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Consigliamo Un mistero in bianco e nero – La filosofia degli scacchi!
Prima muovi e poi pensa! (2015) è un libro di difficile catalogazione all’interno della immensa e variegata letteratura scacchistica. Si tratta di un testo non privo di controversie e questo aumenta la potenziale confusione sulla sua stessa categorizzazione. Categorizzare qualcosa non è di per sé essenziale all’oggetto, però in questo caso ci aiuterebbe a fornire un’idea grossolana, ma almeno parziale dell’opera. Nel caso di Prima muovi poi pensa! questa operazione risulta obiettivamente impossibile. I motivi sono diversi. Non si tratta di un manuale di tattica, pur essendoci una buona quantità di esercizi tattici da risolvere. Di per sé non si tratta neppure di un manuale sulla strategia, anche perché Willy Hendriks (Maestro Internazionale e istruttore) è sostanzialmente scettico a quello che normalmente si intende con “strategia”, cioè una pianificazione razionale di una successione di mosse non forzate da eseguire in sede pratica nel giusto ordine. Possiamo senz’altro dire che non si tratta di un manuale di apertura né di finali, di cui Hendriks pure è parzialmente sospettoso: per i finali, in particolare, sostiene che non siano essenziali per migliorare il proprio livello di gioco almeno sino ad alte categorie (da Maestro in su). In fine, per quanto sia un testo tecnico sugli scacchi, si tratta prima di tutto di un testo godibile: questo significa pochissime varianti, autosufficienza della lettura (non sono richiesti supporti di varia natura), scorrevolezza del testo.
Da quanto sopra emerge, dunque, che il libro Prima muovi poi pensa! è un testo leggibile ad un lettore-scacchista anche di medio-basso livello, per quanto esso non sia propriamente un manuale specifico ma, appunto, aspecifico. Il testo fa parte di quell’insieme variegato di libri dedicati a smontare la fiducia nella razionalizzazione a posteriori di un certo tipo di didattica scacchistica. L’autore si impegna anche ad attacchi frontali a conclamati esperti, come Jeremy Silman, ma in particolare all’idea che esistano precetti generali attraverso i quali giungere alla formulazione della mossa migliore. Un qualsiasi giocatore, GM compresi, non pensano in modo trasparente alla coscienza e via ragionamento semantico (verbale): essi vedono le mosse prima di tutto sulla scacchiera, poi proiettano varianti nell’immaginazione e considerano soltanto pochissime mosse candidate alternative. In poche parole, essi procedono per via di “tentativi ed errori” fino a giungere alla definizione della mossa candidata migliore e la giocano (se la giocano!…). Sicché, sostiene Hendriks, tutto quanto facciamo in sede di razionalizzazione a posteriori è il risultato di una confabulazione del soggetto che non sa neppure perché ha formulato una certa mossa piuttosto che un’altra e, dopo averla giocata, cerca di trovare delle valide spiegazioni per essa. Evidentemente, questo modo di razionalizzare a posteriori non sembra così utile, nonostante sia il fondamento principale della maggioranza della didattica scacchistica propugnata dagli istruttori. Quindi l’obiettivo polemico di Hendriks è proprio il principale metodo didattico, più che tutto il resto.
Hendriks mostra come il metodo di ricostruzione verbale a posteriori delle giustificazioni per le mosse sia perlomeno aleatorio: (1) nessuno pensa così e certamente i GM non arrivano alla mossa candidata mediante un fine processo di analisi “euclidea”, quindi (2) sembra perlomeno discutibile impartire lezioni che poi non sono di fatto traducibili in un sistema di gioco, anche perché (3) non esistono leggi di valutazione universale negli scacchi perché ci sono soltanto elementi “concreti” e contestuali; inoltre (4) è una tendenza universale del soggetto quella di razionalizzare a posteriori quanto non è stato in grado di capire del suo stesso comportamento. A sostegno di queste tesi: il computer mostra che esistono soltanto mosse concrete, singoli tratti che in certe posizioni sono buone e in altre posizioni cattive. In sintesi: non dobbiamo lavorare in modo da rafforzare i nostri ragionamenti inferenziali per via semantica (verbale) perché non ci sono utili o, perlomeno, così utili.
Prima di passare ad una considerazione generale del volume, vorrei mostrare che nessuno dei punti (1-4) sia vero, se con vero si intende che quei punti corrispondano a dati di fatto. Andiamo con ordine: (1) nessuno pensa così (mediante pianificazioni) e certamente i GM non arrivano alla mossa candidata mediante un fine processo di analisi “euclidea”. Probabilmente è vero che non si parta da argomenti come: “data la premessa a e la premessa b segue logicamente c, che mi dice che 3.Ab5! è vera (cioè è una mossa forte)”. Però, prima di tutto non è implausibile che questo ragionamento sia fatto comunque a livello inconscio ed implicito: tutto considerato, non è richiesto che un ragionamento sia necessariamente conscio. Un giocatore esperto può svolgere già queste operazioni verbali a livello implicito. Ma anche se fosse vero che nessuno pensa così (già una dicitura da chiarire…) non vorrebbe dire che questo non sarebbe il modo giusto di pensare: come a dire che siccome nessuno pensa in termini euclidei, allora formulare la geometria in termini assiomatici non ha senso. Tutta la storia della logica formale dimostra il contrario, quella stessa logica formale che ha portato ad essere il computer e, a fortiori, anche il software di scacchi. In fine, non vuol dire che un simile modo di ragionare non consenta comunque, almeno in sede di analisi, recuperare molte interessanti nozioni che altrimenti ci sfuggirebbero… ed effettivamente ci sfuggono in sede di gioco. Quindi, l’asserzione (1) se è vera, essendo un fatto, non implica la valutazione del fatto (fallacia descrittiva); se è falsa… be’ invalida l’assunzione di Hendriks. Veniamo così alla (2).
(2) sembra perlomeno discutibile impartire lezioni che poi non sono di fatto traducibili in un sistema di gioco: anche questo non è detto. Luttwak nel suo The Grand Strategy of Bizantine Empire sostiene questo: anche se oggi pensiamo alla strategia in termini di consapevole ragionamento sui fini e i mezzi per attuare una certa linea (politica) non significa che, siccome in passato questi ragionamenti non erano consapevoli, allora in passato non si aveva un comportamento strategico (si veda l’appendice al capolavoro The Grand Strategy of Bizantine Empire). Chi vorrebbe sostenere che l’Impero Romano e l’Impero Bizantino non avessero una loro strategia? Quindi non è affatto vero che studiare le partite come se ci fossero piani sia sbagliato, anche perché si può seguire una strategia anche senza aver necessariamente pensato “adesso faccio una strategia”. Qui c’è chiaramente una confusione tra il piano didattico e il piano valutativo e il fatto che la didattica può giungere alla valutazione anche in modo diverso da come la valutazione è realmente venuta fuori.
Il punto (3) è un classico, ormai, di un certo modo di pensare comune tra gli scettici scacchistici (che ho considerato in altro loco): non esistono leggi di valutazione universale negli scacchi perché ci sono soltanto elementi “concreti” e contestuali. Prima di tutto: cosa vuol dire che non esistono leggi universali negli scacchi? Questo è falso, considerato che le regole degli scacchi sono anche leggi universali degli scacchi. Ma se invece intendiamo, più precisamente, che non esistono leggi universali di valutazione degli scacchi, allora da ciò ne segue che non possiamo neanche fare valutazioni contestuali: se esiste una valutazione contestuale allora esiste una regola che ci dice che la determinata mossa ha un determinato valore. Se ciò è possibile, allora probabilmente questa regola vale in più contesti simili… ed è esattamente ciò che Hendriks poi finisce per sostenere: esistono posizioni simili in cui la dinamica di soluzione è la stessa. Non per niente coniamo parole come “re al centro”, “attacco doppio”, “forchetta”, “deviazione”, “blocco e autoblocco”, “sgombero di una casa e di una linea”. Se queste parole hanno un significato, allora esse sono regolate da delle norme che ci dicono quando ha senso e quando non ha senso usarle. Quindi perlomeno esistono alcune norme di valutazione estendibili a più contesti. E, volendo, un software di gioco non è altro che un potente sistema di calcolo che associa ad ogni mossa una valutazione: egli non rivede le proprie regole di valutazione, ma la valutazione in base al calcolo. Il computer non cambia se stesso, sicché il computer è esattamente ciò che Hendriks nega sia possibile. Ed è esattamente, paradossalmente, il contrario della tesi secondo cui il computer dimostrerebbe che esistono solo mosse concrete. Altra dicitura strana. Esistono anche mosse non-concrete? Esistono anche mosse astratte? Come a dire: non esiste una legge di gravitazione universale perché ci sono solo singoli gravi che si muovono (non a caso Hendriks riporta il ragionamento humeano sull’invalidità della induzione).
In fine: (4) è una tendenza universale del soggetto quella di razionalizzare a posteriori quanto non è stato in grado di capire del suo stesso comportamento. E’ sicuramente vero e non c’è bisogno di citare la letteratura scientifica e di neuroscienze per mostrarci il fatto che siamo spesso non in grado di riportare le vere ragioni che ci hanno condotto ad una certa scelta. Ma questo non significa che sia sempre così: perché dovrebbe essere esclusa la possibilità che talvolta succeda che il soggetto si racconti proprio la storia vera? Si può anche essere addestrati in modo da farlo sempre (ad esempio). (4) non è né una necessità fisica né logica, ma Hendriks la utilizza come se fosse un argomento decisivo.
In fine, Hendriks dice che fare piani è inutile, anche perché il software scacchistico insegnerebbe proprio che fare piani risulta inutile. Ma poi insegna come utilizzare il software in modo da capire che piano sta facendo (pp. 225-226)! Basta usare la funzione di “passa la mossa” per vedere come intende disporre i suoi pezzi e, da ciò, inferirne il piano come se…. Ma non avevamo già detto che pianificare non ha senso? Che esistono solo le mosse concrete? Stesse considerazioni valgono sul fatto che Hendriks spesso deve spiegare perché una certa mossa sia meglio di un’altra e utilizza ragionamenti analoghi a quelli degli altri criticati istruttori: c’è un capitolo che spiega l’insensatezza del pensare al fatto che la coppia degli alfieri sia migliore della coppia dei cavalli (l’abbiamo già detto: esistono solo mosse concrete!), salvo poi analizzare una posizione come migliore per uno dei due giocatori adducendo… la coppia degli alfieri come preferibile. Si, certo, in quella specifica posizione potrebbe essere vero che la coppia degli alfieri sia preferibile, peccato che sembra che nelle posizioni aperte in linea di massima la coppia degli alfieri sia powerful enough. In fine, Hendriks ha un bel da fare a parlare di simili insensatezze: sta di fatto che un giocatore privo di nozioni strategiche non sa neppure riconoscere il valore della collocazione della torre in colonna aperta! E vi faccio vedere l’esempio che ho verificato essere ostico per tutti i principianti pre-neofiti.
Chi sa risolvere anche matti in tre mosse (e quindi di per certo può calcolare più varianti e almeno tre mosse in avanti) potrebbe non sapere che qui la semplice Td1 è la mossa migliore. Se voi lo date per scontato è perché siete già tra quelli che masticano almeno l’essenziale di scacchi. Questa e altre posizioni dimostrano che gli scacchi sono anche, forse per lo più, una questione tattica. Ma sono anche una questione strategica. E come faccio capire a qualcuno che Td1 è la mossa migliore qui e in altre posizioni senza dirglielo?
In fine, è divertente che molte volte Hendricks ci ricordi che non ha senso chiedersi perché abbiamo fatto una certa mossa e perché abbiamo vinto o perso: in un caso è perché siamo più forti dell’altro e nell’altro caso è perché siamo degli scarsoni. In poche parole: se sei forte, vinci; se sei scarso, perdi. Uno slogan di grande profondità, contrario a tutti quei capitoli che (correttamente) ci dimostrano come la didattica scacchistica sia piena di consigli ovvi, gratuiti e triviali. Si tratta di una constatazione di grande profondità, che cambia il nostro modo di percepire il nostro gioco. Altra constatazione profonda: chi gioca meglio è perché ha in memoria più posizioni risolte e più talento di voi. Domanda: e quindi? Talento e memoria e mosse concrete. Cioè diamoci tutti quanti al calcio, che richiede talento ma poca memoria e nessuna mossa concreta ma solo calci.
Inoltre, mi sia concesso: Prima muovi poi pensa! è un titolo pericoloso. Se è un comandamento corretto, allora perché dovrei comprarlo? Basta che muovo e poi ci penso. E se ci penso, lo faccio solo a posteriori (evidentemente: se prima ho mosso…). Pensiero a posteriori, che è esattamente ciò che Hendriks ritiene inutile. Se è un comandamento errato, allora perché metterlo addirittura nel titolo? Si tratta, evidentemente, di un titolo provocatorio. Va bene, però bisogna comunque stare attenti a non passare il limite che c’è tra la verità e la provocazione.
Detto questo, sembrerebbe che questo libro non meriti di essere considerato interessante. In fondo, sembra che esso sia perlomeno affetto da incoerenze esterne e interne. Ma esso ha almeno due benefici interessanti, a tal punto che la sua lettura risulta comunque piacevole oltreché utile. La sua utilità consiste prima di tutto nel mostrare che anche i giocatori più forti (GM, MI e M) ragionino in modo affine a giocatori meno forti (CM, 1N-3N). Ciò che cambia è la relativa qualità delle mosse candidate che riescono a trovare. Sicché pensare al proprio giocatore come un essere consapevole di ogni sfumatura e variante è fuorviante. Queste due considerazioni aiutano il giocatore a livello psicologico (naturalmente… anch’esso negato di utilità dall’autore, ma tant’è) a fare piazza pulita di molti pregiudizi sul suo stesso gioco e può quindi sentirsi più libero di affidarsi all’immaginazione delle posizioni come tutti gli altri. Altra considerazione piuttosto utile è relativa al fatto che bisogna studiare ciò che piace perché è ciò che più traina allo studio proficuo. Pazienza per altre parti del gioco, l’importante è studiare tanto e bene. E non si può non essere d’accordo, visto che il risultato, altrimenti, può essere l’interruzione dello studio. In fine Hendriks giustamente mette l’accento sul fatto che bisogna analizzare con precisione e il prima possibile le proprie partite.
Sembra che questa sia una recensione altamente polemica. E lo è. Lo è perché il libro tenta di provocare il lettore-scacchista su molti luoghi comuni della didattica scacchistica. E ciò non soltanto non è un male, ma è un grande bene. Perché, come ribadisce più volte l’autore, è importante affinare il senso critico: mettere in discussione, interrogarsi sulla legittimità di quanto ci viene proposto. E allora se il libro è molto discutibile, lo è in senso buono: esso comunque sprona il lettore a considerare aspetti, anche paradossali, che potrebbero sfuggirgli. In fine, si tratta di uno dei pochi libri del settore, un libro tecnico per di più!, godibile e divertente. Il lettore non potrà fare a meno di finirlo. E quindi, tutto considerato, già solo per questo imparare gli scacchi attraverso un simile metodo risulterà infinitamente più utile di tutte quelle mancate letture dei testi tecnici potenzialmente più utili ma di fatto inutili, che figurano bene nelle nostre librerie, salvo poi essere illeggibili per i più e letti solo a piccoli pezzi da alcuni.
Prima muovi poi pensa!
Le Due Torri
Pagine: 251.
Euro: 23,00.
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