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Falstaff: Ma dire anche io conosca in lui maggior danno che in me stesso, sarebbe dire più che quel che so. Ch’egli sia vecchio – purtroppo! – ci sono i suoi capelli ad attestarlo, ma ch’egli – con rispetto parlando – sia un puttaniere, lo nego assolutamente. Se il vin di Spagna e lo zucchero costituiscono una colpa,Iddio aiuti i peccatori! Se esser vecchio ed essere allegro costituisce una colpa, allora io conosco più di un vecchio oste che per questo è dannato; se basta esser grassi, per esser odiati, allora vuol dire che bisogna amare le vacche magre di Faraone. O, mio buon signore [rivolto al principe Harry]: bandisci da te Peto, bandisci Bardolph, bandisci Poins [tutti i compari di Falstaff]: ma il leale John Falstaff, il valoroso John Falstaff, e tanto più valoroso in quanto egli è anche il vecchio Jack Falstaff, non lo bandire dalla compagnia del tuo Harry: bandire il ritondo Jack sarebbe come bandire il mondo intero.
Harry: Eppure puoi star sicuro che lo farò![1]
La storia di re Enrico IV è una tragicommedia di William Shakespeare ed è, giustamente, considerata un supremo capolavoro del grande bardo inglese. Si tratta sicuramente di una delle opere più godibili e più affascinanti della produzione di Shakespeare, quasi incapace di scrivere lavori privi di una loro peculiare forza e interesse. La storia è ambientata alla corte inglese, il cui re, Enrico IV, è messo in discussione da alcuni nobili, per via della modalità di conquista del trono: per quanto fu designato dal predecessore, Riccardo II, Enrico IV non era il discendente in linea diretta del vecchio re. Inoltre, i nobili rivoltosi non hanno soltanto rivendicazioni politiche, ma anche personali, avocando contro il re offese ricevute a livello personale. Enrico IV, d’altra parte, è principalmente angosciato dal figlio, erede al trono (il futuro Enrico V), il principe Harry. Harry ama intrattenersi con personaggi di dubbio valore umano e sociale, tra cui svetta il ‘principe dei bricconi’, John Falstaff.
La tragedia dell’Enrico IV si gioca non tanto sugli intrighi di potere, come in Macbeth, anche in quell’occasione sfruttati per tratteggiare le fosche conseguenze di un conflitto di volontà (tra lady Macbeth e Macbeth stesso), ma sulla relazione, interazione, incontro e scontro tra padre e figlio. Infatti, la tragicommedia si gioca su due piani differenti ma interrelati: da un lato, il conflitto tra Enrico IV e suo figlio, con il parallelo rovesciato dei traditori, Henry Percy (un altro Harry) e suo padre, il conte di Northumberland; da un altro lato la relazione di amicizia tra il principe Harry e John Falstaff. La struttura dell’opera è, dunque, quadruplice nel momento in cui Shakespeare riserva molto spazio sia al problema generazionale padre/figlio, sia alla relazione tra il potere e la legge nelle sue congiunzioni con l’illegalità, tollerata quando utile e mal tollerata all’occorrenza. Il risultato sta in singole tragedie individuali (quella di re Enrico IV e quella di John Falstaff, quella di Harry Percy e quella del conte di Northumberland) il cui carattere è molto differente sia perché i vari personaggi hanno obiettivi, volontà e caratteri estremamente diversi, ma anche perché la dinamica della storia presentata in Enrico IV mostra come la ragion di stato, limata da opportuni interessi egoistici individuali, comporti un sacrificio collettivo: Enrico V sacrificherà la sua vocazione alla licenza per sposare una causa (quella del dominio) più sobria ma più utile, Enrico IV morirà senza poter vedere i frutti della conversione del figlio amato e odiato, Harry Percy verrà ucciso in battaglia da un uomo meno valoroso di lui e il conte di Northumberland vedrà la morte di suo figlio e il fallimento pieno e totale della ribellione. Ma è John Falstaff la chiave di volta della tragicommedia, personaggio dai tratti fortemente umoristici ma primo a pagare tragicamente il suo prezzo: egli, uomo innocuo, dipinto come truffatore da quattro soldi ma di “gran cuore” (così l’ostessa Quickly), verrà tradito dal potere e dall’amico, prima compagno di bagordi e amato come un figlio.
Orson Wells intitola uno dei suoi capolavori Falstaff (1965) perché, come giustamente avrà osservato un genio ed esperto perito della rappresentazione shakespeariana, tutto l’Enrico IV si gioca proprio sul Falstaff (nel film non a caso interpretato con amore e perizia dal grande Wells stesso). E’ Falstaff il personaggio dominante, questo buffone innocuo e arrivista, altruista quanto egoista, innocuo quanto dannoso, licenzioso quanto generoso. Falstaff ama Harry come un figlio-compagno e non come un figlio-sottoposto (come Enrico IV). Falstaff ama Harry come un padre mediocre ama il figlio più valente: con un’ammirazione totale, capace di sacrifici e abnegazione, dimostrato da Falstaff nelle dolenti pagine finali, quando la sua attenzione è tutta devoluta ai modi di far felice l’amato compagno di bagordi, Harry. Mentre Enrico IV è il padre-giudice, rancoroso e speranzoso di ritrovare un figlio prono alla sua volontà, Falstaff, capace di autocritica all’occorrenza, accetta Harry per quello che è. Sa che è un “leone” ancora giovane, sa anche che ha una pasta migliore della sua (sub condicione…), ma non per questo ne ha a male: al contrario, Falstaff è uno di quegli uomini che ammira la grandezza degli altri non perché la vorrebbe, ma proprio perché sa cogliere la bellezza di ciò negli altri. Tutto il contrario di Enrico V.
Falstaff, dunque, è il perno su cui ruota la storia, anche perché le pagine dedicate soltanto alla sua favella loquace, ardita e divertente sono probabilmente almeno 1/3 dell’intero capolavoro. Se, da un lato, Falstaff è il padre-amico, è anche il prezzo del sacrificio dell’ascesa al vero potere di Enrico V, che compie ben due ‘parricidi ideali’: il primo si mostra quando il re Enrico IV è morente e si risveglia da un sonno angoscioso e vede il figlio con i drappi del potere. Enrico IV rimprovera aspramente il figlio, rinnegandolo. Ma è il classico caso in cui una cattiveria proferita serve a sondare le vere intenzioni, quasi che la scatola nera della mente umana sia sondabile solo mediante delle coltellate non profonde, così da vedere la forza di reazione e l’intenzione dell’incompreso. Infatti, il principe Harry mostra al padre una abnegazione finale che mal si concilia con tutta la sua storia, simboleggiata da quel tradimento ideale nell’attesa della morte del padre.
Il secondo parricidio di Harry è proprio conto John Falstaff. Falstaff, uomo totalmente innocuo, ubriacone, fa parte di quella schiera di individui né particolarmente buoni né particolarmente cattivi che, però, è capace di grande amore verso il prossimo, un amore irrazionale e sconsiderato, che loro stessi non capiscono ma totale. Sicché John è uno di quegli uomini egoisti ma sostanzialmente troppo stupidi per essere spregiudicati: troppo stupidi e troppo buoni, alla fine dei conti. Non così Harry che umilierà pubblicamente Falstaff, lo costringerà alla prigione per mostrare a tutti la cesura tra lui e il suo passato. Il vecchio amico, il vecchio compagno, il padre-amico viene prima umiliato, poi messo ai ceppi con la motivazione che, in questo modo, questo sconsiderato e inetto essere umano avrebbe imparato a vivere bene, giacché Falstaff era vecchio, grasso, col fegato gonfio: tratti esagerati e classicamente oggetto di derisione dei giovani ai vecchi.
Di fatto, Falstaff fa parte di quella umanità che getta i prerequisiti del mondo nichilista, pur non essendolo egli stesso: Falstaff, infatti, rispetta l’ostessa, ama Harry, accetta i valori della vita senza criticarli, incapace, com’è di farlo. Le uniche riflessioni di Falstaff di fronte ai valori falsi del potere (riconosciuti e adottati proprio da Enrico V), davvero nichilisti perché vuoti in sé e per sé, sono quelle del piccolo uomo di fronte ad una incomprensibile dinamica della storia che lo vuole soggiogare come schiavo e a cui egli si rifiuta di accettare passivamente la sorte, con la sua consueta ironia:
Falstaff: Che bisogno ho io di far lo zelante con chi non si preoccupa per nulla di me? Be’, non importa. L’onore mi spinge innanzi. Ma se poi l’onore mi leva di mezzo proprio mentre io vado innanzi, che succederà? Può l’onore rimettermi una gamba? No: o un braccio? No: o far sparire il dolore d’una ferita? No: l’onore non sa nulla di chirurgia, allora? No. Che cos’è l’onore? Una parola. E che c’è, in questa parola “onore”? aria. Bell’acquisto! E chi ce l’ha? Quel tale che è morto lo scorso mercoledì. Lo sente? No. L’ode? No. E’ qualche cosa che i sensi non possono afferrare, allora? Si, proprio, per i morti. Ma non vivrà dunque con i vivi? No. Perché? La calunnia non lo sopporterà. E quindi non so che farmene. L’onore non è altro che uno stemma di quelli che si usano nei funerali; e così finisce il mio catechismo.[2]
Un catechismo di un falso nichilismo, un nichilismo mirato al rifiuto di ogni compromesso folle con un potere incapace di giustificare se stesso ma, in fin dei conti, arbitrario e figlio dell’egoismo. Falstaff è troppo ancorato con i piedi per terra, in quella terra calda e umida delle osterie e dei bordelli, cioè della base della vita più elementare ma non meno vera, che mal concilia e si concilia con il potere, sempre sprezzante verso quella stessa base che lo rende tale. E questo sarà la superficiale ragione dell’ostracismo finale di John Falstaff.
Harry è così il figlio spregiudicato che sfrutta la tomba del padre per il suo avvenire ed è, pure, il figlio che odia il padre per quella bontà che non sa ricambiare e, quindi, gliela fa pagare umiliandolo. Solo un grande e fine conoscitore dei meandri della paradossale psiche umana poteva sondare così tanto in profondità dei caratteri immaginari e, per questo, tanto più concreti e reali, quasi impossibile crederli di fantasia. Harry, dunque, è il figlio perverso, incapace di amare e incapace di gratitudine. E non è neppure buono, nella misura in cui sfrutta i suoi padri oppure li distrugge, un meccanismo di un debole che vuole diventare forte alle spese di chi lo ha sostenuto. Harry, quindi, è un essere mediocre, triste ma spregiudicato, nichilista inconsapevole, come mostra pure durante l’inganno che tende ai traditori.
Tornando ad Orson Wells: egli aveva colto tutte queste sfumature nel suo capolavoro, caso raro in cui la risonanza dei secoli si riverbera per produrre opere classiche, cioè eterne, fin tanto che durerà la razza umana (così Wells avrebbe puntualizzato in F for Fake). Sicché l’Enrico IV non è tanto una tragedia in senso analogo a quello di Macbeth, ma è un dramma intimo, che scende nel dettaglio della relazione difficile tra padri e figli, quali che siano i padri e la natura dei figli.
La commedia, però, sta nel modo in cui Shakespeare affronta l’argomento. Le pagine di Enrico V sono imbevute di lazzi linguistici, di giochi di parole, di sberleffi e ritratti umoristici di una bellezza e leggerezza degni di una commedia brillante. Le pagine in cui Falstaff si rapporta con la sua “moglie” ideale (egli, ovviamente, non può sopportare i gioghi degli impegni umani troppo a lungo termine): l’ostessa e Falstaff hanno un rapporto d’amore implicito, in cui l’ostessa lo ricatta con le uniche armi a cui Falstaff non può resistere (cibo, vino e soldi), armi spuntate perché alla fine l’ostessa fa parte di quel popolo semplice, ma generoso per istinto, capace di colpire soltanto in modo lieve, con minacce e borbottamenti perché, in fondo, sono i modi che lei trova per tentare di continuare a mantenere il rapporto con il suo uomo. Ma alla donna/moglie-compagna si affianca la necessità di libertà di Falstaff, mostrata dal personaggio della prostituta-amante, difesa a colpi di spada da Falstaff stesso. Una scena esilarante quanto toccante, che mostra fino a che punto, un po’ per gioco un po’ per rispetto, Falstaff sia, in fondo, un buono incapace di essere cattivo sia nei mezzi che nelle intenzioni.
Enrico V è una tragedia dalla portata universale, in cui tutti i lettori di ogni tempo ritroveranno un pezzo di se stessi, ora sorridendo ora con una lacrima. Perché l’emozione e la ragione raramente si trovano così tanto in risonanza come di fronte ad un simile modo di affrontare le tristi e felici cose umane, sempre per quello che furono: un intrico indistricabile di sentimenti avvolte in un grande gigantesco “gliommero” di gaddiana memoria.
La storia di re Enrico IV
Mondadori
Pagine: 516.
Euro: 10,00.
[1] Shakespeare W., La storia di re Enrico IV, Rizzoli, Milano, 1954, pp. 64-65.
[2] Ivi., Cit., p. 104.
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