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Consigliamo La prova ontologica di san Anselmo e Dante di G. Pili
Una delle cose che, da che studio filosofia, mi sono reso conto è che i filosofi hanno imparato a usare due termini diversi per quel che normalmente diciamo con un solo verbo: quello “essere”. Le parole “essenza” e “presenza” possono essere riscritti nei termini del solo verbo “essere”: “essenza” = “ciò che una cosa è” = “la definizione di una cosa”, mentre “la presenza” = “l’esistere di una certa cosa nel mondo”.
Per esempio: “l’uomo è un animale sociale”, come vediamo fatta con il verbo essere, è la definizione dell’essenza di una cosa. La parola che abbiamo dedotto da questa nel luogo comune è, giusto per dirne una, “essenziale”.
Ma se dico: “quell’uomo è seduto sulla sedia” non voglio dire che la definizione di quell’uomo implica che stia seduto in una sedia, o che sia proprio in virtù del fatto che sia seduto su quella sedia, voglio dire che quell’uomo sta sopra una sedia.
Questa distinzione, che detta così sembra tanto banale, è implicita in tutta la riflessione filosofica ed è posta in modo anche più oscuro. E la cosa più divertente è che di essa non ho mai trovato una spiegazione esauriente da parte di nessuno: tutti i manuali di storia della filosofia ne parlano ma senza mai soffermarsi. Gli autori sono talmente abituati a tale distinzione sia concettuale che terminologica che non si sono mai posti il dubbio che altre persone possano trovare delle difficoltà in merito.
Iniziamo dalla questione dell’essenza. L’essenza di una cosa è ciò che definisce una cosa. Nell’enunciato “l’uomo è un animale sociale”, animale sociale è il definente, cioè ciò che mostra compiutamente il senso-significato della parola definita, l’uomo. Lasciamo perdere la questione se tale definizione sia “reale” o solo “logica” ma intanto prendiamo per buono che la definizione di una parola è l’enunciazione dell’essenza di un concetto tale che, se la definizione divenisse falsa o assurda, anche la parola e il relativo concetto diverrebbero false e assurde.
L’uso del verbo essere, in questo caso, è quello dell’ “=” in matematica (per esempio X -2= 0, X = 2 significa proprio che al posto della “X” ci va il “2” in quanto “X” e “2” in questa relazione sono la medesima entità ). Il verbo in questo caso è usato come qualificatore, come attributore di qualità: “questa cosa è rossa”, “questa pizza è buona”, “questa musica è di Beethoven” sono tutti usi possibili del verbo essere come esplicitatore di essenza.
Ma esiste anche un altro uso del verbo essere: quello di indicatore di “presenza” o “esistenza”. Quando dico che una cosa sta in un certo posto dico “questo computer è di fronte a me”. Con questa frase posso anche dire, in senso più astratto, che “questo computer esiste” nel mondo.
In questo ultimo significato l’essere non è tanto attributore di essenza, in quanto non dice affatto cosa sia un computer né qualifica il mio, ma indica semplicemente che esso esiste in un certo luogo e in un certo tempo: “questo computer è qui davanti a me” significa “questo computer esiste, sta qui e ora”. Con una sola frase ho dato tre coordinate fondamentali per far capire che 1) il mio computer è una cosa che esiste nel mondo, che sta nella mia scrivania, cioè in uno spazio preciso, e che sta ora nella mia scrivania, cioè in un tempo determinato.
Questo secondo uso del verbo essere è quello che prende il nome di “esistenziale” (quello che in logica viene scritto con una “E” rovesciata di 180°). L’uso del verbo esistenziale ci consente di visualizzare un oggetto nel mondo e di determinarlo.
I due diversi significati del verbo essere non vanno confusi e va tenuto bene a mente che una cosa è “l’essere essenziale” e “l’essere esistenziale”. Ed è interessante come la nostra lingua preveda, in un certo senso questa distinzione: l’essere esistenziale può essere anche detto come “stare”. Altre lingue hanno risolto in altro modo la delicata questione linguistica. Il latino usa solo una parola, il verbo “sum”. Lo spagnolo prevede proprio due verbi diversi per i due usi “estar” e “ser”: “Estoy muy byen”, “Yo soy en hombre”. L’inglese, come l’italiano, invece usa solo il verbo “to be”: “blu is beautiful”, “my computer is here”.
A questo punto possiamo trattare la questione da un punto di vista filosofico. Parmenide quando dice che l’essere-è indica sia che l’essere è (senso essenziale) sia che l’essere esiste (senso esistenziale), o no? Parmenide cosa fa? Egli opera una scissione netta tra l’essere e le cose: infatti quello che esiste, l’essere, è solo nel senso essenziale, solo delle cose si può dire che esistono nel senso esistenziale: di una cosa si può dire che esiste qui e ora, non dell’essere. Dunque Parmenide dice che, in quanto l’essere non è soggetto al mutamento, esso è solo nell’essenza, non nell’esistenza. In questo modo egli arriva a dedurre che l’essere è coincidente col pensiero e, quindi, non è un’entità materiale.
La questione è molto delicata perché c’è in ballo ciò che noi possiamo conoscere attraverso il pensiero e quello che possiamo conoscere attraverso i sensi: che una cosa sia qualcosa e non qualcos’altro è effettivamente conoscibile dal pensiero in quanto oggetto di ragionamento. Di un cane non posso predicare la capacità di volare perché la sua stessa definizione non consente di dedurlo. Ma che un cane sia rosso piuttosto che rosa è una cosa che non si deduce dalla definizione perché un fatto, appunto, del tutto inessenziale ( vorrei qui suggerire la lettura difficile ma stupende e molto arricchente per la questione del famoso saggio di Sellars “Empirismo e filosofia della mente” un capolavoro densissimo di 89 pagine assolutamente impedibile, che vale la difficoltà ).
La conoscenza è ciò che si conosce attraverso il solo uso della ragione oppure è ciò che si conosce attraverso i sensi? Oppure ciò che si conosce attraverso i sensi può essere comunque considerato una forma di conoscenza, seppure meno preziosa di quella intellettuale? O ancora esiste solo la conoscenza attraverso i sensi?
Il dilemma è difficile e nasce proprio dalla diversa concezione dell’“essere”: ciò che noi predichiamo “esistere”, realmente, è ciò che esiste secondo il pensiero o ciò che esiste secondo i sensi ( dunque nel mondo )?
Si può perfettamente dire che questa difficilissima questione, che ho cercato di trattare in modo da far capire almeno la distinzione linguistica che spessissimo è oggetto di confusione, che nessuno mai spiega perché troppo ovvia o perché troppo difficile da spiegare, sia l’essenza stessa di tutta la storia della filosofia. Alla quale mi sembra che non si possa dare che un punto di vista possibile, non una soluzione assoluta e definitiva.
Esistono molti sostenitori della conoscenza come pensiero (ragione) e molti altri sostenitori della conoscenza come sensibilità: da un lato ci stanno tutti i platonici da Platone a Cartesio, da Spinoza a Frege, da Hegel a tutta la musica classica (!); dall’altra parte ci sono pensatori “minori” come Aristotele, Hume, Locke e gran parte della filosofia anglosassone più recente (come gli empiristi logici alla Russell), la musica leggera contemporanea…
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