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Storia della follia nell’età classica (1961) è un trattato di Michel Foucault, scritto come dissertazione dottorale, per altro rifiutata prima da una università scandinava e poi accettata, ma senza grandi elogi, in Francia. Si tratta probabilmente di uno dei testi fondamentali del filosofo francese, già pienamente espressione di quella “archeologia del sapere” che egli intendeva proporre come sua prospettiva filosofica, a suo modo, neo-illuministica.
Uno dei valutatori della tesi di Foucault aveva osservato che il libro non è né propriamente una “storia” né propriamente una analisi filosofica. E’ difficile non concordare con questo giudizio, per quanto non si possa negare il peculiare valore dell’opera. Non si tratta di una analisi storica perché, per quanto Foucault si rifaccia anche a materiale archivistico e a opere di “esperti” e medici dell’età classica (XVI-XVIII secoli), non sono comunque sufficienti fondare una narrativa esclusivamente fondata su fatti o su ricostruzioni causali di essi. Non solo i fatti riportati vengono continuamente analizzati da un punto di vista filosofico, ma molto spesso vengono presentati proprio come conseguenze di contenuti culturali. Foucault si industria per mostrare quanto la nozione stessa di follia (che è una categoria della sragione, concetto più ampio e mai pienamente chiarito ma ripreso continuamente) sia culturally laden. Quindi, in questo senso, proporre una “storia” della follia è anche scavarne i significati culturali. Ma anche da questa prospettiva può essere un’esperienza frustrante quella di cercare di districarsi nella densissima analisi dei “significati” della follia, senza mai giungere ad un risultato chiaro e distinto.
Dall’altro versante, Foucault non sembra voler sposare una tesi filosofica particolare, non intende difendere un argomento sulla follia e sulla sragione. Non è neppure interessato ad una “ricostruzione razionale” della follia. Ad esempio, non è mai chiaro cosa bisogna intendere con “follia”, per non parlare del concetto di “sragione”. E’ vero che si tratta di concetti sfumati, ampiamente vaghi e le parole impiegate sono così ricche di più significati che è difficile, e anche scorretto, semplificare eccessivamente. Foucault non intende neppure suggerire che la follia sia un valore o un disvalore, cioè non intende fornire una analisi normativa dei concetti perché questi concetti non sono neppure propriamente tali. Con “follia” e con “sragione”, Foucault non intende qualche nozione filosofica particolare, come, ad esempio, la relazione romantica tra genio creatore ma folle. Non intende né proporre una visione della follia (e della sragione) né trarre un giudizio metafisico, sulla base di considerazioni storiche. L’unico obiettivo chiaro, non esplicitato in questi termini, è ricostruire la parabola e l’evoluzione dei concetti di “follia” e “internamento”, rispetto a quello che Foucault chiama “mondo classico”.
Foucault usa la locuzione “mondo classico” in un modo piuttosto peculiare. Infatti, il “mondo classico” per la cultura Occidentale è la storia dell’antica Grecia e dell’impero romano, con i grandi maestri del pensiero, appunto, classico. Questo luogo comune, cioè di un centro gravitazionale della storia e della cultura dell’Occidente, continua ad essere il perno della “classicità”. E infatti anche il rinascimento (con cui sostanzialmente inizia l’analisi di Foucault) è inteso come “classico” nel senso che è un recupero delle opere dei grandi autori platonici ed in esso si sviluppa la filologia proprio per emendare e ripulire i testi classici dalle incrostazioni medioevali. Quindi, quando si legge la Storia della follia nell’età classica bisogna sempre tenere a mente che si tratta di “un’età classica” così intesa, in termini tecnici, da Foucault. Il motivo di questa scelta terminologica non è mai chiarito, sicché è lasciato al lettore l’onere di capire la ragione ultima di questa dicitura non convenzionale. Molto probabilmente la motivazione risiede nel fatto che Foucault voleva impiegare la locuzione “età moderna” per intendere “età contemporanea”, con i relativi aggettivi che egli impiega in questo senso.
Foucault intende concentrarsi sull’evoluzione complessiva della “follia”, ora intesa come “fatto”, ora intesa come “parola” e quindi come “concetto culturale”. Egli non discrimina mai in modo definitivo l’oggetto della parola, l’idea associata nella società e l’uso della parola stessa. Ed è in questo che emerge il fatto che la Storia della follia dell’età classica è sia un testo di storia sia un testo di filosofia ma anche nessuna delle due cose di per sé. Infatti, Foucault non spiega mai quale è l’oggetto di studio, ovvero cosa si debba intendere con “follia” e “sragione”, indipendentemente da ciò che le persone pensavano fossero nelle varie epoche storiche. Egli si limita a ricostruire la “follia” e la “sragione” come insieme non chiaramente distinto di fatti, idee e usi linguistici comuni. Quindi, i concetti scivolano sempre perché Foucault li pone continuamente in paragone rispetto alle varie epoche storiche che egli sta considerando. Non c’è “una follia” ma varie “follie” in base al momento storico e alla società civile. Quindi l’ambiguità dell’analisi si gioca sul fatto che, da un lato, la follia “non è un fatto” ma è anche un insieme di comportamenti (e quindi di fatti). La follia è una parola ma non è solo l’uso di essa, prima di tutto perché, al massimo, è l’insieme di tutti gli usi della parola nelle varie epoche storiche. In secondo luogo, perché la follia, oltre ad essere anche un insieme di comportamenti, è anche il risultato di un costrutto culturale, che a sua volta influenza la sua stessa definizione. E dato il fatto che la follia, così intesa, cambia continuamente i confini, e considerato che la “sragione” sembra essere l’insieme di tutti i concetti alternativi alla ragione (non necessariamente negativi), anche la sragione stessa cambia continuamente confini.
Non solo, dunque, l’analisi di Foucault non ha un centro chiaro sull’oggetto extra linguistico, ma non ha neppure un obiettivo particolarmente chiaro rispetto all’analisi propriamente concettuale. Il risultato è che si tratta di un’opera particolarmente ambigua perché non può essere né un’opera di storia né di filosofia e non può accampare alcun risultato particolare se non il fatto che ha considerato un tema rilevante per la storia e per la storia del pensiero. Questo non vuol dire, comunque, che l’opera sia priva di interesse in quanto tale. Rimane comunque estremamente interessante, soprattutto quando rimane all’interno di un panorama culturale sospeso tra la storia e la filosofia. Le analisi sui significati delle opere d’arte che rappresentano la follia sono particolarmente interessanti, come lo sono le analisi di Foucault sugli scivolamenti culturali continui che la sragione sembra compiere tra le varie epoche storiche.
Ma, paradossalmente, il merito principale del libro consiste nel porre la luce sulla natura dell’internamento. Dato il fatto che l’internamento è un insieme di fatti e circostanze molto chiaro, non si rischia, come nel caso della follia e della sragione, di avere semplicemente una analisi ambivalente e ambigua su cui anche un lettore volenteroso può significativamente perdere il bandolo della matassa, giungendo a chiedersi se la matassa sia reale. L’internamento è un fatto oggettivo e quindi la sua ricostruzione, anche in sede culturale, ha dei margini meno variabili e molto chiari. Foucault riesce a mostrare l’evoluzione sia delle pratiche dell’internamento sia dei significati legati ad esso.
L’internamento, al principio, era riservato ai lebbrosi, rinchiusi per chiare ragioni igieniche. La segregazione di un certo settore di popolazione, però, conduceva all’associazione di idee e la formazione di percezioni più o meno irrazionali sulla popolazione in questione. Per questa ragione, la chiusura dei lebbrosari non ha comportato la cancellazione delle idee e delle percezioni rispetto all’internamento. Questo diventa lo strumento par excellance per cancellare parti sgradite della popolazione, tra cui anche un certo tipo di povertà:
Decaduta dai diritti della miseria e spogliata della sua gloria, la follia appare ormai molto seccamente, con la povertà e l’ozio, nella dialettica immanente degli stati. L’internamento questo fenomeno massiccio le cui tracce sono reperibili in tutta l’Europa del XVII secolo, è un affare di “police”, nel senso molto preciso che a questo termine si dà nell’epoca classica, cioè l’insieme delle misure che rendono il lavoro possibile e necessario per tutti coloro che non saprebbero viverne senza; i contemporanei di Colbert si erano già rivolti la domanda che sarà poi formulata da Voltaire: “E che? Non possedete ancora il segreto di obbligare tutti i ricchi a far lavorare tutti i poveri? Voi non avete ancora i primi rudimenti dell’organizzazione politica.[1]
Il fenomeno dell’internamento, molto più dei concetti di follia e sragione, è storicamente rilevante e ha interessanti ricadute filosofiche. Infatti, i centri di reclusione dei folli assumono scopi curiosamente diversi ma molto affini tra loro: (a) un mezzo per dislocare manodopera a bassissimo costo e priva di lavoro; (b) un mezzo per studiare alcune particolari patologie riconosciute come “antisociali”; (c) un mezzo per occultare strati di popolazione che possono avere comportamenti nocivi rispetto al corso ordinario di vita stabilito dalle convenzioni sociali sempre più rigide e severe nei confronti della definizione di “ordine sociale”. Queste condizioni di internamento sono, tutt’altro che casualmente, comuni alla più grande storia dell’internamento in Europa nel XX secolo, cioè i campi di concentramento. Anche nei campi di concentramento si assiste sostanzialmente alla stessa logica di “significato”.
Gli internati sono persone che appartengono a strati sociali che non si possono difendere all’interno dell’ordine sociale costituito, sia per ragioni di censo, sia per ragioni politiche. Non è un caso, infatti, che ancora in URSS nella seconda metà del XX secolo la pratica dell’internamento forzato in strutture psichiatriche fosse una delle misure repressive contro un certo tipo di dissidenza. Le persone diventano oggetto di studio, di occultamento ed, eventualmente, di forza-lavoro a basso costo. E ancora non è un caso che tra i primi ad essere internati e uccisi nella Germania Nazista furono proprio “gli insani” e “gli storpi”. I totalitarismi, dunque, si introducono all’interno di questa concezione vasta dell’internamento che Foucault introduce e descrive nel susseguirsi dei secoli nell’età classica. Questo punto fondamentale mostra che la “sragione” non era uscita fuori dalla finestra nel XIX secolo. Non solo. Ma tutta l’esperienza dell’internamento nell’età “classica” viene poi impiegata in modo massivo nei totalitarismi degli anni 30’ del XX secolo.
La storia dell’internamento, dunque, mostra l’estrema ambiguità della psicologia e, in generale, della scienza di fronte al fenomeno della follia. Infatti, da un lato, nella follia si vuole trovare la radice di un certo genere di asocialità, dovuto a comportamenti che rendono la vita impossibile alla persona malata, da un altro lato in essa si vuole trovare la scusa per occultare alcuni tipi di persone che rendono la vita impossibile agli altri. Quindi, si scopre che la nozione di “asocialità” è in se stessa estremamente ambigua: la persona “asociale” è tale perché è un infelice lui o perché rende infelice gli altri, indipendentemente dal fatto che egli sia realmente un infelice? La malattia mentale è qualcosa che si attribuisce ad altri, che sia essa in questi altro o meno, oppure è qualcosa che si scopre soltanto in prima persona? La linea non può mai essere tracciata in modo netto. E infatti nella lista dei “folli” compaiono tutti i comportamenti di persone normali, la cui infelicità o insoddisfazione diventa sostanzialmente cronica (si trovano addirittura rinchiuse persone semplicemente infelici per questioni di cuore!).
Questo non significa che non esistono patologie propriamente legate alla mente e, come tali, lesive prima di tutti per chi le subisce in prima persona (cioè per il paziente). Il punto è che, però, proprio grazie a queste forme estreme di malattia, si può rivendicare tutta una gamma di comportamenti antisociali, la cui antisocialità non risiede nel paziente ma in chi subisce i suoi comportamenti. In alcuni casi si tratta di problemi di natura economica (per esempio, Foucault richiama di continuo i padri troppo prodighi o i figli dissipatori dell’economia domestica). In altri casi, si tratta di problemi legati alla miseria indotta dall’eccesso di tempo libero (ad esempio, per prolungata disoccupazione). Si capisce, dunque, che l’internamento nella sua ambivalenza di centro di occultamento e lavoro forzato, diventa la risposta per tutti i problemi sociali, intesi in senso molto ampio.
Foucault accenna alla grande rivoluzione della psichiatria del XIX secolo, ma non sembra mai rendersi pienamente conto della straordinaria congiunzione dell’esperienza dell’internamento nell’età classica e la successiva esperienza del campo di concentramento. Si tratta, infatti, di congiunzione e non solo di somiglianza perché è chiaro che l’esperienza dei campi di concentramento è fondata proprio sulla stessa logica e sugli stessi principi dell’internamento nei sanatori, almeno proprio seguendo le linee delle analisi di Foucault. In entrambi i casi, infatti, si tratta di luoghi di reclusione in cui si centrifuga la popolazione all’interno per trarne il massimo possibile, dal punto di vista dell’ordine sociale di riferimento. Infatti, l’esperienza dei campi di concentramento (non dei campi di sterminio) mantiene i significati e le ambivalenze rintracciate da Foucault nella sua analisi. La cura ad ogni forma di sragione è semplicemente la stessa e non c’è neppure bisogno di cambiare le parole.
Questa congiunzione tra l’internamento nei sanatori e i campi di concentramento è essenziale e, soprattutto, mostra in controluce il motivo profondo per cui tra i tanti scheletri nell’armadio che sovrabbondano nell’Europa, compare anche il malato mentale. Infatti, prima di tutto, è molto difficile riuscire a parlare di malattie mentali senza scadere in problemi di natura morale e morbosa (il malato mentale diventa il “depravato”), con la sgradevole conseguenza che tutto assume un’ombra malsana e razionalmente indomabile. In secondo luogo, ancora oggi, i problemi “mentali” comprendono disturbi che sono stranamente molto simili a quelli previsti nella storia di Foucault (invito i lettori a cercare siti di case di cura e trovare le patologie trattate). E il motivo non è casuale: l’età classica è molto vicina alla nostra sia per quanto riguarda la concezione dell’ordine sociale e statale, sia per quanto riguarda la concezione morale di valutazione intuitiva condivisa. Se nel medioevo un “asociale” era un eremita (per esempio), oggi un asociale può essere una persona che sperpera denaro. Ma, si faccia attenzione, una persona ricca che sperpera denaro è un problema infinitamente meno sentito di un piccolo-borghese (chiamiamolo così) che sperpera le stesse quantità di denaro. E il motivo non risiede nel fatto che i ricchi sono statisticamente meno dei poveri: se un ricco sperpera denaro è un bene per molti, questo è il punto. E infatti i modelli di consumo attuali spingono proprio verso questa direzione.
La chiusura dei manicomi non è stata la chiusura della storia delle malattie mentali, non è stata la soluzione ad un problema antico ma è stata l’abolizione della possibilità stessa di concepire e di parlare del problema. Come le carceri, non per niente oggetto di una analisi successiva di Foucault, anche le soluzioni al trattamento delle malattie mentali è oggetto dello stesso silenzio politico e mediatico, salvo poi impiegare gli effetti collaterali di questa dimenticanza politica e mediatica a proprio vantaggio. Non è un caso, infatti, che ancora oggi i pregiudizi sui malati mentali sono incredibilmente simili a quelli dell’età classica. Ma di tutto questo non se ne può proprio parlare, perché i manicomi e i campi di concentramento pongono gli stessi quesiti a quella stessa popolazione che ha contribuito a creare gli uni e gli altri perché gli erano utili per gli stessi motivi e che oggi, per gli stessi motivi, hanno voluto abolire il problema una volta per tutte. Non è certamente questo il luogo per parlare del problema dei sanatori e delle malattie mentali nelle società europee attuali, che invitiamo a scoprire nella sua drammaticità. Ma quanto detto vuole mostrare l’importanza e l’interesse dell’analisi di Foucault. Infatti, Storia della follia nell’età classica è un libro di grande importanza proprio per questi effetti collaterali che consentono di portare luce su zone d’ombra che continuano a perpetuarsi.
Michel Foucault
Storia della follia nell’età classica
Rizzoli
Pagine: 560.
[1] Foucault M., (1961), Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, p. 68.
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