La dignità è una parola che viene usata ordinariamente per indicare il riconoscimento del diritto di esistere, ovvero non esattamente il diritto in sé quanto la sua attribuzione a qualcuno. Eppure, definire la dignità è un problema non ordinario proprio perché sembra che la parola sia un valore elementare e inalienabile dell’individuo umano. Eppure molto del dibattito pubblico incentrato su questo termine risulta piuttosto insoddisfacente. Non è mio interesse qui fare una analisi storica del concetto, ma vorrei proporre alcune distinzioni e chiarificazioni su questo termine per poi proporre una posizione in linea con l’approccio morale neo-kantiano che ho proposto in altro loco.
La dignità è una parola ambigua perché identifica due generi diversi di proprietà. Anche senza ancora definire la parola, si può distinguere un uso de re da un uso de dicto della dignità. In un caso, la dignità è attribuita da qualcuno a qualcun altro o a qualcos’altro (uso de dicto). Nell’altro caso, la parola viene invece considerata nell’oggetto (de re), ovvero il fondamento ultimo della sua ragion morale. Alcune parole ammettono una distinzione de re e de dicto che, però, non si distinguono così tanto nettamente: posso attribuire una credenza a Giulio Cesare (uso de dicto della parola “credenza”) che è anche proprio in Giulio Cesare (uso de re della parola). Per rendere invece evidente il caso di divergenza dei due tipi di uso, ad esempio quando attribuisco una credenza ad un organismo molto semplice (“un virus crede di farla franca rispetto al sistema immunitario”…) sto usando la parola “credenza” in senso de dicto ma non de re (un organismo unicellulare non ha credenze). Nel caso della parola “dignità” le cose stanno diversamente. Infatti, posso attribuire dignità anche ad altri esseri o oggetti nei quali non si può dire che la parola assuma lo stesso significato che nel caso in cui essa venga applicata (per esempio) a se stessi. Posso attribuire una certa dignità ad un cane ma la mia dignità è qualcosa di connaturato a me stesso ed è presente anche se nessuno me la riconoscesse.
La dignità, in generale, è una proprietà inalienabile del soggetto umano in quanto soggetto morale. Non trovando alcuna particolare ragione in una limitazione di principio alla nozione di dignità al solo soggetto umano, si può dire che la dignità è una proprietà essenziale di ogni soggetto morale, quale che sia la sua natura. Gli esseri umani sono sicuramente soggetti morali e quindi hanno dignità. Ci potrebbero essere un giorno soggetti morali diversi da quelli umani e, nel caso, la dignità è una loro proprietà. In questo trattamento intuitivo della parola “dignità” essa non designa niente di specifico se non il fatto che se un soggetto è un soggetto morale, allora ha una certa proprietà che gli compete (uso de re della parola). Allo stesso tempo, la parola può essere usata propriamente in senso de dicto qualora essa venga attribuita ad un soggetto morale. Quando uso la parola “dignità” in modo corretto, la sto applicando ad un soggetto morale.
Data la vaghezza della parola, non sorprende che le intuizioni sui suoi significati siano così eterogenee. Da una parte, sembra che la dignità sia essenzialmente connaturata al soggetto morale, quale che sia l’esercizio della sua moralità. Da un’altra parte, però, sembra che la dignità di un soggetto morale dipenda invece proprio dal suo grado di virtuosità morale. Nel precedente paragrafo, abbiamo fornito un criterio di uso della parola, la quale identifica una proprietà di un certo tipo di soggetto morale, quale che sia la sua natura. Ma un soggetto, per essere morale, richiede alcune caratteristiche, tra le quali c’è la capacità di formulare leggi di ragione, ovvero norme di comportamento alle quali il soggetto è capace di uniformarsi in virtù della loro sola formulazione. Ovvero, se un soggetto è in grado di formulare una legge ed è in grado di uniformare il suo comportamento sulla base di essa, anche solo in linea di principio, allora egli è un soggetto morale.
Il fatto che un soggetto sia in grado di formulare leggi morali, qui intese semplicemente come norme a cui il soggetto si conforma, non significa ancora che lui sarà coerente con esse né che le sue leggi saranno formulate bene. Con “coerente” qui si intende “conseguente” nel senso di essere capace di tradurre in azione il proposito formulato linguisticamente sulla base della stessa legge. Ovvero, perché un soggetto sia morale non c’è alcun bisogno che egli sia anche capace di formulare giudizi morali retti o, alla Kant, imperativi categorici morali. E’ richiesto molto di meno: egli deve essere in grado di formulare delle leggi alle quali almeno ipoteticamente si vorrebbe uniformare se ci riuscisse. L’idea, dunque, è che la formulazione della legge, concepita in questo senso come catena causale interna al soggetto o la cui responsabilità dipende da lui, abbia appunto delle conseguenze di natura causale: la mente del soggetto, attraverso la formulazione di credenze normative (leggi) è capace di causare il comportamento, qualora il soggetto impieghi quelle credenze per questo.
L’argomento prescinde dalla bontà delle leggi e dalla loro formulazione. Per questo, comunque, il soggetto morale è un soggetto linguistico, nel senso che ha bisogno del linguaggio per formulare le sue leggi. Inoltre, questo linguaggio deve essere un linguaggio naturale perché deve consentire la formulazione di regole la cui interpretazione e la cui applicazione può variare contestualmente (anche un’ottima legge buona può essere tale solo se interpretata correttamente nella situazione reale). Infine, la formulazione di leggi morali buone richiede una particolare attività della ragione, nella misura in cui non ogni legge è buona rispetto alla moralità e la moralità di una persona dipende dalla capacità di questa di comprendere ciò che deve fare di buono e ciò che non deve fare di cattivo, quali che siano le nozioni di buono o cattivo impiegate. Qui non ha molta importanza quanto il fatto che il soggetto sia comunque in grado di pervenire a queste formulazioni.
Un soggetto morale è tale se può formulare leggi morali e, per questo, il soggetto ha una capacità linguistica sufficiente da consentirgli il corretto impiego (sintattico e semantico) a uso della ragione morale. Questo è tutto e solo ciò che è richiesto da un soggetto morale per esser tale. Qualsiasi essere che ricada all’interno della definizione di soggetto morale, ora delineata, ha come proprietà la dignità. Ma allora ogni soggetto morale è dignitoso?
Per rispondere a questa domanda, vorrei proporre una seconda distinzione. E’ legittimo considerare Hitler dotato di dignità? Questa è una domanda categorica, cioè ammette un giudizio con un tertium non datur. Se Hitler è considerabile un soggetto morale, allora la risposta sembra essere affermativa: non c’è dubbio che anche Hitler doveva avere una sua dignità. Eppure sembra che questa risposta sia controintuitiva (non necessariamente un gran problema) ma, soprattutto, non sembra essere soddisfacente. E infatti non lo è. Dire che Hitler aveva una sua dignità è soltanto un fatto puramente formale, cioè una conseguenza della sua capacità di formulare linguisticamente principi che lo vincolino nell’azione. Nessuno meglio di Hitler mostra così bene il fatto che essere soggetti morali in questo senso non conduca necessariamente ad essere soggetti morali virtuosi. Questo come si ripercuote sulla dignità?
La domanda “se x è un soggetto morale, allora x ha sempre una sua dignità?” la risposta è affermativa ma da un punto di vista formale. Egli ha la proprietà della dignità che gli compete in quanto soggetto morale. Ma la dignità da un punto di vista sostanziale non dipende solo da questo. Per tracciare un’analogia, un locale di ristorazione è così definito da quanto prescritto dalle norme del legislatore in fatto di ristorazione, ma questo non significa che suddetto locale sia anche un buon locale di ristorazione né che sia meritevole di essere considerato come tale. Quindi, il fatto che una parola abbia un uso prettamente formale non spiega o non elimina il problema della sua sostanza.
Un soggetto morale acquisisce una sua dignità nel momento stesso in cui inizia a formulare principi di ragione ma questa sua dignità è puramente formale. Questo significa che dalla semplice dignità formale non segue alcun privilegio particolare nella valutazione di quest’essere da un punto di vista morale. Se il soggetto morale, invece, assume delle regole di comportamento il cui fine è buono (quale che sia la nozione di buono) allora non solo egli ha una sua dignità in senso formale ma sta anche convertendo tale forma in sostanza. Ovvero, le sue azioni, risultato dell’applicazione della ragione morale ai problemi della vita, sostanziano la sua “fedina morale” la quale assume tanto maggior rilievo quanto queste azioni sono ottenute mediante l’intenzione tradotta in regola di fare del bene. Allora la domanda “se x è un soggetto morale, allora x ha sempre una sua dignità” ammette una risposta triviale se il senso della dignità qui impiegato è quello formale, ma non ammette una risposta ovvia se invece il senso della dignità è quello sostanziale. In fatti, per argomentare se un soggetto sia formalmente dignitoso occorre un tipo di argomento diverso rispetto al tipo di argomentazione impiegata per discettare il suo essere sostanzialmente dignitoso. In un caso, si tratta di un argomento di metaetica, in un altro caso si tratta di un peculiare tipo di spiegazione che, alla fine, fondi un giudizio normativo neppure categorico.
Per questa ragione, dunque, la dignità è una proprietà triviale e non triviale allo stesso tempo perché l’uso della parola “dignità” ammette una scissione netta tra dimensione formale e sostanziale. Quindi, ancora, nel caso di Hitler la risposta è paradossale: Hitler aveva una sua dignità pur essendo questa totalmente priva di sostanza. Una scatola vuota non cessa di essere qualcosa che può essere utile, così la dignità formale non cessa di avere una sua rilevanza. Infatti, essa costituisce un limite all’azione dei soggetti morali i quali riconoscono come limite all’azione almeno la dignità formale degli altri. Ovvero, tutti i soggetti morali hanno dei doveri anche nei confronti di soggetti morali che hanno solo la dignità formale, nel caso in cui questi siano, per esempio, moralmente cattivi. Si tratta però di doveri di minimo, quelli cioè che garantiscono il non annullamento della dignità formale da parte del soggetto morale agente.
Non è affatto un caso che nelle frasi in cui il soggetto è dotato esclusivamente di dignità formale (come nel caso di Hitler) l’uso della parola “dignità” è impiegato come “de dicto” perché un soggetto morale fatica a riconoscere una dignità, anche formale, al soggetto moralmente depravato. Mentre si usa la dignità, nel suo senso de re, tanto più si consideri un soggetto moralmente buono. Questo non è un caso, perché per fare il bene, come visto, occorre una precisa catena causale parte della mente del soggetto che inizi in una credenza e finisca in un’azione: la responsabilità morale è interamente riconosciuta come parte di ciò che costituisce il soggetto ed è a questo ascrivibile tanto più egli è capace di autodeterminare il suo proprio comportamento. Quindi, se anche chi fa il male con intenzione non può dirsi del tutto privo di dignità, comunque questo significa soltanto che un soggetto morale ha dei limiti nei suoi riguardi. Mentre un soggetto morale formula e riconosce un’importanza preminente a soggetti sostanzialmente dignitosi, nei cui riguardi si assume maggiori doveri e maggiori responsabilità.
Questa teoria della dignità consente alcune conseguenze collaterali affatto irrilevanti. In primo luogo, l’uomo è un soggetto morale e, dunque, ha una sua dignità almeno formale. Questo, però, è proprio degli uomini in quanto parte degli esseri capaci di formulare leggi (che siano di ragione morale o meno). Quindi, ogni uomo ha dei doveri nei confronti di tutti gli altri, quale che sia la natura della dignità degli altri. Tuttavia, non tutti i doveri sono uguali. Un uomo nei confronti di un uomo dignitoso solo formalmente ha dei doveri minimi e non c’è nessuna altra ragione per cui si dovrebbe prendere cura di oltrepassare questi doveri. Ad esempio, egli ha il dovere di non ucciderlo, perché sopprimendolo, annullerebbe anche il suo essere soggetto morale, il che è chiaramente moralmente un male. Ma non ha alcun dovere di aiutarlo, se con ciò si intende un’azione diretta a procurargli un bene che non sia dovuto a qualche altra ragione precisa. L’idea è che la dignità formale di per sé non consegue a generare infiniti doveri ma, semmai, soltanto i minimi indispensabili per non degenerare in azioni morali viziose. Si tratta, tendenzialmente, di doveri la cui formulazione è a sua volta puramente formale.
Mentre un uomo di ragione accondiscende a ulteriori doveri nei confronti degli uomini dotati di dignità. Infatti, egli riconosce il valore della sua stessa condizione a coloro i quali vivono, nonostante tutto, al di là della condizione di minimo. Ed essendo quest’ultima la condizione standard degli esseri umani, la virtù altrui è meritevole di riconoscimento e attenzione, cioè di essere coltivata. Se nel primo caso si tratta di “doveri tristi”, cioè di doveri che un soggetto si assume per il solo fatto di non ricadere anch’egli al di fuori della moralità, nel secondo invece si tratta di “doveri felici” perché all’azione del dovere ne consegue il massimo grado di valore morale possibile (un soggetto fa del bene ad un altro che a sua volta fa del bene). Essere felici è un dovere nei confronti di se stessi e anche degli altri. Se i doveri tristi conseguono nel rendere il soggetto felice di non essere immorale, solo i doveri felici conseguono invece nella piena soddisfazione del soggetto morale perché egli, in questo modo, riesce a esercitare ogni parte di se stesso per il bene generale: egli non solo fa il bene dell’altro, ma anche il proprio perché esercita la sua moralità nella duplice direzione di rendere massimamente dignitoso se stesso e l’altro soggetto morale.
Tutto questo sembra suggerire che animali (incapaci di uso della ragione a partire dal linguaggio naturale) e l’ambiente non godano di dignità. Sicuramente c’è un senso in cui usare la parola dignità in questo modo è inappropriato. Tuttavia, dire che un essere o un oggetto non ha dignità, non significa dire né che non ha valore né che non ha diritti. Nel caso degli animali, per esempio, essi sicuramente hanno dei diritti perché io, come soggetto morale, attribuisco loro il diritto di soffrire il meno possibile (per esempio) perché sono passibili di percepire piacere e dolore e il dolore gratuito lo concepisco come un male. Ma questo ancora non li rende soggetti morali nel senso visto prima. Non bisogna allora fare confusione. Un discorso analogo vale per tutti i soggetti umani che, nella loro forma attuale, non sono dotati della capacità di formulare leggi di comportamento alle quali si vorrebbero uniformare, se soltanto potessero. I bambini sotto una certa età sicuramente non hanno questa possibilità. Tuttavia, niente nega una certa tolleranza nel senso che è lecito attribuire loro una certa dignità sui generis formale, la quale però prende una forma peculiare perché essi finiranno per diventare soggetti morali in senso proprio. E infatti ai bambini non si attribuiscono responsabilità morali se non dopo una certa età e in una certa misura. Di nuovo, dato il fatto che la dignità sostanziale si consegue soltanto traducendo la propria soggettività morale in azione, solo con il tempo la storia dell’individuo dirà quanto e fino a che punto egli è stato un soggetto morale virtuoso.
La dignità è una proprietà dei soggetti morali, quale che sia la loro natura. Ma questo senso della dignità è solamente formale e non è discriminante come valore morale positivo ma solo come limite negativo. Quindi, il fatto che si è esseri umani, in quanto soggetti morali, non consegue ad alcun che di meritorio. Non c’è niente di buono al di fuori dei soggetti morali virtuosi, ovvero buoni. Quindi, la dignità morale è qualcosa che si acquisisce e si guadagna, secondo il principio che per essere al mondo non è richiesto né è stato richiesto alcuno sforzo di sorta ma per guadagnarsi il merito morale di avere un proprio valore positivo ci vuole molto sforzo. E il fatto che la dignità sostanziale si acquisti a caro prezzo non è l’indice della sua impossibilità, ma solo della sua qualità.
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