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Il Coriolano è una delle ultime tragedie di William Shakespeare, ambientata durante il primo periodo dell’antica Roma. Che il periodo romano fosse caro al bardo di Avon è testimoniato da diversi lavori ispirati ad esso: Tito Andronico, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra sono le opere principali dedicate a Roma e, come si vede, non sono ristrette ad una particolare fase della storia di Roma. Il Coriolano, dunque, è la tragedia di Caio Marcio, uomo d’onore, d’arme e irrimediabilmente iracondo. Se l’onore spinge l’uomo a compiere grandiose gesta, l’ira può condurre lo stesso uomo alla cancellazione del valore delle stesse gesta compiute. Sicché, dunque, la tragedia è impostata su Caio Marcio, poi noto come “Coriolano” per via della conquista della città di Corioli, in mano ai Volsci, il cui capo era Tullo Aufidio.
La trama è abbastanza semplice. Roma va in guerra contro i Volsci. Coriolano si distingue come capo militare e prende la città. Uomo dell’aristocrazia, già in odio alla plebe, odio pienamente ricambiato, si rifiuta di mostrare le ferite di guerra al popolo romano. Dopo che la dispotica madre, Volumnia, si impone, aiutata dalle parole del saggio amico di famiglia, Menenio Agrippa (quello della celebre storia, compresa nella tragedia, sulla divisione del lavoro – considerata come equa – tra plebe e aristocrazia…): Volumnia e Menenio Agrippa convincono Coriolano a mostrare un po’ di accondiscendenza al popolo, così da poter essere eletto console di Roma.
Ma Coriolano ha un senso della dignità troppo alto e, soprattutto, la sua ragione è totalmente dominata dall’ira. I tribuni della plebe, Bruto e Sicinio, lo sanno bene come lo sa bene Aufidio: i tribuni provocano Coriolano fino a farlo cedere. All’ira di Coriolano segue la sua cacciata dal suolo romano. Ma Caio Marcio è un uomo d’onore, cioè un uomo che ad un torto oppone un’azione riparatrice per ripristinare quella che egli avverte come una “parità perduta”. Si reca, così, dai volsci, parla al suo antico acerrimo nemico, Aufidio, e gli propone di marciare su Roma. Sembra, così, che Roma stessa sia segnata, dall’avanzare inclemente dell’esercito dei volsci, condotto dal più fiero e capace dei comandanti romani. La sorte dei romani sembra segnata, ma la madre Volumnia, più che la consorte Virgilia, si impone nuovamente. Il figlio si convince e desiste. Ma la sua morte è prossima, la morte di un uomo la cui ira e il cui senso dell’onore gli ha privato della ragione. E tutti sanno che il sonno della ragione genera mostri.
Il Coriolano sembra che tratti della storia di un uomo iracondo, orgoglioso e d’onore, la cui tensione nasce proprio dall’eccesso sia della sua virtù (senso della patria e quindi dell’onore) sia del suo principale vizio (l’ira). Ed è in parte così, infatti. Una volta che Coriolano sente venire meno il suo onore, si scaglia con violenza contro la causa percepita di questa diminuzione. Allo stesso tempo, alla violazione del suo senso dell’onore, segue l’ira. Sicché da una causa forse giusta, segue un effetto sconsiderato. Come testimonia il suo tradimento verso la patria.
Coriolano è causa della sua stessa grandezza e della sua stessa pochezza: capace di conquistare una città intera e piegare la volontà dei nemici più temibili, è però incapace di amare sua moglie e suo figlio, di riconoscere negli altri una parità di diritti. E’ vero che Coriolano è anche un uomo modesto, non si pubblicizza mediante vanterie e minimizza i suoi pregi in pubblico. Questo semplicemente perché riconosce l’onore e la virtù come premi a se stessi, a tal punto che si ribellerà di fronte alle argomentazioni di Menenio Agrippa, sul mostrare i segni della guerra impressi sul suo corpo. Sembra il classico caso in cui un eroe è causa del suo stesso destino di dissoluzione. Ciò è in parte vero e in parte no. Perché una parte della colpa, e quindi della tragedia, non è realmente nelle mani di guerriero di Coriolano, non è nelle suppliche dell’inutile moglie, non è nelle piccole gambe del figlio-appendice. Ma è nella vigorosa testa della madre Volumnia.
La tragedia di Coriolano nasce dalla madre dispotica, come viene mostrato in vari punti della tragedia, ma su tutti, in questo:
Volumnia Ti prego ora, dolce figlio; come dicesti che furono le ie lodi a fare di te un soldato, per le mie lodi ora adattati ad una parte che non hai mai fatto prima.
Coriolano Bene, debbo farlo. Via, animo mio, e s’impossessi di me lo spirito di qualche prostituta. La mia gola di guerra, che faceva coro col mio tamburo, si trasformi in una vocetta flautata, come quella d’un eunuco, o nella voce d’una vergine che canta la ninnananna ai bambini. Sorrisi di servi si accampino sulle mie guance e lacrime di scolaretto annebbino il cristallo degli occhi miei! Una lingua di accattone parli per le mie labbra, e le mia ginocchia armate, che si piegavano solo nella staffa, si pieghino come quelle di chi ha ricevuto l’elemosina! No, non lo farò; per non cessare di onorare la mia stessa verità e per non insegnare con l’azione del mio corpo all’animo mio una viltà che non si cancellerebbe mai più.
Volumnia Sia tua la scelta allora. E? maggiore la vergogna mia a supplicar te che non la tua a supplicar loro. Vada tutto in rovina: tua madre può soffrire per il tuo orgoglio più che temere per la tua pericolosa ostinazione; perché io ho un cuore grande quanto il tuo per beffarmi della morte. Fa come vuoi. Il tuo coraggio era il mio, da me lo succhiasti, ma la superbia è soltanto tua.
Coriolano Ti prego, sta tranquilla: Madre, vado al foro; non sgridarmi più. Farò il ciarlatano per guadagnarmi il loro amore, ruberò loro il cuore e tornerò a casa amato da tutti gli artigiani di Roma. Guarda, vado; salutami mia moglie; tornerò console, altrimenti non fidarti mai più di quanto possa la mia lingua in adulazione.
Volumnia Fa come vuoi.[1]
Un dialogo eccezionale. L’onore tanto alto di Coriolano dipende interamente dall’approvazione della madre. Non importa davvero fino in fondo cosa ne pensi lui, ma è lei, la Madre ossessiva, a dominare la mente e la volontà del condottiero romano. Coriolano, allora, non è altro che un insicuro, le cui insicurezze nascono dall’educazione improntata alla superbia (mascherata da altri epiteti), educazione di stampo materno. La madre, infatti, sa bene come soggiogare Coriolano: prima gli nega l’assenso, poi lo sbugiarda e quando Coriolano si arrende, fa finta di non fidarsi: “fa come vuoi”, schiaffo morale definitivo. Prima si mostra come il figlio sia un fedifrago, un matricida quasi, rinnegatore dell’amore della sacra madre. Dopo, il figlio è ridotto alla berlina, come essere di per sé incapace. E, infine, quando il figlio mostra la sua dipendenza finale, la resa alla Madre-Donna, allora la Donna-Madre, come un’amante (come Cleopatra con Marco Antonio), non accorda la fiducia soltanto per ribadire che è lei a dare senza prendere. Essa è, cioè, il dominatore assoluto.
Volumnia, dunque, è il personaggio realmente centrale della tragedia. E’ lei che determina il destino del figlio. Ne aveva voluto fare un fiero condottiero solamente per consentirgli di fare una scalata sociale che lei aveva stimato per lui onorevole. Questo fine onorevole si traduce in prestigio indotto dal potere che lei non avrebbe avuto, ma avrebbe vissuto in seconda sponda grazie al figlio. Sicché il figlio è, per lei, la sostituzione del marito, da un lato, e il segnaposto della sua volontà proiettata nel mondo. Sarebbe stata Volumnia a dominare Roma attraverso Caio Marcio, non viceversa. Coriolano è sempre un piccolo bambino in cerca dell’approvazione della Madre-Donna, sua vera sposa ideale. E infatti non c’è marito. Non c’è padre e non si invoca neppure il suo passato come modello di virtù. Del padre di Coriolano non si sa niente. Perché probabilmente non c’è niente che valga sapere di lui, semplice donatore di sperma per colei che aveva già abbastanza per entrambi, da essere madre e padre. Di Volumnia si sa più che abbastanza.
La tragedia sta nel fatto che il destino di entrambi è segnato. Coriolano cresce da bambino orgoglioso, sprezzante di ogni altro individuo che, ai suoi occhi, è un impari. Perché Volumnia sa bene che dal disprezzo nasce l’orgoglio, dal riconoscimento di una superiorità presunta nasce il bisogno di dimostrare tale superiorità. E infatti Coriolano supera tutti, perché è talmente convinto di essere pari a nessuno che alla fine realizza la condizione desiderata: diventa davvero il migliore dei romani. Ma alla fine, proprio il disprezzo, l’onore e l’orgoglio determinano il suo tradimento alla patria, alla sua famiglia (indirettamente) e a se stesso. Ma non alla madre. Che ancora una volta gli impone la sua volontà. Ma ormai è troppo tardi. E’ lei la causa del male. La causa della vita disperata di un uomo che ha ucciso tanti altri suoi simili ma è stato distrutto dalla semplice opinione. Come avrebbe detto Sun Tzu, un generale troppo attaccato alla sua opinione può essere umiliato (con profitto, si intende…). E dall’umiliazione di Coriolano nasce la sua stessa morte, per mano di una congiura. Tanto avrebbe vissuto male comunque. Perché simili casi, casi in cui la madre gestisce il figlio come un segnaposto, non sono altro che la causa dell’infelicità perpetua di entrambi, con in sovrappiù il problema che simili persone, così convinte della loro superiorità, si industriano in mille modi per ripagare il mondo della loro incapacità ad accettarlo per quello che è.
Shakespeare ama costruire le tragedie su un punto focale, un punto in cui due forze antitetiche, morali, si oppongono eco che si ritrova nell’altro genio dell’ambiguità umana, Orson Wells, amante di Shakespeare come pochi altri. In tutte le sue tragedie è un uomo normale, buono secondo le circostanze, cattivo secondo la mutazione di quelle stesse circostanze, a pagare il prezzo. E spesso il dramma sta nel fatto che l’ambiguità del valore del singolo risalta attraverso la presenza di un personaggio dai tratti più decisi non necessariamente malvagi in sé e per sé. E’ lo Jago dell’Otello, è la Lady Macbeth del Macbeth, è il Cassio del Giulio Cesare e l’elenco potrebbe continuare.
Dunque, le tragedie di Shakespeare nascono da un uomo con vizi e virtù che si compensano ma che, se posti nelle giuste circostanze, possono condurre l’uomo all’autodistruzione, un’autodistruzione prima di tutto morale (si pensi ad Amleto, Bruto, Macbeth e Otello…) e poi anche fisica, quasi che l’uomo non possa resistere alla dissoluzione della sua stessa dimensione morale.
Sia chiaro che gli eroi di Shakespeare sono, sì, ambigui ma tutt’altro che uomini mediocri. Prima di tutto, Shakespeare dimostra di considerare la plebe come una “moltitudine dalle molte teste” (per usare una immagine sua), cioè principalmente un essere amorfo e privo di qualità: varia in funzione di chi riesce a polarizzarne l’attenzione, di per sé incapace di avere una volontà quale che sia. In secondo luogo, i personaggi di Shakespeare non sono normali perché hanno delle qualità, buone o cattive, fuori dal comune: Amleto è un filosofo anche di talento, Macbeth è un bravo condottiero, Coriolano è un feroce uomo d’arme, Bruto è una persona dal carattere politico sensibile e di intelletto fino. E l’elenco potrebbe anche continuare. Ma la questione sembra dunque essere questa: che anche uomini dotati di virtù straordinarie possono distruggersi, anche il maggiore dei beni può diventare la causa della fine stessa della grandezza. Questo è il punto. Tutti uomini di genio, tutti uomini di per sé integri e geniali. Tutti uomini che andranno incontro all’autodistruzione. Questa è la tragedia. La tragedia di uomini normali, perché ambigui, e straordinari, perché dotati di peculiari qualità.
E così, dunque, il Coriolano è la tragedia dell’amore di una madre-donna, la cui volontà si traspone a tal punto su quella del figlio da indurlo all’autodistruzione. E allora, ancora una volta, grazie al genio di Shakespeare scopriamo che i drammi di tanti figli unici (e non solo), com’era Coriolano, non è figlio dei nostri tempi, come quasi sembra suggerire Nanni Moretti in Cario Diario. E’ l’essere-madre che può condurre ad un aborto postposto. Perché ogni figlio è tale solo se è davvero libero. Come non lo era Coriolano.
William Shakespeare
Coriolano
[1] Shakespeare W., Coriolano, in Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano, Garzanti, Milano, 1979, pp. 268-269. Corsivo nostro.
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