In più, la dittatura fascista (al pari di tante altre) era profondamente corrotta: i tirapiedi di Mussolini avevano il muso in tutte le mangiatoie. Se è vero che le élite di governo sono sempre avide, è anche vero che alcune lo sono più di altre. Sotto il fascismo prosperavano i rapporti clientelari, e quella forma di referenza nota come “raccomandazione” costituiva una componente ineludibile della vita sociale. Come tattica per farsi strada nella vita, Roberto Farinacci, fascista per antonomasia, prototipo del ras rude e coriaceo, non indicava una qualche professione di fede ideologica, ma una ben comune panacea: “io non dimentico mai gli amici”.
Richard J. B. Bosworth
L’Italia di Mussolini dello storico australiano, Richard Bosworth, è un libro edito per la collana dei classici della storia, i prestigiosi Meridiani della Mondadori. Si tratta di un libro peculiare e sicuramente è una lettura che arricchisce il lettore. Il testo, infatti, non si presenta come una ricostruzione cronologica del solo regime o la biografia di questo o quel gerarca (Bosworth, per altro, è autore di una biografia di Mussolini). Non si tratta propriamente di una storia sociale. Il testo è una restituzione della polifonia italiana durante il periodo fascista.
L’obiettivo del libro non è quello di proporre una “storia unitaria” del regime o dell’Italia fascista. Lo storico si prefigge, invece, l’obiettivo di mostrare la molteplicità degli aspetti del regime “totalitario” fascista, attraverso la narrazione di tante storie. La narrazione è resa unitaria perché segue l’evoluzione del regime e della storia italiana in modo cronologicamente rigoroso e segue sostanzialmente delle grandi categorie storiche. Tuttavia, i capitoli si imperniano su una ricostruzione dal basso, della vita dei singoli cittadini durante gli anni della dittatura. Questo rende il libro estremamente piacevole da leggere e, sicuramente, non del tutto convenzionale. La figura del Duce non è al centro del libro, come non lo è la prassi politica. Il mondo politico del fascismo e dell’Italia viene mostrato in modo indiretto ma non meno chiaro e incisivo.
Quanto emerge dall’analisi di Bosworth è che il regime fascista era, per certi aspetti, in linea di continuità con l’Italia liberale: “Per l’Italia liberale alcuni storici parlano correntemente di democrazia. Eppure si trattava di una società ben lungi dall’aver raggiunto libertà, uguaglianza e fratellanza”.[1] Per quanto sia vero che uno stato liberale non è necessariamente democratico, rimane il fatto che l’Italia di Giolitti somigliava poco a una democrazia compiuta e il fascismo si era poggiato fortemente su questi elementi di continuità per arrivare al potere. L’Italia di “liberale” sembra, dunque, aver avuto molto poco. Per esempio, non è mai stata “liberale” dal punto di vista economico, perché l’iniziativa economica è stata spesso nelle mani dello stato molto più che della libera competizione imprenditoriale:
Ma c’era indubbiamente una parte di verità nell’osservazione che Giovanni Agnelli aveva fatto nell’ottobre del 1922: «Noi industriali siamo ministeriali per definizione». In fondo, lo Stato liberale non aveva mai rinunciato a esercitare un ruolo pubblico nell’economia nazionale. Come ricordava Felice Guarneri, tecnocrate fascista (…) l’industria era inevitabilmente tenuta a sostenere il governo in carica «perché in un Paese come l’Italia, … lo stato tiene in mano le leve di comando di tutta l’economia…»[2]
La prassi politica, dunque, sia sul piano economico sia sul piano sociale, non sembra poi così diversa dall’Italia liberale (?). Non solo, ma in piena linea di continuità è anche il distacco ideologico dalla Chiesa cattolica romana. Infatti, è vero che Mussolini firma i patti lateranensi (11 febbraio 1929), ponendo così teoricamente fine ad un dissidio iniziato sin dalle guerre risorgimentali tra il nuovo stato italiano e la Chiesa, ma di fatto il fascismo non sposa la causa cattolica. Assume alcuni principi comuni perché propri della cultura italiana in senso generale: la famiglia come centro propulsore dell’ordine sociale, il ruolo sociale diviso per generi sessuali, l’importanza accreditata a certe forme di assistenzialismo (per esempio la sigla INPS è una invenzione del regime fascista),[3] una sorta di statalismo ondivago, in cui il privato e il pubblico compiono continue ingerenze vicendevoli e, di fatto, sono uniti. Tuttavia, pur convergendo in alcune idee comuni, fascismo e Chiesa divergevano profondamente nelle assunzioni. Soprattutto, il fascismo aveva una diversa concezione del “sacro”, dove la Nazione era il nucleo di ogni valore e tutto il resto doveva venire di conseguenza. Questo tratto del fascismo è talmente marcato che alcuni sostengono che il fascismo è una sorta di religione di stato laica. Forse un po’ troppo per qualcosa di così poco elaborato a livello teorico, ma rende bene l’idea. Però è vero che fu un tratto talmente vincente del regime fascista che, di fatto, tutti i totalitarismi (soprattutto di destra) tentarono di replicare il principio: il nazismo, in questo, è sicuramente una variante del “fascismo” (che è diventata etichetta per tutte le forme di pensiero e governo non democratiche di destra). Inoltre, la violenza, come prassi e come valore, era un tratto ineliminabile del credo fascista. E nonostante la Chiesa non sia sempre stata così attenta a condannare i metodi fascisti (a differenza di quelli comunisti), non si può certo dire che la violenza sia un elemento fondativo del credo cattolico.
Certamente il fascismo fu una delle conseguenze della prima guerra mondiale per diversi motivi. Il valore della violenza e, soprattutto, la capacità di praticarla in modo paramilitare, dipendevano direttamente dall’esperienza di centinaia di migliaia di italiani al fronte. La prima guerra mondiale non avrà “fatto gli italiani” ma aveva “formato alcuni tipi di italiani”. Tratto distintivo di questo tipo di individui era l’accettazione della violenza nelle comuni pratiche di vita ordinarie. Inoltre, non si perde il valore della vita ma diventa ambiguo, sommandosi con quello della morte. In questo, come in quasi qualsiasi altro ambito, il fascismo si mostrava estremamente ambiguo.
La straordinaria capacità di adattamento ad un paese notoriamente molto diviso e diversificato, pur proponendo una visione unica della “Patria” solamente perché questa parola è di per sé un nome unico a sua volta ambiguo, deriva proprio dal fatto che l’ambiguità era un tratto fondamentale di tutto il fascismo. Così, perlomeno, sembra suggerire Bosworth. Infatti, l’ambiguità del fascismo era sia un elemento strumentale che finale: era strumentale perché per governare bisognava venire a patti con le vecchie pratiche e i poteri preesistenti. Era un elemento finale perché il movimento fascista si è sempre riconosciuto nella capacità di adattamento alle “circostanze” e, dunque, faceva della fluidità un tratto ideologico consistente e distintivo. Non per niente, il partito fascista era prima di tutto un “movimento”, parola la cui connotazione è sempre ampiamente lasca e ambigua: consente di essere sia un partito, sia qualcosa di più o di meno, a seconda delle circostanze e ammette varie forme di accomodamento sia con i poteri forti, sia con le compagini della popolazione meno immischiate nelle pratiche politiche tradizionali.
Il libro di Bosworth non si concentra particolarmente sul credo fascista perché egli è del parere che non c’è sostanzialmente “un” credo ma una congerie di idee e pratiche, nonché interessi personali più o meno in linea con l’interesse della cosa pubblica. Anche a livello teorico Bosworth è implacabile nel sostenere addirittura l’insensatezza della domanda: “ma cosa credeva Mussolini o in cosa consisteva il credo fascista?” Infatti: “In risposta, si potrebbe cominciare a dire che la ricerca di una definizione del fascismo ha raggiunto punte assurdamente cervellotiche. Perché prediligere una lunga lista di fattori o un paragrafo di fronzoli rococò quando Mussolini si premurò in svariate occasioni di far sapere a quelli che considerava potenziali futuri adepti della propria causa che il fascismo era una cosa semplice? Tutto ciò che serviva era un partito unico, un’unica organizzazione giovanile, un’unica istituzione che legasse padronato e manodopera, un dopolavoro e, – ovviamente – un Duce (più un Bocchini addetto alla repressione del dissenso) e la volontà di estromettere i nemici, quali che fossero”.[4] Tutti gli intellettuali fascisti vengono presentati prima di tutto come persone e solo successivamente come “figure di stato” o “del fascismo”. E in questo Bosworth si premura continuamente di mostrare la triste discrepanza tra le parole (molte) e la realtà (una).
Di fatto, il fascismo si è imposto in Italia fino ad un certo punto, sia guardando le pratiche sociali e politiche della popolazione, sia guardando la prassi dell’élite politica. La penetrazione fascista fu ampia ma non fu capace di sostituirsi del tutto alla logica e alla prassi politica italiana, che vive continuamente vincolata ad una serie di gruppi capaci di esercitare molta influenza localmente ma poca globalmente (in Italia). Infatti, il fascismo viene impietosamente definito da Bosworth in questi termini:
L’Italia fascista della seconda metà degli anni Trenta può essere considerata a pieno titolo uno Stato di propaganda, in cui su tutto sovrastava una presentazione strumentale dei fatti. Ma, checché ne dicano le teorie postmoderne, uomini e donne non vivono di sole parole. La conquista e la legittimazione di un impero non possono esaurirsi in una questione meramente verbale o di immagine.[5]
Da un lato, dunque, il fascismo era una dittatura fondata su una peculiare forma di narrativa nazionalista, su l’uso della violenza (per usare parole hitleriane, per dominare una popolazione bisogna usare il terrore fisico e psicologico). Ma lo zoccolo duro della prassi politica rimaneva la raccomandazione. Questo è uno dei punti che maggiormente ricorre su tutto il libro. La mancanza di alternative di promozione delle persone inizia ancora prima dello stato liberale italiano, in cui ancora sopravvivevano titoli e classi sociali medioevali (si pensi a I viceré di De Roberto o a Il Gattopardo di Tommasi di Lampedusa). La necessità di trovare accomodamenti nel nuovo governo italiano unico si cristallizzava nella nota frase che bisognava fare questi italiani… E infatti anche il fascismo ha lo stesso problema, ovvero promuovere gli italiani giusti: “Nel 1933, ricordando come il ricorso alla pratica della raccomandazione fosse stato messo all’indice nel 1924, nel 1926, nel 1927 e ancora nel 1928, e sempre senza esito alcuno, Starace doveva ammettere che la mancanza di «spirito prussiano» nella burocrazia nazionale e l’analoga assenza di vera autorità nello Stato fascista avevano costretto il Duce ad ammansire i funzionari statali «con elaborate medagliette a colori ornate di striscette oro e argento». Il risultato ci informa lo storico di questa categoria sociale, fu tutt’altro che un audace mondo nuovo”.[6]
Anche su altri aspetti il regime era tutt’altro che migliore della media: Bosworth ama riportare l’ambiguità anche rispetto alla concezione del ruolo della donna e della famiglia. Infatti, da un lato, notoriamente, il fascismo voleva una donna-madre, la cui apparenza fisica doveva essere quella di una “donna giunonica” (così nel testo); da un altro lato, però, anche in questo si dava un culto tutto italiano del macho, che è evidentemente in contrasto con la “donna-madre”. Bosworth riporta (senza nascondere una certa sottesa ironia) che si è stimato che il Duce abbia avuto 400 (sic!) amanti. Ma su basi non propriamente sviscerate nei dettagli, lo storico riporta che fosse un amatore tutt’altro che capace, concependo il rapporto amoroso come un amplesso da consumare con una prostituta senza il minimo interesse per il godimento dell’amante (così dice Bosworth, piuttosto scandalizzato). Sarebbe affascinante sapere i dettagli della stima, ma purtroppo non li disponiamo. Ad ogni modo, tutto ciò era ampiamente in contrasto con il dettame della “donna-mare”. Infatti, per avere degli uomini dediti sostanzialmente alla ricerca di relazioni instabili e improntate sulla reiterazione dei rapporti sessuali, ipso facto bisogna disporre anche di donne il cui attaccamento alla famiglia doveva, perlomeno, essere assai posticipato. Ma anche questo non si sarebbe dato, visto che per avere una famiglia numerosa, la biologia prevede una donna inizi a procreare da giovane (non si fa menzione se questa “donna-madre” dovesse essere anche vergine prima del matrimonio, problema sottile che Bosworth avrebbe amato sottolineare, se solo ci avesse pensato). Il primo a dare il giusto esempio di elasticità mentale è, notoriamente, lo stesso duce (e poi Ciano): “Come tanti altri personaggi dotati di contatti nel bel mondo, Maria Petacci [amante di Mussolini], nata nel 1923, cercò di sfondare nello spettacolo, prima come cantante, poi come stellina di filmetti audaci. Convolata – come da copione – a nozze con un rampollo dell’aristocrazia, prese il nome d’arte di Miriam di San Servolo. Né sul piano professionale né nella scelta del consorte poteva ricordare in qualche modo l’immagine littoria della «donna madre»”.[7] Parole analoghe sono spese anche per la figlia del Duce, Edda, che amava fumare (con la contrarietà del Duce, che le “intimò di smettere”) a scuola e bere coca-cola (naturalmente, bevanda demonizzata da fascismo che non riteneva il capitalismo una buona cosa). Inoltre, Edda non faceva mistero (con un certo scandalo della madre) di avere un “matrimonio aperto” con il marito, Galeazzo Ciano. Indipendentemente, insomma, dai propri gusti personali, non si può che riconoscere una certa linea di continuità con un certo squallore Italian style, che Bosworth non manca di riproporre indirettamente ma pur sempre di continuo, quasi ossessivamente.
Il libro di Bosworth è, in realtà, impegnato in tre tesi dominanti: (a) il fascismo fu una dittatura totalitaria solo superficialmente, (b) il credo fascista, quale che fosse, era puntualmente smentito da tutta la pratica sociale e di governo, (c) gli italiani non furono “brava gente”, (d) l’Italia democratica non ha saputo ancora trovare una narrativa convincente sul fascismo. Per quanto riguarda il primo punto, vale la pena di dire che uno dei risultati più duraturi del fascismo, come del resto ci si poteva aspettare, è proprio lo sdoganamento di una parola “stato totalitario”: “Spesso ci si dimentica che l’aggettivo «totalitario» è un neologismo italiano. Applicato per la prima volta al governo mussoliniano nel maggio 1923 dalle forze d’opposizione, desiderose di definire con un termine estremo una situazione politicamente inedita, l’attributo fu fatto proprio dal regime dopo il 1925”.[8] Rispetto al punto (b) abbiamo già parlato.
Mentre più interessante è il fatto che noi italiani amiamo definirci “brava gente”, con una indulgenza tipica di un popolo abituato a chiedere e ottenere con disinvoltura l’assoluzione di tutti i peccati sapendo che tale assoluzione si ottiene piuttosto a buon mercato e reiteratamente. Naturalmente, la realtà è che c’è del vero: siamo “gente” ma la bravura è una faccenda più complessa. Il regime fascista sicuramente non ha aiutato a far emergere quella indulgente natura del popolo italiano, visto il numero di guerre di aggressione e i relativi risultati. Non solo, ma il razzismo italiano è cosa antica, vero. Ma il fascismo ne ha dato un suo nuovo slancio soprattutto durante il periodo imperiale. Il fatto che oggi il razzismo è sin troppo spesso concepito unicamente come “antisemitismo” e il fatto che ci si è dimenticati di una storia di tre o quattro secoli di asservimento e deportazione di popolazioni a scopo schiavile non sminuisce le conquiste fasciste. Certo, siamo molto inclini a dimenticare che i campi di concentramento vennero inventati dalla brava gente italiana nella guerra in Libia. E anche se su questo il fascismo ha “innovato” poco (in fondo, il confino italiano non era certamente equiparabile al sistema dei Gulag sovietici o dei campi di concentramento nazisti). Brava gente, certo. Infatti, anche il Bosworth non lesina dure parole sull’uso di quelle armi chimiche che smuovono ancora i cuori delle casalinghe di tutto il mondo, come ci insegna il massacro siriano ancora in corso.
Tutto questo dimostra che Bosworth ha ragione a sostenere che gli italiani non hanno fatto i conti con il fascismo, come con tante altre cose. Privati delle colonie, ci siamo convinti che siamo meglio dei francesi e degli inglesi che, invece, hanno lottato a lungo prima di cedere l’indipendenza (anche loro, naturalmente, sono felici di dimenticarsene e credere ai progetti neoimperiali che neppure fanno i conti con la semplice constatazione di fatto che il tempo di quel tipo di imperi è finito e non ritornerà certo volendolo). Non solo. Ma ci dimentica che l’Italia democratica aveva provato a far valere il fatto che non eravamo “sconfitti” e quindi le colonie ci dovevano essere perlomeno affidate per avviarle all’indipendenza. Non c’è stato un processo di Norimberga e si scopre che anche efferati criminali di guerra non sono stati condannati e sono addirittura ritornati a fare politica. Già solo questo dà un indice di quanto l’Italia brava gente dovrebbe essere solo uno sfottò neanche troppo riuscito.
Bosworth, dunque, presenta un’immagine della storia italiana piuttosto asciutta e implacabile. Pur ricordando che egli è “empatico” nei confronti del popolo italiano, l’immagine che egli propone dell’Italia è tutt’altro che lusinghiera. L’opera di Bosworth ha sicuramente grandi meriti ed è anche molto godibile da leggere, fatto importante per un’opera di questa mole. Sicuramente si tratta di un’opera la cui rilevanza è soprattutto dovuta alla capacità di restituire la vita politica e sociale di un’Italia fascista fino ad un certo punto.
Richard Bosworth
L’Italia di Mussolini
Mondadori
Pagine: 654.
[1] Bosworth R., (2007), L’Italia di Mussolini, Mondadori, Milano, p. 39.
[2] Ivi., Cit., p. 227.
[3] Il lettore è invitato ad andare direttamente alla pagina del sito dell’INPS dove si parla della sua storia.
[4] Bosworth R., (2007), L’Italia di Mussolini, Mondadori, Milano, p. 566.
[5] Ivi., Cit., p. 417.
[6] Ivi., Cit., p. 278.
[7] Ivi., Cit., p. 367.
[8] Ivi., Cit., p. 218.
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