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Il rispetto in Kant è un saggio di Sonia Cosio, dottoranda all’Università Vita-Salute San Raffaele (Milano), esperta degli scritti kantiani e attualmente si occupa di temi legati alla storia delle idee e all’etica. Il libro in questione è una ricostruzione del concetto kantiano del rispetto, che si scopre centrale nella riflessione di Kant:
A motivo di ciò sembra potersi concludere che il tema del rispetto non sia affatto secondario o marginale nella produzione di Kant: esso è, piuttosto, la cifra fondamentale del suo pensiero, un tema su cui l’autore torna più vote nel corso della propria vita e della propria carriera filosofica. Forse perché insoddisfatto e consapevole di non aver pronunciato in proposito la parola definitiva, forse perché troppo importante per essere tralasciato: ciò che sembra difficilmente contestabile, tuttavia, è la sua presenza ricorrente nei pensieri del giovane, del maturo e dell’anziano Kant.[1]
Se il “giovane, maturo e anziano Kant” concordano nel considerare il rispetto come concetto chiave sia in sede morale che, almeno parzialmente, in sede estetica per quanto riguarda il sublime (pp. 41-45), allora, e a maggior ragione, si comprende quanto il saggio di Cosio possa aver centrato un punto chiave. Ciò è vero per ragioni intrinseche e per ragioni estrinseche. Iniziamo dunque dalle ragioni intrinseche, ovvero quelle che si rifanno al pensiero di Immanuel Kant, così come ci viene presentato da Cosio.
Prima di tutto, la nozione di rispetto emerge in Kant come un concetto cardine, cioè uno dei punti focali della sua posizione morale-estetica: come molta della tradizione occidentale, anche in Kant estetica e morale sono vincolate reciprocamente, anche quando si concepiscano autonome. E quanto ciò possa essere vero diventa chiaro proprio dalla nozione di rispetto, che compare in entrambe le dimensioni. Il rispetto nella sua relazione con il sublime sarebbe anche capace di giustificare l’idea di un generale rispetto per l’ambiente che Kant magari non approfondisce ma sicuramente anticipa.
Il rispetto è un concetto cardine, cioè una nozione su cui si gioca molta della posizione di Kant sia in senso formale che sostanziale. Questo è notato da Cosio quanto da altri commentatori e filosofi che riprendono o criticano Kant. La nozione di rispetto si dice in molti modi, ci dice Cosio, riprendendo una locuzione di sapore aristotelico, quasi a congiungere idealmente l’essere con il rispetto (e non sarebbe, in effetti, una associazione peregrina). Sebbene si dica in molti modi, la risorsa ultima del rispetto è la legge morale e il suo riconoscimento da parte del soggetto morale, il quale può diventare pienamente morale solo a condizione che egli riconosca la legge morale in sé. Va detto che il rispetto si declina anche come rispetto della persona, di sé e dell’umanità (si veda oltre), ma rimane il fatto che “persona”, “sé” e “umanità” sono degne di rispetto proprio in virtù della legge morale, più grande di loro come il cielo stellato.
Uno dei problemi interessanti, soprattutto da un punto di vista speculativo e non necessariamente pratico (cioè per un lettore disinteressato a questi problemi), è la questione aperta di come considerare l’internalità della legge morale: dove va collocata precisamente? Essa fa parte del soggetto ma è universale e necessaria in ogni soggetto, sicché c’è un senso chiaro in cui la sua collocazione è soggettiva ma anche oggettiva, perché sta appunto nel noumeno. Ed infatti Kant sembra suggerire che da questo punto vista il coglimento della legge morale è dovuto ad un’intuizione di qualche genere, che rimane preclusa alla ragione (“che rimane passiva”).
In secondo luogo, il rispetto è un sentimento morale, nel senso che esso scaturisce dalla scelta libera del soggetto di adeguarsi alla legge morale. La parola “adeguamento” forse è impropria perché la scelta che il soggetto opera è comunque positiva perché deve essere motivata dal riconoscimento del rispetto della legge morale stessa. Sicché il soggetto è motivato ad agire secondo la legge in base al riconoscimento della legge stessa. Specifichiamo anche che non si agisce in virtù della legge morale se non a causa di essa, vale a dire che il mero adeguarsi privo di intenzioni alla legge non costituisce moralità ma legalità (un punto che elimina la possibilità di una posizione formale sia teorica che pratica).
Nella determinazione di sé attraverso la legge, l’agente sarebbe libero, nel senso che agisce indipendentemente dalle inclinazioni o dai precetti pratici, che conducono alla soddisfazione eventuale del suo egoismo, inteso come generatore di fini disgiunti o non necessariamente congiunti alla legge morale. Infatti, la legge morale è intesa come un precetto pratico indipendente dal soggetto, nel senso che è indipendente dalle sue personali inclinazioni. La legge, però, viene applicata dal soggetto dal contesto e viene analizzata dal soggetto nel momento in cui si pone il problema dell’azione moralmente buona. Il risultato, dunque, è che il soggetto può essere libero soltanto di adeguarsi alla legge morale, nonostante il fatto che tale adeguamento sia libero e positivo, nella misura in cui il soggetto coglie e rispetta la legge morale.
La libertà, dunque, è un’assunzione della ragion pratica, nella misura in cui l’adeguamento alla legge morale si può dire libero, almeno nel senso che il soggetto non si lascia determinare dalla sua stessa inclinazione del momento. Un soggetto è veramente libero a condizione che rispetti la legge morale, ovvero è la legge morale che in qualche misura gli consente di essere libero. Da un lato, poi, la legge morale è normativa e valutativa, perché consente un rigoroso autogiudizio (“E’ un severo giudice di se stesso”), da un altro lato la legge dà delle indicazioni precise (imperativo) per poter eseguire positivamente l’azione moralmente buona. Tuttavia, l’attività della ragione morale va coltivata nel tempo, non va lasciata a se stessa perché l’attrito delle forze psicologiche resistenti è molto alto. Ovvero, Kant sa perfettamente che l’agente è spesso dominato dalle inclinazioni e dalle passioni (spinozianamente parlando, cioè cause per lo più esterne di un comportamento passivo della persona), ma è proprio per questo che il riconoscimento della legge morale in sé e nelle altre persone determina quel sentimento proprio che è il rispetto.
Nella prospettiva kantiana, il rispetto è inteso come sentimento, ma, (…), altresì come atteggiamento, come disposizione caratteriale e intenzionale. In quanto sentimento e atteggiamento, Kant intende il rispetto come propriamente morale. In quanto Achtung, il rispetto kantiano è interno alla persona e si configura come il riconoscimento di un potere interno a questa: il potere di autodeterminazione che perviene al soggetto agente direttamente dalla sua libertà, intesa immediatamente come autonomia e, con ciò, come un potere incondizionato, non inficiato dalle leggi di natura di cui gli altri fenomeni sono in balia.[2]
In questo passo estremamente lucido si mette in mostra l’elemento sentimentale del rispetto che, tuttavia, è forse un’idea decisiva e controversa nel pensiero di Kant. Infatti, in questo modo diventa abbastanza chiaro in che modo il rispetto possa essere inteso come motivante: è una disposizione caratteriale, intenzionale ed è un sentimento in qualche misura positivo ma anche castrante (perché è segno di un potere ma anche di una limitazione, su questo Cosio insiste in altro loco). In questo senso, coloro i quali parlano di “inerzia emotiva o sentimentale” dell’etica kantiana dovrebbero cedere le armi perché è abbastanza chiaro che non si può parlare di “vuoto formalismo” rispetto all’idea di Kant anche sotto questo punto di vista.[3] Tuttavia si tratta di un sentimento peculiare: il rispetto è addirittura un sentimento ambivalente perché da un lato è permissivo da un altro lato è restrittivo e conduce comunque ad una autolimitazione del soggetto, il quale riconosce questa autolimitazione proprio in forza del rispetto della legge morale.
In un certo senso, le critiche degli studiosi che Cosio riporta hanno una loro ragion d’essere se si aggiunge una premessa: perché, come dimostra l’autrice, esse risultano vagamente infondate, scentrate e non prive di bias dovute a scelte teoriche diverse, operate a monte. Come ci dice Cosio, non “c’entrano il bersaglio”. La premessa è consiste nel riconoscere che anche quando emotiva, la morale è comunque fondata sulla ragione. Le critiche sembrano tralasciare la parte sentimentale ed emotiva dell’etica kantiana. Questa “sbadataggine” sicuramente può indicare anche la difficoltà a trovare chiare alternative, ovvero critiche realmente efficaci, ad una posizione così lucida e rigorosa come quella di Kant.
L’insistenza sul problema sentimentale o valoriale mostra il fatto che il rispetto, questo sentimento morale così rimarcato in tante diverse opere da Kant, sembra essere in qualche modo superfluo. Sia chiaro, Kant non la penserebbe affatto così: ma non è questo il punto. Infatti, l’adeguamento alla legge morale può essere una scelta dura, addirittura eroica nella misura in cui un’azione diversa da quella della legge avrebbe potuto comportare, sotto assunzione, un guadagno decisivo e duraturo per la vita di una persona. Alla fine, sembra indicare il critico, sono la legge morale e l’adeguamento ad essa a fare la differenza tra una persona buona e una persona qualunque, perché una persona può decidere di seguire la legge morale indipendentemente dal correlato emotivo di essa. Basta che riconosca la sua profonda giustizia e correttezza morale, da un punto di vista intuitivo o razionale che sia. Perché scomodare i sentimenti? Si può fare il seguente parallelo, per quanto odioso, mi sia concesso: il sentimento di amore per il denaro non è ciò che rende il denaro valevole, perché ciò che lo rende valevole è il suo riconoscimento intersoggettivo, indipendentemente dalle inclinazioni soggettive. Una persona può amare spassionatamente il denaro e un’altra odiarlo, ma entrambe possono riconoscerne un valore indipendente, almeno rispetto al fatto che il denaro è tale proprio perché non dipende dai loro sentimenti particolari. Ed è questo che, pur “mancando il bersaglio”, vorrebbe sottolineare il critico: il sentimento del rispetto è in qualche modo superfluo, rispetto al valore presunto della legge morale. Il fatto che si manifesti è del tutto accidentale.
In fondo, anche Kant sembra avvertire un qualche disagio, se deve continuamente rimarcare la relazione tra l’elemento emotivo del rispetto e la legge morale stessa. Perché? Perché non è affatto chiaro che queste due cose siano effettivamente legate l’una all’altra. Può anche darsi il caso che lo siano, ma è altrettanto evidente il problema esplicativo (motivazione) e il problema normativo (giustificazione). Perché da un lato c’è la vaga sensazione di superfluità e dall’altro lato di insufficienza: esistono sentimenti più potenti che potrebbero motivare azioni virtuose e così sembra anche ai critici. Questo, appunto, perché non sembra in alcun modo potersi dare per scontato il fatto che il rispetto sia realmente il correlato emotivo della legge morale, giacché lo stesso Kant comunque dipinge l’austerità della sua morale nella misura in cui il rispetto non è solo il sintomo di una potenza (come nella dimensione affettiva positiva in Spinoza, chiara nella sua precisione) ma anche di una profonda autolimitazione. Infine, anche il modello di uomo a cui si richiama Kant è vagamente castrante, laddove si parla di “uomo malinconico”, pur caratterizzato come uomo di “ragione morale”.
Da analoghe considerazioni, Frederich Nietzsche critica la posizione kantiana ponendo l’accento sul problema dell’accettazione della vita. Sebbene si dimostri una critica almeno parzialmente infondata, se presa alla lettera e nella sua formulazione immediata, essa può ritornare in modo moderato, qualora si consideri che non si può accettare una morale che reclami una quasi totale autolimitazione dell’individuo rispetto ai doveri della legge morale. Infatti, questo individuo ha un valore correlato, in un certo senso, rispetto al fatto che egli dispone della legge morale (questo emerge, appunto, dagli spunti neokantiani di un Singer). Certo, Kant ci dice che pochi sono capaci di una “volontà santa” ed è altrettanto chiaro che le persone virtuose sono poche perché è raro tutto ciò che è difficile (per usare una locuzione spinoziana), rimane aperto il disagio, almeno quello, di fronte ad una così severa autolimitazione. In fondo, rimarrebbe piacevole avere una morale che in qualche modo legittimi in modo più esplicito la componente della legittimità della felicità umana che Kant pur riconosce ma, appunto, con i caveat che di fatto non si capisce bene fino a che punto permettano la felicità stessa, senza un permanente senso di colpa indiretto.
Il rispetto si può declinare in molti modi: “esistono molteplici livelli di rispetto, principalmente due: il rispetto per la legge e il rispetto per la persona. Quest’ultimo, a propria volta, può essere utilmente tripartito in un rispetto per se stessi, un rispetto per la persona virtuosa e un rispetto universalmente inteso”.[4] Quindi, il rispetto si declina in base al fine di riferimento o all’oggetto di valutazione morale. Kant considera l’umanità come insieme, vale a dire come una categoria dotata di una valore intrinseco, indipendentemente dal valore dei singoli elementi. Sicché un uomo qualunque, fosse anche il peggiore, conserva comunque un valore inalienabile, perché fa comunque parte della categoria degli esseri umani. Questo consente di fornire una buona difesa anche dell’ultimo reietto perché costui ha sempre la possibilità di rientrare a far parte di coloro i quali assumono la legge morale a movente delle loro azioni.
E’ curioso osservare che Kant è estremamente severo con il singolo, anche qualora questi sia virtuoso: infatti, una persona potrebbe avere rispetto per sé, per sé in quanto virtuoso e per sé in quanto parte dell’umanità. C’è quindi un senso in cui il singolo potrebbe essere tentato di sentirsi più importante degli altri per la semplice ragione che solo lui, dal suo punto di vista, può ricadere in tutte le categorie dell’imperativo morale. Tuttavia Kant aggiunge la limitazione interna alla legge, vale a dire che se x segue la legge morale L, allora x per L riconosce sé come di pari valore rispetto ad un y ma inferiore rispetto ad L! Perché? Perché x trae il suo valore principalmente dalla presenza di L, sia come persona virtuosa, sia come persona in quanto tale: senza la legge non sarebbe né persona né virtuosa e la categoria umana non avrebbe valore di per sé senza (da questo punto di vista): il valore è quello della legge, anche quando si declini in diversi modi. In definitiva, nessuno può contare più di nessuno, fatto sicuramente rimarchevole. Quindi, ancora una volta, emerge il fatto che questo “peculiare sentimento” sia comunque complesso e lascia comunque aperti degli interessanti interrogativi.
Entrando nello specifico del saggio di Cosio, cioè a quelle che abbiamo chiamato “ragioni estrinseche” (impropriamente!) vale la pena segnalare almeno tre elementi: il primo è l’estrema padronanza della materia, esibita sia dalla variegatissima quantità di citazioni dell’Opus kantiano, scritti precritici e postumi compresi. Questo è un punto che va rimarcato perché mostra il fatto che l’indagine di Cosio sia trasversale e comprensiva anche della letteratura considerabile minore pur rispetto a Kant. Inoltre, dimostra una padronanza della letteratura su Kant che consente di richiamare anche tematiche che, molto probabilmente Kant, da uomo illuminista del ‘700, non avrebbe minimamente considerato interessante ma che la sua filosofia consente di trattare, come i problemi dell’animalismo, dell’ambientalismo e il rifiuto del suicidio. Infatti, Kant era pur sempre figlio dei suoi tempi, il migliore ma non al di là. Il che non è affatto necessariamente un limite.
La seconda caratteristica del libro è l’estrema chiarezza e una scelta di uno stile piano ma anche colto. Il che va rimarcato perché purtroppo non solo ci si è disabituati a scrivere bene ma anche in modo chiaro, piacevole ed erudito al contempo. Perché essere eruditi può essere un pregio anche in una società di massa, a condizione che si ricordi che quella massa si chiama appunto “umanità” che, come ci insegna Kant, va rispettata anche e soprattutto nella limitazione. Questo non dovrebbe essere, però, una castrazione per l’uomo o la donna di cultura. E l’aridità è forse il principale male di tutte quelle opere che rivendicano un pubblico, ma solo da un punto di vista teorico. Il libro di Cosio è interessante perché leggibile, perché fruibile e consultabile. Un lettore esperto in esso può trovare importanti riflessioni, come si è cercato di notare, ma avrà anche il piacere di confrontarsi con uno stile cristallino, che lo aiuterà nella comprensione di quella che è notoriamente una difficile lettura, quella dei testi kantiani. Il lettore inesperto, invece, con un po’ di legittimo sforzo, potrà godere di una ritrovata capacità di penetrare in confini che altri saggi non consentono.
Ma è forse l’amore per Kant, ovvero per la sua filosofia, che traspare indirettamente dal saggio. Probabilmente questo è un sentimento che non sarà equivalente al rispetto, certamente, ma è comunque qualcosa che spinge verso di esso. E fra l’altro gli esseri umani senza amore non sono capaci di vivere, qualsiasi cosa significhi amare e vivere. E diciamolo: l’amore e la stima incondizionata sono tra quelle poche cose che dovrebbero contraddistinguere un vero studioso di una materia, laddove la dissezione di un cadavere e la cura verso il prossimo si distinguono proprio dal fatto che al primo tributiamo rispetto, mentre al secondo riconosciamo un vero e proprio valore emotivo inalienabile. Cosio dimostra, così, che Kant non è e non sarà mai un corpo da portare all’attenzione di freddi chirurghi, ma prima di tutto è anch’egli un filosofo da amare prima ancora che da rispettare. Nel pieno e totale senso di questa parola.
Sonia Cosio
Il rispetto inKant
AlboVersorio
Pagine: 78.
Euro: 9,00.
[1] Cosio S., (2016), Il rispetto in Kant, AlboVersorio, Milano, p. 70.
[2] Ivi., Cit., p. 69.
[3] Sul problema del formalismo si è già detto sopra, ovvero la rivendicazione di Kant per cui il soggetto è moralmente buono solo se assume la legge morale come causa del suo comportamento, che è in questo caso autonomo proprio in virtù dell’autonomia della legge morale in lui rispetto alle cause esterne.
[4] Ivi., cit., p. 69.
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