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L’esibizione è l’apparenza di una singola persona concepita nella sua interezza. In questo senso, l’esibizione è sempre un atto la cui causa risiede nell’esistenza stessa di un soggetto, riconosciuto intersoggettivamente. Sicché l’esibizione non esisterebbe, se non esisterebbero gli altri. Da qui lo scetticismo nutrito su chi sostiene, piuttosto ingenuamente, che in un’isola deserta ci si mostrerebbe esattamente come al centro di Manhattan. E’ falso per la semplice ragione che in un caso l’esibizione non c’è, mentre nell’altro c’è: ovvero, in un caso l’esibizione semplicemente non sussiste. Perché? Perché l’esibizione è un fenomeno in cui il soggetto è solo una parte, mentre l’altro è l’osservatore. Tolto il soggetto è tolta la sua esibizione. Tolto l’osservatore è tolta l’esibizione, dall’altro estremo.
Quindi, si può dire che il soggetto sia il noumeno kantiano rispetto all’osservatore (perché quest’ultimo non può sapere cosa passa realmente nella testa del soggetto). E l’associazione con il kantismo non è un caso perché Kant stesso nella prima critica (Kant (1787)) sottolinea il fatto che la conoscenza dell’altro soggetto ricade nella metafisica, ovvero fa parte del noumeno che ha importanti ricadute in sede morale ma non da un punto di vista epistemologico, laddove esso è appunto il limite stesso della ragione conoscitiva. Dal punto di vista dell’osservatore, l’esibizione è ciò che può essere esperito immediatamente. Soltanto in seconda istanza l’osservatore può riconoscere il soggetto come tale, ovvero riconoscergli, per esempio, una certa personalità.
L’esibizione diventa consapevole e viene richiesta proprio perché c’è uno spettatore, anche fosse se stessi o fosse soltanto ipotetico. Per coloro i quali indagano le modalità di selezione dei sistemi per arrivare ad una buona esibizione è fondamentale la presenza dell’altro, semplicemente perché senza uno spettatore il loro lavoro è del tutto inutile. Va da sé che nella costruzione del complesso dell’esibizione si introduce la presenza della selezione sessuale (Pili (2014)). E infatti gli animali sono soggetti anch’essi alle stranezze dell’esibizione, laddove i caratteri sessuali dei maschi sono enfatizzati oppure passano attraverso la costruzione di un apparato apposito, come le corna dei cervi: la femmina seleziona il suo maschio da prove di forza o di apparenza. Ma se le prove di forza sono non necessarie, le prove di apparenza sono, invece, necessarie (Darwin (1859)).
Infatti, l’apparenza è il modo attraverso cui la natura fa passare il pane con il salame: una femmina di un cane non può sapere se il DNA del partner sarà buono nella congiunzione con il suo, non può neppure sapere se ha tare fisiche, ma se a lei il partner sembra inadeguato, allora non se ne fa niente. Tutto questo, è evidente, vale anche per gli esseri umani: non abbiamo accesso all’analisi fisico-chimica dell’elica del DNA del nostro partner e c’è un senso chiaro in cui questo non è interessante. Perché? Perché la natura ha costruito forme di esseri viventi capaci di selezionare capacità trofiche in funzione di un riconoscimento per apparenza e non per sostanza.
Questo si vede bene agli estremi: la deformità è nel mondo animale rifiutata, perché la forma è riconosciuta inidonea da un punto di vista sessuale (così esplicitamente in Darwin (1859)). Quindi, è molto utile, dal punto di vista della specie, selezionare dei sistemi di apparenza che fanno passare virtù biologiche. Questo è il motivo per cui dalla dea madre alle top model si conservano segni distintivi di fertilità: sedere e seno. Il sedere è la parte che conserva il sesso della femmina, mentre il seno è ciò che soddisfa le esigenze alimentari della prole, ovvia zona erogena riconosciuta teoreticamente come tale sin da Freud. L’assurdità, poi, delle variazioni delle regole intersoggettivamente riconosciute si mostra dal fatto che pur di mostrare un seno prosperoso, pur senza avere il fisico giusto (perché il seno è principalmente grasso), si ricorre al mezzo invasivo della chirurgia (cfr. 8) o di altri espedienti più o meno imperfetti.
All’interno dell’esibizione non si può sopprimere il richiamo sessuale, richiamo inteso in senso generale, ovvero anche come segnalazione di infertilità. Innanzi tutto, va qui notato che esistono molte asimmetrie tra i sessi (si veda Pili (2015)) e questo impone evidenti variazioni anche nell’esibizione relativa. Innanzi tutto, le femmine hanno perlomeno la scelta di segnalare disponibilità, fertilità o di essere, appunto, femmine: i capelli, per esempio, sono oggi il segno più distintivo a disposizione dei due sessi per mostrare differenze. Non è un caso perché gli abiti ordinari e quotidiani sono sempre più ambigui sotto questo punto di vista, perché si dice che bisogna essere uguali in tutto. Si tratta naturalmente della solita spiegazione che richiede intenzioni attive anche da parte di chi non pensa minimamente a queste cose. Salvo poi il problema chiaro che normalmente un maschio (in senso di genere anche quando scelto e diverso da quello biologico) vuole apparire come tale: se ad un maschio si dice che si veste da donna, probabilmente gli si impone un fastidio psicologico. Ad esempio, anche se sono un sostenitore della piena e completa parità dei diritti, a me non piacerebbe che qualcuno mi dicesse che mi vesto da donna. Stessa cosa vale per il viceversa.
Il sesso entra dentro l’esibizione molto più attraverso il trucco che non attraverso il vestito. Questo non tanto o non solo perché maschi e femmine hanno ormai una percezione reciproca di totale indistinzione perché si continua ad essere distinti (non necessariamente diseguali, che è un’altra cosa). Ormai il mondo del lavoro vede le donne presenti in tutte le attività in cui sono presenti gli uomini, anche quando in maggioranza (come nell’esercito). Come già visto (cfr. 3), l’abito è vincolato alle norme riconosciute intersoggettivamente relative ai contesti d’uso. Dato il fatto che i diritti di esercizio del lavoro sono grossomodo identici per generi, allora cade il senso della distinzione sul piano dell’apparenza. Ha senso distinguersi se questa distinzione assume uno scopo. Ma una volta che la distinzione perde di utilità vincolata ad un obiettivo sancito da una credenza disposizionale con alto grado di forza motivazionale (Pili (2015c)), allora non ci si sforza in questa direzione. Risultato: nella società in cui gli uomini e le donne hanno poche ragioni per distinguersi, semplicemente si vestono allo stesso modo. Anche se questo è vero sino ad un certo punto, come si è già visto. La volontà propria dei generi di distinguersi e richiamarsi l’un l’altro resiste ad ogni retorica di appiattimento anche in campo estetico.
Tuttavia, il sesso ritorna nel trucco proprio perché è tipicamente l’area di intervento dell’assenza della copertura. Si costruiscono segni e segnali proprio laddove si può farlo. Un vestito con sopra del trucco è un vestito sporco. Ma un volto con del trucco non è necessariamente bello, ma sicuramente non è sporco. Se lo è, non lo è certo per il trucco: una macchia di rossetto su una camicia è sporcizia, mentre sulle labbra non lo è. E’ lo stesso materiale, è la stessa cosa ma la percezione delle due cose è distante.
Questo vale tanto per i maschi che per le femmine. I maschi possono enfatizzare la muscolatura con magliette che lasciano molto spazio vuoto, possono mettere in rilievo la fascia alta della muscolatura con camicie lasciate aperte etc.. Le donne hanno molta più libertà, qualora venga intersoggettivamente concessa, perché la loro sessualità investe più parti del corpo di quelle di un uomo, ovvero più parti del corpo sono in grado di richiamare la loro sessualità. Sul trucco si ritornerà (cfr. 8), per il momento valeva la pena di segnalare il punto.
Il trucco più il vestito è il grosso oggettivo dell’esibizione, perché il trucco e il vestito sono semplicemente degli oggetti posti sopra un corpo. Il resto è giocato, appunto, dal corpo sia in senso statico che dinamico. Non è un caso che i corpi riconosciuti più idonei siano soltanto alcuni e non tutti e variano dalle condizioni economiche e sociali di una società di riferimento. Quando il grasso era un alimento per ricchi, esserlo era sintomo di distinzione positiva. Perché da che mondo è mondo i ricchi vogliono distinguersi e i poveri devono seguire a ruota. Non sarà bello e senza dubbio è moralmente discutibile e io posso ritenere senza problemi che sia un fatto odioso, ma fa parte di quei processi inevitabili che bisogna pur considerare. Quando il grasso è diventato diffuso e distintivo di chi sembra inefficiente, ecco che il grasso è diventato un discrimine negativo anche se non del tutto. Infatti, in natura il grasso è sintomo trofico perché serve a salvare l’animale dai momenti di difficoltà alimentare: l’avidità alimentare è dannosa solo per chi vive già nell’agio e può ricuperare scorte caloriche a piacimento e senza sostanziale attrito da parte del mondo. Ancora oggi, ho sperimentato che la maggioranza delle persone che conosco preferiscono stare con persone con un po’ in carne, piuttosto che con persone del tutto prive.
In ogni caso, anche il corpo è soggetto a norme sociali condivise che sono per lo più il riflesso della valutazione dei valori socioeconomici della persona. Per esempio, in stati totalitari e militaristi il culto del fisico muscoloso era portato all’estremo. Nelle società democratiche, invece, si assiste ad una maggiore attenzione alla distinzione di censo, laddove è il censo a determinare più vantaggi che svantaggi all’interno della compagine sociale. Inoltre, il censo è pur sempre suscettibile di variazione, almeno in linea di principio, legata a qualche genere di merito non vincolato a norme fisse o categorie a priori di persone (Pili (2015b)).
Oggi lo sport è il segno di colui che può investire del tempo per esso, cioè quasi nessuno: disoccupati, studenti, single o molto ricchi. Disoccupati, studenti e single sono tre tipici esempi di categorie se non negative, comunque che condividono delle difficoltà: lo studente non è economicamente indipendente, come il disoccupato e il single deve trovare il partner ed è sul piano familiare improduttivo (non può generale prole). E non è un caso che le celebrità si sottopongano a folli addestramenti e attività fisiche sfibranti solo per mantenere il corpo in modo che valorizzi certe qualità piuttosto che altre (si invita il lettore a cercare sulla rete i video dedicati a questo scopo).
Infine, una parte importante dell’esibizione passa attraverso la costruzione dell’apparenza dinamica, cioè dei gesti, della modulazione della voce e degli odori. Vale a dire tutta la parte dell’esibizione che passa attraverso altri sensi che non sia la vista. Sia detto per inciso che questa insieme di componenti è tutt’altro che collaterale e, talvolta, è quasi centrale quanto la parte visiva. Infatti, i gesti fanno passare l’educazione e la relativa sofisticazione della persona (cioè il tempo impiegato per l’addestramento specifico), stessa cosa per la modulazione della voce (che cambia, ad esempio, rispetto ai legami affettivi intrattenuti da una persona). Mentre gli odori sono qualcosa di primordiale e complesso allo stesso tempo. Molte donne utilizzano almeno una crema per l’idratazione completa del corpo, c’è poi quella specifica per il viso, struccanti o truccanti etc.. Non solo hanno creme per specifiche parti del corpo (solo per il viso ne esistono infinite), ma più di una per esse e diverse per età. Ed è quasi un uso universale (inferenza induttiva (Pili (2014b)) fondata non solo sulla mia esperienza diretta). Tutte queste cose hanno un odore. Se gli odori non sono bene armonizzati comportano un odore sgradevole, sicché richiedono anche loro studio. I maschi, invece, hanno problemi di sudorazione più marcata in varie zone del corpo (ascelle, pube e piedi) sicché anche loro apprendono i modi per evitare di sommare più odori in modo disarmonico.
L’esibizione, dunque, è il complesso dell’apparenza che si intrattiene nella relazione tra soggetto e osservatore. Essa è soggettivamente orientata alla costruzione di un fenomeno complesso che investe tutti i sensi, la propria sessualità e la propria presenza dinamica nel mondo (questo è particolarmente evidente nel caso dei tacchi Pili (2016)). Il corpo rientra pienamente all’interno dell’esibizione, anche perché esso è una componente imprescindibile di ciò che il soggetto è. Tutti noi siamo (almeno) il nostro corpo, quindi è il nostro corpo che prima di tutto deve apparire in modo perlomeno accettabile nel contesto in cui siamo (si faccia caso che addirittura i cadaveri sono suscettibili di trattamento ante sepoltura…). E il contesto, ovvero le regole intersoggettivamente riconosciute in esso, fa da limite ai potenziali desideri del soggetto. L’altro limite è il corpo e gli oggetti utilizzati dal soggetto stesso.
Il soggetto è, dunque, colui che si fa interprete delle regole intersoggettivamente riconosciute nei vari contesti sociali (un altro elemento che mostra il fatto che queste regole sono parte del mondo sociale e non del soggetto o dell’oggetto). Il soggetto però ha inevitabilmente anche l’onere dell’interpretazione delle sue esigenze rispetto al contesto in cui si trova. Ad esempio, si può pensare di fare buona figura in un contesto formale utilizzando la giacca ma senza cravatta perché, per esempio, al soggetto la cravatta non piace o lo fa sentire eccessivamente carico di significati (e quindi in soggezione). Sicché le esigenze soggettive sono istanze che la persona inevitabilmente considera all’interno della sua esibizione, anche se è consapevole che le sue istanze soggettive devono essere armonizzate: per quanto possa sentirsi a suo agio nudo, egli dovrà trovare comunque un accomodamento.
[Per chiunque voglia scaricare l’articolo integrale: The system of fashion]
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