Era una questione personale. Tutto negli scacchi diventa una questione personale, il fatto e il non fatto, il detto a parole e soprattutto il non detto in alcun modo. In fin dei conti la madre di tutte le superstizioni è l’immaginazione, la volontà recondita di trovare cause sbagliate per eventi veri. Uno sguardo sbagliato si tramuta spesso in infinite interpretazioni: gli scacchisti sono sempre in bilico tra la verità e l’assurdo.
Nella casa del grande maestro lettone, Aron Nimzowitsch, si disputava una partita importante per nessuno tranne che per lui e per il geniale Capablanca, suo sfidante. Era ormai patta quando Aron lascia un pezzo in presa e così finisce la partita: una beffa. L’ironia alla dea invisibile degli scacchi non manca e si diverte spesso a vedere saltare i nervi. Ma, nonostante la provocazione divina, Nimzowitsch sembra essere tranquillo: fallace apparenza.
Aron: “Eh, ho lasciato quel pezzo in presa…”
Capa: “…e ho vinto la partita!”
Aron: “Si, ma la mia posizione era superiore…”
Capa: “Ma che ci sia mai stato uno scacchista che senza aria di vittimismo ti dica –ho sbagliato-, –la mia posizione era persa-, -bravo, hai giocato meglio-. Tutti che trovano ragioni per dire che si era in vantaggio però… come a dire: è colpa del fato…”
Aron: “Senti, alla fine tutti trovano ragioni per stare male e giustificano il loro odio e il loro malessere in molti modi, talvolta trovano spiegazioni geniali, belle, straordinarie, non rendendosi conto che non fanno altro che crogiolarsi nel proprio dolore: perché non dovrei trovare una ragione per sentirmi meglio?”
Capa: “Perché noi siamo scacchisti e quindi, in un modo o nell’altro, cerchiamo sempre la verità. Ed è solo la verità che trova ragioni per stare bene e non stare male. False giustificazioni intatti problemi, intatti dolori…”
Aron: “Forse hai ragione, scusa. Mi sono fatto prendere dalla tensione.”
Capa: “Figurati…”
Aron: “Se rivediamo la partita?”
Capa: “Non l’ho scritta, ma me la ricordo. Comunque, se ti interessa la butto giù se mi dai un pezzo di carta.”
Aron glielo porge e Capablanca si mette a scrivere con la rapidità di chi si trova a casa propria. Aron vede tra le righe una notazione che non aveva mai visto: segni strani, del tutto particolari.
Aron: “Ma come stai scrivendo? Non avevo mai visto quei segni…”
Capa: “Questa è la notazione inglese. Ci sono anche altre annotazioni, come quella che usi tu, poi c’è quella descrittiva e altre. Si, sono diverse.”
Aron: “Non lo sapevo. Certo che è curioso. Alla fine usiamo linguaggi diversi per esprimere una sola cosa e…”
Capa: “Pardon. Usiamo due simbologie diverse, non due linguaggi diversi. Infatti entrambi arriviamo a denotare le stesse mosse, ma attraverso una serie di simboli equivalenti ma diversi”.
Aron: “Intendi dire che alla fine, anche se parliamo due lingue diverse in un certo senso esprimiamo le stesse cose?”
Capa: “Si, ma con cautela. Il problema delle mosse è facilmente risolvibile, esso si può esprimere benissimo in modi equivalenti in diverse lingue naturali e ci si capisce lo stesso. In fondo la bellezza degli scacchi deriva proprio da questo: in tutte le parti del mondo ci capiamo attraverso quel gioco. Possiamo andare in Cina e giocare a scacchi, andare in India e giocare a scacchi! Gens una sumus, non lo scordare.”
Aron: “Un bel motto. Peccato che gli scacchisti non siano così uniti tra loro, il gioco è individualista ma universale. Effettivamente, in un certo senso, siamo tutti uniti e tutti in lotta. Come nella vita.”
Capa: “Affascinante. Gli scacchi li ho sempre preferiti alla vita proprio perché, in fin dei conti, fanno vedere senza inganni ciò che siamo, di fronte a noi stessi e di fronte agli altri. Forse è per questo che è tanto difficile giocare, perché vedere se stessi nell’errore, nella rabbia e in tutte quelle emozioni che la ragione ci insegna di rifiutare è cosa difficile, faticosa e non per tutti.”
Aron: “Però quante cose ti insegna e quanto ti soddisfa…”
Capa: “Sai, io ormai non gioco nemmeno più per provare emozioni. Sembra strano, ma non gioco nemmeno per vincere.”
Aron: “Eppure vinci, maledetto!”
Aron strizza l’occhio a Capablanca che sorride.
Aron: “E allora perché giochi?”
Capa: “Perché è il mio modo per arrivare alla verità.”
Aron: “Questione difficile. Ma cosa è vero e cosa è falso?”
Capa: “Devo dire che la questione della verità, a mio parere, vede coinvolti due sfere diverse, due regni. La verità, da un lato attiene al linguaggio, perché solo di frasi si può dire che siano vere o false. Ma per sapere se una frase è vera o falsa bisogna aver un senso molto profondo della realtà.”
Aron: “Altrimenti si rischia di intrecciare le questioni…”
Capa: “… e di scambiare ciò che esiste per ciò che non esiste. In effetti, secondo me il genere umano compie un sacco di errori, nella vita quotidiana, perché non ha una conoscenza chiara delle cose. Pensa se ogni volta che un uomo pensa, pensa a cose che esistono davvero invece di pensare a cose che non esistono! Mi ricordo che da bambino mi dicevano che ero un prodigio. In realtà il prodigio era solo il frutto del fatto che sapevo vedere ciò che era una fantasticheria e quella che non lo era.”
Aron: “Son perfettamente d’accordo con te. E tu hai avuto questo dono dalla tua stessa natura. Vedi il vero quando gli altri devono lottare con tutto se stessi per distinguere la fantasia dalla realtà.”
Capa: “Non sarei campione del mondo! Abbiamo assodato che la realtà è il punto di partenza della nostra conoscenza. Per realtà intendo le mosse che realmente esistono e le considero sotto un punto di vista prettamente esistenziale: ci sono, sono quelle e di quelle dobbiamo discutere.”
Aron: “Si, per esempio, la mia mossa di alfiere che ha dato la possibilità alla torre di farmi l’infilata sull’ultima traversa”.
Capa: “Esatto. Ma dobbiamo procedere con calma e precisione. Potremmo esprimere la tua affermazione in questo modo: -l’alfiere in f1 è una mossa sbagliata-.”
Aron: “Certo. In questo modo mettiamo in evidenza che esiste un pezzo, in questo caso l’alfiere, che è posto in f1 e che tale mossa è sbagliata.”
Capa: “In una frase abbiamo quindi due componenti: una parola che esprime un pezzo, una casella o una cosa in generale, e un sintagma che esprime una proprietà di quella parola.”
Aron: “Si, precisamente. Abbiamo un termine che indica una e una sola cosa: l’alfiere in f1 non può che essere l’alfiere delle case bianche e in quella casella in quel determinato momento ci può essere solo l’alfiere. Ma poi c’è anche un verbo e un complemento che associa ad una certa cosa una sua proprietà.”
Capa: “Potremmo anche chiamare –termine singolare- quel termine che ci indica una e una sola mossa, uno e un solo pezzo e l’altro predicato. Ma…”
Aron: “Esistono molti modi di parlare di cose singolari, per esempio posso dire: una mossa è giusta, senza dire –la- mossa e…”
Capa: “Secondo me ti stai sbagliando: -una mossa- non ha lo stesso significato di –la mossa-. Guarda, ti faccio subito l’esempio della nostra partita: se ti dico –la mossa d’alfiere in f1 è sbagliata- è, in questo caso, vera. Ma se dico –una mossa di alfiere in f1 è sbagliata- tu subito mi fermeresti…”
Aron: “Effettivamente con –una mossa d’alfiere in f1 è sbagliata- non sto dicendo la stessa cosa. Non solo, ma nel caso specifico della nostra partita, sarebbe anche sbagliata perché in precedenza avevo messo l’alfiere in f1 e in quel caso era una mossa molto forte…”
Capa: “…mi pare alla quindicesima mossa. Precisamente. Dunque non possiamo parlare di termini singolari quando una parola è introdotta da un articolo indeterminativo: essa introduce più cose e non solo una. –Una mossa d’alfiere in f1 è sbagliata- non significa –quella e solo quella mossa è sbagliata- ma che esiste un insieme di mosse d’alfiere tra cui ne esiste una che è effettivamente sbagliata. In un caso introduco una mossa specifica, nell’altro caso introduco un insieme di mosse. Guarda, in pratica, in questa ragione sta il fatto che se ci son due cavalli che possono raggiungere la stessa posizione o due torri sulla stessa traversa bisogna specificare quale dei due pezzi vada a finire nella casa: senza specificazione possiamo dire che –una torre si sposta- è vera ma è imprecisa rispetto a –la torre in f1 si sposta-.”
Aron: “Ho capito. E ti propongo anche questo mio pensiero: che non sia lecito considerare allo stesso modo di –la mossa d’alfiere in f1- una cosa di questo genere –il re spostato ad elle- cioè non si può considerare un’espressione corretta quella che contenga una descrizione sbagliata, di una cosa che non esiste: non esiste nessun re che muove ad elle, lo sanno tutti!”
Capa: “Questo mi pare sacrosanto. Se vogliamo esprimerci con cognizione di causa, non possiamo certo ammettere nel nostro linguaggio termini privi di significato, termini che non rimandano a nulla di realmente esistente. Correremmo il rischio di parlare di mosse che non esistono…”
Aron: “Però se dico –credo che il re si muova ad elle…-“
Capa: “Aspetta, cerchiamo di risolvere un problema per volta: non si possono chiudere più porte con la stessa mano nello stesso tempo. Affrontiamo il problema di frasi molto semplici, quelle che ci consentono di conoscere la realtà. Siamo arrivati a definire abbastanza compiutamente i termini che possiamo unire ai predicati. Ma non abbiamo detto ancora nulla di questi. Bisogna considerarli, secondo me, come delle funzioni.”
Aron: “Ascolta, ti va una tazza di te e se ci spostiamo di fronte al caminetto? Mi pare che stia rinfrescando e mettere qualcosa di caldo e dolce non può che farci venire delle ottime idee!”
Capa: “Incredibile: non hai ancora del te caldo nello stomaco e già hai avuto un’ottima idea!”
Si spostano nel salotto e nel mentre la vecchia domestica di Aron porta il te.
Aron: “Grazie, cara. Stavi dicendo dei predicati…”
Capa: “A, già… Si, dico che secondo me vanno considerati come funzioni.”
Aron: “Non ti seguo.”
Capa: “Una funzione è un’operazione di tipo matematico, ma posso anche spiegartela in termini più semplici: prendi un insieme di mosse e un insieme di pezzi. La funzione è l’associazione di una mossa all’insieme dei pezzi che rendono possibile quella mossa: per esempio, prendi l’inizio della partita. Se ti dico –muovo in f3- tu non sai se è il pedone o il cavallo ad essere mosso: questo perché la funzione espressa da –muovo in f3- è incompleta, manca del termine singolare che potremmo chiamare argomento.”
Aron: “Cioè manca il termine del secondo insieme da associare a quello del primo? In questo caso l’insieme delle mosse con quello dei pezzi…”
Capa: “Esatto. Infatti non tutti i pezzi si possono muovere all’inizio in f3, per esempio se dico –la donna si sposta in f3- tu mi dirai che questa mossa è impossibile!”
Aron: “Dunque una funzione è soddisfatta solo da quei termini che esprimono un pezzo che effettivamente soddisfa quella mossa: quindi se dico –la donna si sposta in f3- segue che la mossa non ha significato.”
Capa: “Proprio così! E mi è capitata una cosa, da spettatore, piuttosto curiosa: vicino a me giocava un non vedente e dovevano ogni volta comunicargli la mossa a voce. Ad un certo punto i due, il non vedente e l’altro, fanno confusione e uno aveva una posizione sulla scacchiera diversa dall’altro. Si scoprì che era successo: il cieco aveva messo un pezzo al posto di un altro nella stessa casa: e tutto tornava! O meglio, all’inizio sembrava tornare. Infatti aveva un significato preciso, per il cieco, la mossa che l’altro non aveva giocata, peccato poi che le cose non tornassero. Ma il punto è che la frase aveva un significato compiuto perché l’espressione della mossa era corretta: la funzione era soddisfacibile anche in quel modo.”
Aron: “E questi problemi sembra che esistano solo nel linguaggio, invece hanno applicazioni anche nella realtà!…”
Capa: “Questo accade spesso nelle cose che paiono astratte: ma la nostra conoscenza non inizia forse nell’esperienza? Cioè, possiamo anche dire che l’astrazione, se non è vaniloquio, inizia con la conoscenza empirica…”
Aron: “Però l’esempio del cieco è interessante: la frase supponiamo fosse –il cavallo si sposta in c6- mentre poi era il pedone a finire in c6. In che senso possiamo dire che la frase –il cavallo si sposta in c6- è sbagliata?”
Capa: “Ancora una volta bisogna attenersi alla realtà. La realtà era che il cieco aveva capito male e quindi la mossa di pedone era quella realmente giocata. Il fatto è che non c’è modo di sapere a priori se –il cavallo si sposta in c6- è vera o falsa se non si va a vedere se effettivamente c’è o non c’è quel cavallo proprio nella casa c6.”
Aron: “Insomma, bisogna sempre andare a vedere se quella frase ha significato oppure no, se c’è un oggetto reale che risponde alle proprietà poste dal predicato oppure no: se c’è e soddisfa il predicato, la frase è vera, se non soddisfa il predicato è falsa e se non c’è nessun oggetto non è né vera né falsa.”
Capa: “Esatto, dobbiamo verificare che il linguaggio sia aderente all’insieme delle cose realmente esistenti. Possiamo anche dire che una frase come –il cavallo si sposta in c6- ha due livelli di esistenza, per così dire. Uno è il senso della frase, l’altro la sua denotazione, il suo significato: il senso sarebbe il modo di dare il significato e la denotazione o significato è l’oggetto realmente esistente a cui si riferisce la frase.”
Aron: “Il senso sarebbe l’insieme dei segni particolari che…”
Capa: “I segni non c’entrano con il senso… il senso di un termine singolare è il nome proprio o la descrizione definita, il modo attraverso cui diamo l’informazione. Mentre il senso di un predicato è un concetto, cioè una funzione, ma non ritorniamo sul già detto.”
Aron: “Se il senso non è un segno o un insieme di segni, allora è un che di soggettivo? E’ un mio modo di dare un significato?”
Capa: “Lo escludo. Quando vogliamo comunicare ci appigliamo a cose che sono indipendenti da noi e proprio per questo sono prive di ambiguità. Così i sensi non sono le cose realmente esistenti, ma dei pensieri, che, secondo me, vanno considerati come una realtà a se stante.”
Il sopraciglio destro di Aron si alza in posa inequivocabilmente ironica: era uno di quei casi in cui non c’era bisogno di parlare per manifestare il proprio parere.
Capa: “Questa è una mia proposta… Non dico che sia necessariamente così. Però dobbiamo poter pensare che il linguaggio sia fondamentalmente intersoggettivo e che funzioni allo stesso modo per tutti. D’altra parte, ci capiamo anche quando esprimiamo delle mosse che non ci sono ma che sarebbero possibili in linea di principio. Riprendendo l’esempio di prima, se dico –la donna si muove in f3- come sarebbe possibile che un altro mi capisca, e che mi dica che la frase è falsa, se non perché quella frase esprime un pensiero, indipendentemente dal fatto che essa non è vera?”
Aron: “Potremmo pensare alla stessa cosa: vedo che la donna è lì dov’è e non si può spostare. Quindi, secondo me, non ci può andare.”
Capa: “Però è una cosa tua, soggettiva, la percezione della donna e io, magari, ne ho un’altra: prendi il caso che sia allucinato e vedo la donna dove non c’è. La frase –la donna si muove in f3- è vera o falsa?”
Aron: “Capisco il problema… per ciò tu dici che con la rappresentazione soggettiva non c’entra nulla il linguaggio?”
Capa: “Non vedo, altrimenti, su cosa si possa fondare. Secondo me, è meglio pensare che il linguaggio sia concepibile a partire da realtà intersoggettive, oggettive.”
Aron: “Non mi hai convinto del tutto… comunque, non fa niente.”
Capa: “Abbiamo chiarito quando una frase è vera. Sarà falsa quando il predicato non è soddisfatto dal termine singolare: -la donna è in f3- è falsa perché al principio la donna è in d1.”
Aron: “Ho capito. Umm, e se ti dico questo: -la donna è in f3- ha lo stesso valore di verità di –l’alfiere campo scuro va in f1- cosa mi dici?”
Capa: “Il valore di verità è vero o falso. Le frasi sono entrambe false. Si, hai ragione. Hanno lo stesso valore di verità.”
Aron: “Vedi un po’ se ho avuto l’intuizione giusta: mettiamo il caso che indico lo stesso pezzo in due modi diversi: per esempio, -l’alfiere campo chiaro- e –quel pezzo che muove in diagonale nelle case bianche-: le due descrizioni denotano la stessa cosa. E ora formulo due frasi: -l’alfiere campo chiaro è in f1 all’inizio della partita- e –il pezzo che muove in diagonale nelle case bianche muore nelle case bianche-: se ora scambio il primo termine singolare con il secondo ottengo ancora due frasi vere, dotate di stesso valore di verità?”
Capa: “Intendi sostituire un termine singolare con un altro dotati di medesimo oggetto di riferimento: certo, si può fare. Per esempio se dico –il cavallo in c6 è forte- e –il pezzo spostato da b8 in c6 è forte- ottengo ancora una frase che ha lo stesso significato, cioè che indica la stessa mossa. Certo. Assolutamente. Propongo di chiamare questa operazione linguistica come –principio di sostituibilità-.”
Aron: “Questo può anche tornarci utile sotto un profilo conoscitivo: spesso accade che conosciamo cose diverse di una stessa cosa proprio perché veniamo a scoprire che due espressioni rimandano allo stesso oggetto. Interessante. Il meccanismo di unione di un predicato con un termine singolare invece?”.
Capa: “Considerato che sembrano comporsi assieme direi di chiamarlo di composizionalità.”
Aron: “Elementare, mio caro Capa! Potremmo riassumere il principio di composizionalità in questo modo: una frase qualunque si ottiene dall’unione delle sue parti semplici.”
Capa: “Ottimo.”
Aron: “Senti un’ultima cosa: ma se dico –io credo che il cavallo sia forte in c6- non posso sostituire la parola –il cavallo- con un’altra… o no?”
Capa: “Questo è un bel problema. Però è tardi, e devo proprio andare, domani abbiamo entrambi il torneo, ti sei dimenticato forse?”
Aron: “Sei tu che mi hai costretto a pensare…”
Capablanca ride di gusto.
Capa: “Già, però penso che pensare richieda molte energie che ho proprio esaurito… la discussione possiamo riprenderla in un altro momento, non ti pare?”
Aron: “… i termini singolari sono sia i nomi propri che le descrizioni con gli articoli determinativi, ma siamo proprio sicuri che funzionino allo stesso modo nel linguaggio?”
Capa: “Mio caro, ho fatto di te un filosofo e non uno scacchista! Ti prometto che domani vengo e ne riparliamo: magari diventi un buon scacchista e un pessimo filosofo. Notte!”
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