Stanley Milgram (1933-1984) fu uno psicologo sociale americano, noto al grande pubblico e agli studenti di psicologia per aver ideato e condotto, all’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, uno degli esperimenti più influenti e discussi dell’intera disciplina.
Gli anni sessanta e settanta furono anni particolarmente fecondi per la psicologia sociale, interessata a comprendere il pensiero e il comportamento dell’individuo all’interno della dimensione relazionale e di gruppo. La seconda guerra mondiale e i crimini nazisti lasciarono un solco profondo sia nelle nuove costituzioni degli stati europei e nei nuovi assetti geopolitici, sia nell’attività intellettuale di molti.
Stanley Milgram, di origine ebraica, agli esordi della sua carriera accademica come ricercatore, fu catturato dall’idea di poter contribuire a comprendere la sottomissione e l’obbedienza che caratterizzò il comportamento di coloro i quali si resero materialmente responsabili dell’Olocausto.
È ormai nell’immaginario collettivo la figura docile e profondamente borghese del gerarca nazista Otto Adolf Eichmann, processato in Israele e condannato per il ruolo di rilievo avuto nell’organizzazione e gestione dello sterminio degli ebrei. Un uomo normale, non particolarmente aggressivo, ma devoto al suo compito di distruzione e totalmente sottomesso all’autorità.
È questo aspetto oscuro dell’obbedienza, foriero delle peggiori tragedie etiche immaginabili, a colpire lo psicologo statunitense, il quale idea una serie di esperimenti volti a verificare l’ipotesi che un uomo perfettamente normale, privo di qualsivoglia disturbo psicologico o tratto atipico, possa trasformarsi in aguzzino sotto la spinta di un comando ricevuto dall’autorità.
Esiste nell’uomo una tendenza naturale a seguire le istruzioni dell’autorità? Quanto è radicata nell’uomo questa tendenza? Fino a dove può spingerci? È veramente possibile che i nazisti coinvolti nel crimine dello sterminio avessero semplicemente eseguito degli ordini? Milgram pensa ad una situazione che a molti è apparsa estrema, chiedendosi se questa tendenza ad obbedire avesse potuto portare un individuo ad infliggere ad un altro individuo scosse elettriche sicuramente dolorose e probabilmente pericolose per chi le riceve.
Così si svolse l’esperimento presso i laboratori dell’Università di Yale. Il partecipante veniva introdotto nei laboratori dallo sperimentatore, uno psicologo ricercatore che indossava un camice bianco per caratterizzare con più forza la sua posizione di autorità. Il partecipante sorteggiava poi il suo ruolo con un complice dello sperimentatore, il quale recitava. Il risultato del sorteggio veniva truccato, di modo che al partecipante venisse assegnato il ruolo di ‘maestro’ e al complice il ruolo di ‘allievo’. Lo sperimentatore comunicava che l’esperimento mirava a comprendere i meccanismi di apprendimento, in particolare l’efficacia della punizione sulla memoria.
Dopodiché, il complice veniva fatto sedere in una stanza accanto, con degli elettrodi legati al polso. Il partecipante aveva il compito di sedere di fronte ad un quadro di controllo di generazione elettrica, collegato con il polso del complice nella stanza adiacente. Lo sperimentatore istruiva infine il partecipante a somministrare una scossa elettrica di intensità crescente (da una tensione iniziale di 15 volt a una finale di 450 volt) ad ogni errore che l’allievo avesse commesso nella ripetizione di alcune coppie di parole.
Il complice, nel ruolo di allievo, era istruito a compiere appositamente degli errori. Inoltre, a seconda dell’esperimento, simulava delle reazioni di crescente preoccupazione, disperazione e dolore. Il partecipante poteva sentire le grida del complice nella stanza accanto, sentire le sue lamentele e preoccupazioni. Dopodiché, se reticente a proseguire, il partecipante veniva spronato dallo sperimentatore a continuare con frasi quali “Per piacere continui”, “L’esperimento richiede che lei continui”, “E’ assolutamente necessario che lei continui” e infine “Non ha altra scelta, deve continuare”. Nessuno dei partecipanti era costretto fisicamente, l’unico vincolo era la presenza dello sperimentatore il quale ordinava a individui, senz’altro liberi e coscienti, di continuare con la somministrazione delle scosse. La scienza ne avrebbe sicuramente giovato!
I risultati sorpresero e inquietarono un po’ tutti. Nei primi esperimenti, con il complice seduto nella stanza accanto, fuori dalla vista, una buona maggioranza dei partecipanti, circa il 65%, somministrò la scossa massima (450 volt) – questo nonostante le grida di dolore e disperazione provenissero forti e chiare. Inoltre, anche coloro che decisero di interrompere l’esperimento prima di arrivare alla conclusione voluta dallo sperimentatore, comunque somministrarono scosse indicate sul generatore di corrente come “forti” o “intense”.
La percentuale diminuisce, arrestandosi al 40%, se il complice è posto nella stessa stanza del partecipante, ed è dunque da lui visibile. Decresce ancora arrivando al 30% se fra i due è prevista la possibilità di un contatto fisico. A questi esperimenti, ne seguirono negli anni molti altri, sostanzialmente delle varianti, come ad esempio la variante dove le autorità sono due, una in posizione di vittima, oppure dove l’autorità non è presente nella stanza ma ordina per telefono. In generale, Milgram registrò un’inaspettata propensione da parte dei partecipanti ad obbedire all’orribile comando dello sperimentatore di provocare dolore in un individuo indifeso e naturalmente maldisposto a soffrire per il bene della scienza.
In vari articoli scientifici e nel libro che in italiano è stato tradotto con “Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale”, lo psicologo statunitense avanza osservazioni e spiegazioni sul comportamento dei partecipanti e sul loro conflitto interiore. Una delle assunzioni centrali di Milgram, sulla quale vorrei soffermarmi, è che “i valori […] costituiscono solamente un filo nella gamma di fattori che determinano il comportamento di una persona.” (p. 8, Obbedienza all’autorità, OA).
Per lo psicologo, ciò che avvenne negli individui coinvolti nell’esperimento fu una sorta di tensione interna tra le forze modeste della morale e la forza perversa e soverchiante del conformismo e la spinta ad aderire ai comandi di un’autorità legittima. In questo senso nasce in Milgram la domanda perché la morale non vinca sull’autorità. Morale e obbedienza all’autorità sono dunque due opposti per Milgram, almeno nella situazione sperimentale da lui ideata. Il soggetto compirebbe l’azione richiesta, e allo stesso tempo demanderebbe all’autorità il compito di definirne il significato. Attraverso un meccanismo di deresponsabilizzazione, il soggetto si sentirebbe libero di agire contro i propri principi morali. Le cose, tuttavia, potrebbero stare diversamente.
Come alcuni resoconti dei partecipanti suggeriscono (ma indipendentemente dalla forza probante di questi), la spinta a conformarsi e a obbedire a un’autorità ritenuta legittima potrebbero benissimo essere componenti dell’insieme di valori morali del soggetto. Alcuni partecipanti, intervistati sull’esperienza, giustificarono molto chiaramente il loro comportamento facendo leva sull’importanza, per il loro sistema valoriale (di matrice borghese o, per alcuni, militare), di rispettare l’autorità e seguirne gli ordini.
D’altra parte, se analizziamo il fenomeno della morale da un punto di vista funzionale, possiamo convincerci che il rispetto per la gerarchia sociale e per l’autorità ne sia una parte fondamentale. Possiamo ipotizzare che la morale negli essere umani si sia evoluta per mantenere l’ordine sociale, la collaborazione tra individui e la coesione nel gruppo; per facilitare una coesistenza pacifica all’interno del gruppo, a sua volta funzionale agli obbiettivi di sopravvivenza, e per garantire una maggiore efficacia nello scontro con i gruppi rivali. Se la funzione della morale è frenare l’istinto aggressivo dell’individuo e favorire invece cooperazione e coesione, allora capiamo facilmente come uno dei meccanismi principali utili allo scopo sia la creazione di una gerarchia sociale e il rispetto per il potere e chi lo detiene.
Seguendo questo ragionamento, possiamo ipotizzare che i partecipanti all’esperimento di Milgram abbiano vissuto in realtà un conflitto interno tra diversi tipi di valori morali (ad es. che non sia giusto far del male a innocenti vs. che sia corretto rispettare l’autorità). Per quanto si voglia negare lo statuto di valore morale al rispetto per l’autorità, la nostra psicologia rivela fin troppo chiaramente come la deferenza verso il potere sia un meccanismo che in noi agisce in maniera inconsapevole o a volte consapevole proprio in funzione di quegli scopi verso i quali la morale tende.
In questo senso, tutti i valori individuali sono “esigenze tecniche dell’organizzazione (gerarchica)”, in quanto assolvono alla funzione di mantenere l’ordine e un equilibrio tra le “forze” in campo tale per cui la società possa prosperare. Non c’è la illudersi molto su questo. Qui non si tratta di scegliere questa o quest’altra visione normativa, piuttosto di capire come funziona la nostra morale. La conseguenza di questo ragionamento è che alcune parti della nostra morale possono, in determinate situazioni, portare a conseguenze spiacevoli e, eventualmente, condannabili dalla particolare visione normativa e morale che possediamo. Questo perché vi è un costante scollamento tra i valori che ci muovono all’azione e i valori con i quali giudichiamo la realtà o ideiamo nuovi orizzonti per la gestione del bene pubblico.
Non si tratta pertanto, con le parole di Milgram, che “la coscienza, che regola le tendenze aggressive, perde necessariamente influenza al momento in cui il soggetto è incorporato in una struttura gerarchica.” (p. 124, OA). Piuttosto, possiamo immaginare che la coscienza si espanda nel momento in cui il soggetto è incorporato in una struttura gerarchica – e quando non lo è? Una coscienza espansa che deve costantemente mediare tra il valore del rispetto per l’autorità e l’ordine sociale e i valori come il rispetto per la libertà altrui, mediazione costantemente volta al mantenimento, dal punto di vista del gruppo, della coesione, della collaborazione e della funzionalità rispetto al raggiungimento di obiettivi condivisi.
Bibliografia essenziale:
Milgram, S. (2003). Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale. Torino: Einaudi.
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