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Consigliamo – Che cosa è la grammatica generativa
Riportiamo alcune critiche rivolte alla grammatica generativa da Searl e da Putnam in particolare. Le critiche a Chomsky sono qui considerate solamente sulla base della ricerca linguistica di Chomsky e non su quelle politiche.
- Chomsky non indica le regole di codifica del significato e duplica i livelli di riferimento.
- La sintassi non indica il modo di “sciogliere” le ambiguità.
- L’apprendimento linguistico consiste nel riconoscimento del contesto d’uso.
- L’espressione linguistica è sempre intenzionale.
- E’ davvero così breve il periodo necessario ai bambini per imparare a parlare?
- Se il linguaggio è innato, allora perché il bambino non impara a parlare da solo?
- Se il linguaggio è una facoltà innata della mente, allora perché non esiste uno e un solo linguaggio?
Le critiche di Searl si incentrano sul problema del linguaggio nel suo uso comunicativo. Esso, egli dice, è usato come strumento di comunicazione, ciò anche volendolo considerare privo di finalità. Come a dire: è pur vero che le mani non sono state “create” con una finalità, ma è vero che noi le usiamo in base a quella.
Chomsky non indica le regole di codifica del significato e duplica i livelli di riferimento.
La prima delle critiche a Chomsky sostiene che il linguista, sebbene sostenga che il significato delle espressioni linguistiche risieda in un qualche stato mentale, non vada ad indagare oltre la questione, vale a dire che non indica le condizioni di verità di una frase. Difficilmente si può dire che Searl non abbia ragione su questo punto. Il proseguo consiste nel sottolineare che Chomsky duplichi i livelli di riferimento, cioè il “significato” è inteso sia come uno stato mentale che come un oggetto o un fatto. Anche su questo punto, non si può che assentire, soprattutto perché Chomsky non s’è preso il disturbo di analizzare più nello specifico la questione, liquidandola frettolosamente in una piena accettazione dell’impostazione cartesiana.
La sintassi non indica il modo di “sciogliere” le ambiguità.
Chomsky critica apertamente le grammatiche non generative mostrando che esse non sono in grado di dare spiegazione delle ambiguità. Tuttavia, in cosa consistono le ambiguità? Si possono dare due generi distinti di esse: ambiguità di tipo sintattico e ambiguità di tipo semantico. La grammatica generativa da una spiegazione del perché si diano certe ambiguità sintattiche. In questo la critica di Searl fallisce. Le altre grammatiche, infatti, non tenendo conto della presenza di più livelli di codifica di una frase, non sono in grado di ricondurre le ambiguità di tipo sintattico a nessun genere di spiegazione. Chomsky, in questo, assolve il suo compito.
La critica di Searl diventa corretta se si tiene presente il problema da un punto di vista più generale: perché la grammatica consente di costruire frasi ambigue, non agrammatiche? Se si considera la sintassi come un sistema formale capace di formulare proposizioni ben formate, allora perché si giunge abbastanza di frequente alla costruzione di frasi ambigue sotto il punto di vista “strutturale” e non semplicemente semantico? Questo punto, forse, non è ben chiarito dalla grammatica generativa che si limita a prendere atto della presenza di tali ambiguità. In questo non c’è una soluzione della molteplicità d’interpretazione di una frase, cioè di come essa debba venire interpretata per non essere più oggetto di confusione. Searl indica in questo il maggiore problema dell’ambiguità sintattica che Chomsky non ha risolto.
Si possono dare anche ambiguità di genere semantico come “Il cavallo di Pietro è alto”. In questa proposizione l’ambiguità è squisitamente semantica perché la parola “Cavallo” denota molti oggetti: il “cavallo dei pantaloni”, il “cavallo animale”, il “cavallo attrezzo della palestra”. Tenendo conto che moltissime parole hanno una gamma di significati assai diversi, si possono costruire infinite frasi ambigue sotto il profilo semantico. Se questo è vero e se è vero che queste molteplici interpretazioni ineriscono al “significato” allora bisogna riuscire a indicare un modo per evitare questi problemi.
Chomsky probabilmente sosterrebbe che le ambiguità semantiche non sono che delle forme superficiali di problemi di genere sintattico. Tuttavia, per risolvere alcune ambiguità di genere sintattico bisogna andare a vedere tutti i possibili significati della frase ambigua. Searl fa notare che questa interpretazione porterebbe Chomsky a dover ammettere che la soluzione di tali ambiguità non può essere risolta senza tener conto dell’uso comunicativo del linguaggio e, in ultima analisi, del livello semantico. Di conseguenza, sarebbe violato il principio secondo cui è la sintassi a definire il ruolo della semantica e questa non ha ricadute sul piano più profondo, cioè sulla sintassi stessa. Questo è un punto molto delicato, difficile da sbrogliare in due parole. Le informazioni in nostro possesso non ci consentono di dire se Chomsky abbia trovato una valida risposta a tale obiezione.
L’apprendimento linguistico consiste nel riconoscimento del contesto d’uso.
Per Searl l’apprendimento del linguaggio consiste sostanzialmente nella capacità di riconoscere il contesto d’uso adeguato. Ciò può essere vero, ma per riconoscere il contesto d’uso, già si deve aver appreso ad usare una determinata cosa. Facciamo l’esempio grossolano della zappa: prima di comprendere che essa non deve essere data in testa ad una persona, cioè riconoscere quel contesto come inadeguato, deve esser chiaro ch’essa si utilizza in un certo modo. Proprio a seguito di ciò, si può comprendere poi il suo contesto corretto. Se Sear intendesse con “contesto” semplicemente la realtà che rende possibile l’esistenza di un oggetto e le sue proprietà allora sarebbe una cosa molto diversa ma non riguarderebbe la questione del linguaggio. Ma è certo che la conoscenza del contesto, nel senso in cui l’intende Searl, è certamente successiva al “saper cosa”. Di conseguenza la critica di Searl si disperde al vento.
L’espressione linguistica è sempre intenzionale.
Ciò è una falsità sin troppo evidente. Gli ubriachi parlano e anche i malati terminali di cancro. Certo non si può dire che essi siano lucidi abbastanza da rendersi conto di ciò che dicono. Ma non si può sottoscrivere con certezza che ogni persona lucida parli sempre intenzionalmente. Spinoza, filosofo al di sopra d’ogni altro per coerenza, riteneva che ciò che avviene ha una qualche origine causale, sia essa un’espressione linguistica piuttosto che un’azione. Cartesio sosteneva che è responsabilità dell’individuo quella esprimere opinioni manchevoli o di dire il falso. Secondo Descartes, noi siamo consapevoli quando sosteniamo opinioni parziali e, in ultima analisi, si potrebbe evitare di parlare quando non siamo certi di ciò che diciamo. In senso metaforico, Cartesio sottoscrive l’idea di Searl. Spinoza osserva che se ciò fosse vero, allora non si spiegherebbe perché tante volte diciamo cose che non vogliamo di cui ci pentiamo una volta asserite. Ciò è talmente evidente che di continuo possiamo trovare riscontro nella vita quotidiana nostra e degli altri. Searl in ciò ha sicuramente torto.
E’ davvero così breve il periodo necessario ai bambini per imparare a parlare?
Putnam è interessato a fasificare l’idea che esista la facoltà innata del linguaggio. Per ciò, egli osserva che, in realtà, un bambino impiega circa dodici anni prima di imparare a parlare abbastanza bene e che, in realtà, gran parte degli adulti non si esprime in modo così preciso come dovrebbe essere secondo la teoria chomskiana. Su questo punto è difficile dare una conclusione, sebbene la rapidità e relativa precisione dell’apprendimento del linguaggio da parte dei bambini faccia pensare che ci debba essere qualcosa di vero nell’idea di Chomsky.
Ammettendo che Chomsky non abbia ragione, bisogna però mostrare perché i parlanti di una lingua riconoscono immediatamente una frase agrammaticale. Allo stesso modo, bisogna dare spiegazione del come possano i bambini imparare regole sconosciute agli stessi insegnanti, non solo i genitori, ma pure i maestri di ogni genere di scuola. Questi due punti sono davvero rilevanti e una critica seria all’impostazione innatista, deve darne una possibile spiegazione alternativa per esser credibile.
Se il linguaggio è innato, allora perché il bambino non impara a parlare da solo?
Questo è un punto interessante su cui non è facile dare una risposta. Chomsky sostiene che un bambino non impara a parlare se non ha avuto nei primi cinque anni di vita un’adeguata esposizione ad una particolare lingua. L’apprendimento non sarebbe altro che un esercizio della propria facoltà mentale che si attiva con poche informazioni. A partire da queste, vengono selezionate delle particolari connessioni sintattiche e fonetiche, quelle stesse che differenziano una lingua da un’altra: i parametri. La condizione necessaria per l’apprendimento del linguaggio sarebbe la presenza della facoltà, mentre la condizione sufficiente sarebbe l’informazione a cui un bambino è esposto durante i primi cinque anni di vita. Dopo i cinque anni allora il bambino sarà capace di parlare sponateamente e, in qualche modo, di imparare da solo il linguaggio. Questa teoria implica che un adulto non sarà mai in grado di apprendere una lingua naturale allo stesso modo del bambino né riuscirà a farlo se non ha già imparato una qualsiasi altra lingua. Ci sono prove a dimostrazione di ciò: (1) ci sono stati casi di bambini che, persi nella foresta, non hanno imparato a parlare successivamente. Questo proverebbe che non è nello stimolo la “causa necessaria” della capacità linguistica ed è una prova contro le teorie comportamentiste e di Quine/Wittgenstein, secondo cui i termini di una lingua si apprendono mediante l’uso, come la capacità di utilizzare gli oggetti. Il film di F. Truffaut “Il bambino selvaggio” è molto bello sotto un punto di vista cinematografico, ma è un’ottima ricostruzione di come tali bambini si comportavano. (2) Gli adulti non imparano a parlare una lingua con la stessa sicurezza dei bambini e fanno molta fatica nel loro apprendimento. Inoltre sono soggetti a “cambiamenti di codice” o conflitto terminologico tra la loro lingua madre e quella appresa da adulti. Questo rafforzerebbe l’idea che l’apprendimento del linguaggio si situa ad una soglia non accessibile all’introspezione perché riguarda una certa parte della nostra attività mentale. Secondo una concezione non generativista, si impara a parlare una lingua in qualsiasi età allo stesso modo e con lo stesso metodo: suono e stimolo implicano la parola. Ciò non può essere vero, in questi termini così semplici.
Tuttavia, quel che è senza dubbio certo è che per insegnare ad un adulto a parlare una lingua di cui non ha conoscenza bisogna procedere secondo il metodo di Quine, c’è poco da fare. Se questa sia una prova a sostegno della grammatica generativa, non è chiarissimo. Il vero problema sembra essere sollevato dalla critica successiva.
Se il linguaggio è una facoltà innata della mente, allora perché non esiste uno e un solo linguaggio?
La questione è: se è vero che l’esperienza conta poco o nulla nell’apprendimento del linguaggio, allora dovremmo aspettarci che ce ne sia uno. Ciò sarebbe tanto più “ovvio” dal momento che c’è solo una facoltà del linguaggio comune a tutti gli uomini. Questo è del tutto smentito dalla realtà dei fatti: esistono più lingue e sono anche molto diverse ed il fatto che ci siano delle costanti, cela il fatto che esistano moltissime significative differenze.
Questa critica, forse, non sarà decisiva ma mette in luce il fatto che non sia ben chiaro il peso dell’esperienza all’interno dell’apprendimento linguistico. Si può ipotizzare che le differenze sono determinata da una diversità di ordine o di connessione di parti, tuttavia la struttura di fondo deve rimanere la stessa. Così il fatto che esistano lingue che possono non esibire esplicitamente il soggetto non nega il fatto che anche quando non lo esibiscono esso deve poter essere pensato e, di fatto, la mente lo pensa. Allo stesso modo si può pensare alle tracce, categoria vuota sia sulla forma fonologica che semantica, delle quali ci sono buone ragioni per postularle e non è semplicissimo sostenere che esse non ci siano. Però il problema sull’esperienza rimane aperto: il fatto che esistano strutture innate invarianti non toglie il fatto che esistano delle parti delle lingue naturali non predeterminate dalla facoltà linguistica. Inoltre è un fatto inoppugnabile che ci siano differenze a livello sintattico tra le lingue.
Queste sono state le obiezioni che Searl e Putnam hanno sollevato a Chomsky. Esse non esauriscono l’infinita serie di critiche che ha ricevuto la grammatica generativa nel suo complesso. Abbiamo mostrato le critiche “risolvibili” e “problematiche” per la linguistica Chomskiana. Adesso, prendiamo in esame una nostra considerazione.
Poniamo di avere un libro lungo (ad esempio Guerra e Pace) di una lingua di cui non so nulla eccetto la pronuncia. In linea di principio, potrei insegnarla ad un bambino? Secondo la grammatica universale sì, perché il bambino può arrivare correggersi. Se costruisce una frase in modo errato arriverebbe a correggersi da solo appena abbia sentito costruzioni corrette. Ciò basterebbe davvero per l’apprendimento del linguaggio?
Se la grammatica generativa si fonda sul presupposto che l’apprendimento del bambino si basa esclusivamente sulla sua capacità di apprendere le connessioni e particolarità di una lingua da un ascolto sporadico e rapsodico allora dovrei concludere che se sapessi pronunciare il russo, potrei insegnarlo ad un infante anche senza che io ne capisca una parola. Un libro come “Guerra e Pace” costituisce un “corpus” di informazioni piuttosto ricco. Se al bambino leggessi tale libro egli dovrebbe acquisire da solo la sintassi e la semantica del russo senza ulteriori informazioni. Se ci fosse la necessità di una correzione, basterebbe che il fanciullo “aspettasse” un controesempio durante l’ascolto di “Guerra e pace”.
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