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Spesso quando si parla di emigrazione e di colonialismo italiano si trascura una delle pagine meno note della storia nazionale italiana: tra Ottocento e Novecento infatti, gli Italiani furono protagonisti di rilevanti flussi migratori dovuti all’arretratezza agricola che nell’Ottocento caratterizzava l’economia italiana, oltreché ad un apparato industriale quasi del tutto assente. Come è noto ciò indusse migliaia di lavoratori, che vivevano in situazioni precarie, ad abbandonare la penisola alla ricerca di una vita e un futuro migliori. Le campagne diventarono un serbatoio inesauribile di emigranti. La società rurale appare attraversata da una crisi profonda, non riconducibile esclusivamente alla pur grave crisi agraria (1873-1879), dovuta all’arrivo del grano americano che, sfruttando i progressi della navigazione a vapore e beneficiando della meccanizzazione del settore, veniva prodotto a costi infinitamente minori.
Va infatti sottolineato che dopo l’Unità la crescente pressione fiscale dello Stato unitario, la vendita dei beni della Chiesa, l’abolizione degli usi civici e la liquidazione dei demani privarono il mondo contadino di antichi usi civici che, spesso, costituivano importanti voci nei bilanci familiari.
Altrettanto importante appare, come detto, il collasso dell’industria domestica: se al Nord essa veniva sostituita dalle fabbriche, al Sud furono proprio i manufatti settentrionali a soffocare i prodotti locali (eccetto in alcune “isole”) senza incentivare la domanda. Molti settori della proto-industria scomparvero insieme ai mestieri che le avevano ispirate.
All’inizio, negli anni precedenti l’Unità italiana, si trattava di migrazioni all’interno della stessa Europa, le cui mete preferite erano Paesi come Francia, Svizzera, Germania. Ma l’emigrazione italiana iniziò in modo consistente dopo l’Unità italiana, quando, circa undici milioni di italiani, si avventurarono oltreoceano con vecchie navi lasciando l’Italia e dirigendosi verso l’America Latina, Brasile e Argentina, poiché proprio in quei territori, dopo anni di cruenta e massiccia colonizzazione ispano portoghese, vi era una maggiore richiesta di manodopera nelle industrie e perché in quei Paesi vi erano abbondanti territori incolti che sarebbero potuti essere trasformati in campi adatti all’agricoltura e all’allevamento. Infatti, la stragrande maggioranza delle prime correnti immigratorie era composta di contadini che impiantarono nel nuovo territorio le colture e i metodi agricoli tipici delle loro zone di provenienza, a cui si aggiunsero ben presto anche artigiani e commercianti. La cultura che si impose sulle altre fu quella della vite con la conseguente estensione della viticoltura e degli altri derivati dell’uva, che ancor oggi rappresenta la maggior fonte di ricchezza dello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul.
Emigrazione dalle regioni meridionali e percentuale rispetto al totale nazionale[1].
Anno | Numero di migranti | % sul totale nazionale |
1892 | 62.297 | 28,3% |
1901 | 237.198 | 44% |
1903 | 241.312 | 47,8% |
1905 | 352.853 | 48,6% |
1907 | 327.950 | 45,1% |
1909 | 315.873 | 50,5% |
1911 | 203.448 | 38,1% |
1913 | 412.906 | 47,3% |
La traversata atlantica in quell’epoca[2] fu una epopea ancora presente nella memoria collettiva, tramandata in episodi struggenti nei ricordi dei vecchi e nella copiosa letteratura popolare, soprattutto veneto-brasiliana con numerosi canti, poesie e racconti. Così pure rimane nella memoria collettiva l’epopea delle inenarrabili condizioni di arrivo e di insediamento e le lotte della prima generazione per disboscare a braccia la montagna, per difendersi dagli animali feroci, dai serpenti, dagli indios, dalle malattie, per costruire dal nulla strade e abitazioni: un lavoro simile sarà quello svolto dai detenuti delle colonie penali agricole italiane, come vedremo nei capitoli successivi.
Un’emigrazione e una colonizzazione rese complesse dalle condizioni avverse del territorio: esplicativo il caso del Brasile meridionale dove un primo gruppo di emigrati arrivò, dopo indicibili peripezie e sofferenze a quella che oggi si chiama Nova Milano, nei pressi di Caxias do Sul. Dal porto di Porto Alegre essi proseguirono in barconi lungo il rio Caì e poi a piedi, per chilometri e chilometri, attraverso la selva amazzonica, con le poche masserizie sulle spalle, facendosi strada a forza di machete, fino a raggiungere i terreni loro assegnati proprio nella foresta, a nord dei territori pianeggianti e più fertili occupati dalla emigrazione tedesca 50 anni prima. Si può immaginare il costo umano di tutto ciò dopo che essi avevano tagliato i ponti dietro di sé, vendendo i loro poveri averi prima di partire dall’Italia.
Il primato del Sudamerica, dove gli emigrati confluivano per lo più nella lavorazione della monocoltura, si esaurì in vent’anni, a causa di crisi agrarie e politiche; a partire dagli anni 80 dell’Ottocento è invece netta la prevalenza di emigrazione verso gli Stati Uniti Americani, dove i migranti furono autori di grandi costruzioni ferroviarie e infrastrutturali.
Dalla mappa qui sotto[3], si evince come l’emigrazione italiana non interessò solo le Americhe in generale, ma fece tappa anche nell’Oceania, in particolare nella Nuova Zelanda (dal 1880 al 1950 circa).
[1] Mori G., L’economia italiana dagli anni Ottanta alla prima guerra mondiale, in Mori G. (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia. 1. Le origini 1882-1914, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 1-106.
[2] Le condizioni del viaggio erano davvero terribili, con migliaia di uomini ammassanti nelle stive di mercantili, il più delle volte malconci, e del secolo precedente.
[3] Estrapolata dal sito http://www.teara.govt.nz/ dove ci sono diversi spunti e articoli interessanti in lingua inglese, riguardanti l’emigrazione italiana nella terra neozelandese.
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