circa il mondo e tutte le cose; la sua parola assume valore prescritto ma nella forma di un principio generale, il parresiasta invece non vive isolato e il suo dovere al contrario è quello di parlare del e all’individuo di condizioni particolari in rapporto alla sua singolarità.
-l’insegnamento: i detentori di questo dire sono individui in possesso di un sapere e/o di un saper-fare capaci di trasmetterlo agli altri. Medici, musicisti, artigiani, professori che hanno un certo “dovere di parola” in quanto in un certo senso sono tenuti ad esprimere ciò che conoscono. Al contrario del saggio ma in comune con il parresiasta quindi, l’insegnante sente l’obbligo e la responsabilità di parola ma al contrario di quest’ultimo non si assume nessun rischio, non ha bisogno di dimostrarsi coraggioso, in quanto non rischia mai di provocare la rottura del rapporto con chi lo ascolta ma anzi si apre alla possibilità di creare un legame con l’altro basato sulla filiazione del sapere.
Il parresiastes invece, “può essere un filosofo di professione ma anche un individuo qualsiasi[6]”, è sempre colui che dice tutto, senza remore, senza indietreggiare, senza nascondere nulla. Si fa mediatore per il disvelamento della verità del soggetto esprimendo la sua opinione e mettendo in gioco le proprie conoscenze, soprattutto quelle ritenute più pertinenti ai fini della cura della cura di sé, permettendo così la trasformazione, la modificazione e il miglioramento del soggetto.
Il lato forse più interessante della “fisiologia” di questo affascinante concetto, è che all’interno della parresia si nasconde il fondamentale carattere di negatività creatrice compreso nel rapporto a due. Continua infatti Foucault:
Bisogna che il parresiastes, esprimendo una verità che coincide con il suo pensiero, con la sua credenza, assuma un certo rischio: un rischio che riguarda la relazione con il suo interlocutore. Poiché vi sia parresia, bisogna che chi dice la verità apra, introduca e affronti il rischio di ferire l’altro, di irritarlo, di farlo andare in collera e di provocare certi suoi comportamenti che possano spingersi fino alla violenza più estrema.[7]
È la parola trasparente del parresiastes a disvelare tutte le possibilità. E questo è possibile solo nell’incontro-scontro con il diverso da me, con l’altro del tutto diverso, perché è solo nel diverso che è possibile uscire dall’uguale e porre in atto la trasformazione del modo d’essere. È la negatività dell’Altro che costituisce l’esperienza e “fare esperienza significa che qualche cosa ci incontra, ci accade, ci sconvolge e ci trasforma[8]”; questo perché il parresiastes con il suo parlar-franco, con la sua parola Piena, è in grado di liberare l’Io dall’invischiamento narcisistico e da una comprensione sempre identica di sé e del mondo, sapendo affrontare anche il rischio di ferirlo.
Facendo sì che tutto appaia in una luce diversa, la parresia mette letteralmente a repentaglio la relazione tra i due e dell’uno con se stesso, rischiando la rottura e lo scioglimento del rapporto; la verità ha un prezzo che si misura in coraggio: il coraggio del dire tutto di chi parla e il coraggio di chi ascolta di sopportare ciò che gli viene detto.
“Bisogna essere disposti a esporsi all’alterità e all’estraneità dell’Altro, sottraendosi a qualsivoglia assicurazione[9]”, aprendosi alla possibilità della creazione di un legame forte e costitutivo tra colui che parla e colui a cui parla che permetterà l’attuazione di processi trasformativi. L’incontro dialettico con la parola franca dell’Altro-parresiastes infatti ha come risultato la rimessa in discussione da parte del soggetto di una rappresentazione di sé, unificata e identitaria, e la riconsegna del soggetto alla verità della contingenza del suo essere: così si definisce la responsabilità che l’altro[10] si assume nei nostri confronti, tramite la sua parola.
L’antica nozione di parresia allora potrebbe essere l’elemento a cui fare ricorso affinché l’individuo possa dis-velarsi come soggetto che si confronta con la propria verità, con il dire-il-vero su di sé, aprendosi così alla possibilità della modificazione.
Ancora prima che all’alterità infatti, il linguaggio ci mostra a noi stessi e da una conoscenza più autentica non può che costituirsi una rimarginazione delle contraddizioni, quindi una cura del e di sé.
Profilando una rappresentazione della parresia strettamente legata all’ambito etico (che ha cioè, come principale punto di applicazione un modo di fare, di essere e di comportarsi degli individui tra di loro) vediamo come il concetto del prendersi cura di sé si sia paradossalmente aperto alla dimensione intersoggettiva, tornando così ad essere molto più di quanto non sia sulla confezione dello shampoo.
[1]Per un’indagine approfondita sulle origini e sui significati delle tre massime vedi: Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2016.
[2] Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2016, pag. 47.
[3] Ci si riferisce per esempio alle tecniche di meditazione, di memorizzazione del passato o alle tecniche per l’esame di coscienza, anch’esse nominate nel saggio sopracitato.
[4] Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2005, pag. 37.
[5] Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, pag. 19.
[6] Ivi, pag. 22.
[7] Ivi pag. 23.
[8] Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1979, pag. 127.
[9] Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Milano 2012, pag. 84.
[10] L’Altro con la maiuscola è un concetto di matrice lacaniana e si riferisce ad un altro che non è un simile e che costituisce un campo radicalmente antecedente ed esterno rispetto al soggetto.
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