Il senso morale innato: la capacità di distinguere il bene dal male. Contenuti della ricerca, aspetti metodologici e tecniche di indagine
Come possiamo verificare l’ipotesi per cui l’essere umano possiede un senso morale innato? Studiando la mente degli infanti. Ma come possiamo studiare la mente di questi esseri tanto complessi da comprendere? Un modo per farlo è sfruttare le indicazioni che possiamo dedurre da uno dei pochi comportamenti su cui essi esercitano un certo controllo (dove per ‘controllo’ ancora non si intende il ‘controllo interno o autonomo’), ovvero lo sguardo. È possibile analizzare i movimenti oculari, la direzione e i tempi di fissazione dello sguardo. Da questi comportamenti possiamo dedurre le intuizioni e lo stato mentale del bimbo.
Fu negli anni ottanta del secolo scorso che la comunità scientifica inaugurò lo studio della mente dell’infante, relativamente allo sviluppo della conoscenza concettuale e non solamente percettiva, inizialmente per mezzo della registrazione dei tempi di fissazione dello sguardo (looking-time).
3.1. Violazione delle aspettative: misurazione del tempo di fissazione dello sguardo
Uno dei metodi più diffusi per la registrazione dei tempi di fissazione dello sguardo sfrutta il fenomeno dell’abituazione (habituation) e della disabituazione (dishabituation) del bambino ad uno stimolo che gli venga presentato. Il paradigma sperimentale prevede che il bambino venga inizialmente abituato alla vista di uno stimolo ripetutamente presentato. In altre parole, il paradigma prevede che il bambino osservi uno stesso stimolo fino al momento in cui egli non raggiunga un disinteresse relativo verso di esso. A questo punto, al bambino viene presentato uno stimolo simile allo stimolo alla vista del quale è stato abituato tranne che per un aspetto concettualmente rilevante ai fini teorici dello studio che si sta conducendo. Se il bambino si mostra sorpreso, guardando lo stimolo nuovo più a lungo di quanto all’ultima presentazione non abbia guardato lo stimolo a cui è stato abituato, allora significa che egli ha rappresentato mentalmente come differenti lo stimolo nuovo e quello vecchio.
Lo sperimentatore, in buona sostanza, misura il grado di ‘disabituazione’ del bimbo. Volendo fare un esempio classico, se lo sperimentatore è interessato a capire se e quando i bambini incomincino a distinguere le mele dalle pere, allora abituerà il bambino alla vista della mela e poi gli mostrerà una pera. Se il tempo di fissazione della pera rimanesse immutato rispetto al tempo di fissazione della mela mostrata poco prima della pera, allora vorrebbe dire che il bambino ancora non distingue tra i due tipi di frutto. Se la pera non fosse distinta dalla mela, allora il bambino la guarderebbe con un tempo pari o inferiore al tempo di fissazione relativo all’ultima presentazione; infatti, un’ulteriore presentazione di un oggetto già visto più volte non aggiungerebbe alcunché di nuovo per di essere sorpresi. La rappresentazione dei due oggetti come diversi, invece, farebbe percepire la pera come diversa dalla mela, e il bambino si troverebbe di fronte ad un oggetto nuovo e percepito come tale, alla vista del quale non è stato ancora abituato, e che dunque guarderà a lungo o comunque più a lungo dell’oggetto a cui, invece, è stato abituato.
L’analisi dei tempi di fissazione permette di stabilire in modo oggettivo quando il bambino individua uno stimolo o un evento come nuovo, interessante, sorprendente o inaspettato. Questo metodo di indagine è particolarmente indicato per lo studio degli infanti, poiché nelle prime fasi dello sviluppo il bambino ancora non ha sviluppato il controllo interno, la capacità di controllare ed inibire i movimenti e, probabilmente, i pensieri. Ciò significa che l’espressione di sorpresa, catturabile attraverso la misurazione dei tempi di fissazione dello sguardo, è un indice del loro reale stato interno, che ancora non possono mascherare o alterare consapevolmente.
Un modo di intendere il paradigma che sfrutta il tempo di fissazione dello sguardo, anche chiamato paradigma della violazione dell’aspettativa (VoE, Violation of Expectations), che più si avvicina alle attuali sperimentazioni con gli infanti, è il seguente. Se è vero che gli studi iniziali facevano largo uso della pratica di abituare il bambino alla presentazione di un certo stimolo, e dunque prevedevano di ‘annoiare’ il bambino, è altrettanto vero che gli studi più recenti fanno meno uso dell’abituazione. La tendenza di questi ultimi è piuttosto di comparare i tempi di fissazione di due condizioni, dove una è la condizione che lo sperimentatore predice possa essere inaspettata per il bambino, e l’altra, invece, è la condizione che lo sperimentatore predice possa essere in accordo con le aspettative formate dalla mente del bambino. Le condizioni vengono costruite in modo da essere percettivamente simili tra loro, e si distinguono concettualmente (ad esempio, in una condizione si può mostrare al bambino che il personaggio cattivo viene ricompensato = evento inaspettato, mentre in un’altra condizione si può mostrare che è il personaggio buono ad essere ricompensato = evento atteso).
Una prima difficoltà pratica nell’uso di questi metodi è legata alla costruzione di buoni esperimenti, ovvero di esperimenti che sappiano appropriatamente isolare la variabile indipendente dalle altre possibili variabili intervenienti. Evidentemente, una differenza tra due stimoli può essere percepita a molti livelli diversi, e lo sperimentatore deve assicurarsi, progettando degli esperimenti con i controlli adeguati, che il bambino tragga la distinzione al livello rilevante per lo studio che si vuole progettare.
Senza voler dare un giudizio definitivo sulla bontà e sulla validità del metodo, ci sono alcuni aspetti problematici della metodologia di cui è giusto perlomeno essere a conoscenza. Innanzitutto, diversi studi hanno mostrato che l’utilizzo di una diversa misura come i movimenti di raggiungimento (reaching behavior) porta ad evidenze empiriche alle volte opposte a quelle ottenibili usando la misura dei looking-times. Secondo alcuni, poiché questa differenza nei risultati è riscontrabile anche nello studio della risposta dei bambini più grandi oltreché nello studio degli infanti di pochi mesi, essa non sarebbe spiegabile facendo riferimento al fatto che gli infanti ancora non sono in grado di coordinare i movimenti per raggiungere un oggetto.
Un ulteriore fattore di criticità è proprio la difficoltà di isolare le componenti concettuali dalle componenti visive o percettive dello stimolo. L’interesse principale dello sperimentatore che si occupi di psicologia morale è comprendere se il bimbo percepisce delle differenze a livello concettuale, per concludere in merito alla presenza o all’assenza dello sviluppo di un certo concetto o di certe categorie morali nella mente del bambino. Una delle maggiori critiche, allora, è che il bimbo, coinvolto nello studio, non distingua a livello concettuale, ma distingua solamente sulla base delle caratteristiche fisico-percettive dello stimolo. Chiaramente, l’unica risposta possibile a questa critica è l’impegno dello sperimentatore a progettare esperimenti con buone condizioni di controllo. Dell’intero corpo di ricerche condotte sulla valutazione morale dell’infante è, poi, possibile dare un’interpretazione ‘ricca’, secondo la quale le risposte del bambino sono il prodotto di competenze cognitive complesse e di processi cognitivi sociali e morali specifici, innati o la cui formazione riflette un apprendimento precoce, oppure un’interpretazione ‘povera’, per cui le risposte dei bambini riflettono meccanismi di livello inferiore. Ad esempio, alcuni critici sostengono che le risposte spontanee registrate riflettano semplicemente un’analisi delle caratteristiche percettive degli stimoli, oppure processi generali che spingono il bambino ad evitare o ad avvicinarsi a certi stimoli piuttosto che ad altri.
Un’altra fonte di sospetto è rappresentata da tutti quei casi in cui nello studio degli infanti viene trovata evidenza, usando il metodo dei tempi di fissazione, a favore dell’esistenza di una conoscenza o competenza che invece manca, se misurata con metodi più classici, nei bambini più grandi. Un esempio è la ‘teoria della mente’. È tuttora oggetto di dibattito come sia possibile che gli infanti abbiano una teoria della mente quando solamente a partire dai tre-quattro anni di vita il bambino riesce a rispondere correttamente al classico Sally-Anne test della falsa credenza, dove la capacità di attribuire delle false credenze è una capacità centrale della teoria o lettura della mente. Un secondo esempio è il giudizio morale basato sull’analisi della qualità morale delle intenzioni di chi agisce. Mentre attraverso i compiti classici è stato trovato che i bambini in età prescolare valutano la cattiveria o la bontà morale a partire da un’analisi delle conseguenze provocate dall’azione, e solamente in età scolare (5-6 anni) si incomincia a valutare la qualità morale di chi agisce sulla base delle sue intenzioni, studiando la cognizione morale degli infanti, anche attraverso il paradigma della violazione delle aspettative, ha permesso di individuare una precoce valutazione morale basata per lo più sull’esame delle intenzioni. Come è possibile, dunque, che gli infanti valutino in maniera più matura dei bambini più grandi e similmente a come valuterebbe un adulto?
I sospetti sulla validità delle misure di studio della cognizione infantile possono essere affrontati in due modi. Da una parte, possiamo facilmente chiarire i dubbi che sorgono da descrizioni evolutive improbabili, come quelle sulla teoria della mente e sul giudizio morale basato sulle intenzioni, facendo leva sulla diversa natura dei metodi usati per lo studio della risposta dell’infante e del bambino in età prescolare e scolare. Mentre i compiti dedicati allo studio della risposta spontanea dell’infante richiedono un carico di lavoro limitato per le funzioni esecutive, i compiti dedicati allo studio della risposta dei bambini più grandi, richiedono solitamente un maggiore lavoro alle funzioni esecutive. Ai bambini viene spesso chiesto di formulare un giudizio, o di dare una risposta, il che coinvolge processi come quelli che si occupano di inibire eventuali risposte automatiche ma irrilevanti, e processi dedicati alla selezione della risposta giusta tra quelle disponibili. Diversamente, questi processi non sono necessari all’infante per avere delle rappresentazioni o aspettative, che vengono studiate senza bisogno che il bambino si impegni nella formulazione di una valutazione. Se la natura dei compiti è diversa nel senso specificato, è naturale che la procedura utilizzata con gli infanti favorisca il ritrovamento di competenze precoci nell’infante, e che sia la maturazione di abilità cognitive generali (come le funzioni esecutive) a permettere l’espressione delle stesse abilità quando queste sono studiate nei bambini più grandi attraverso compiti più complessi.
Dall’altra parte, lo scetticismo sulla validità delle misure impiegate per lo studio sull’infante suggerisce, perlomeno, la necessità di integrare lo studio dei tempi di fissazione con altre misure del comportamento del bambino come, ad esempio, l’anticipatory looking behavior o, più in generale, il tracciamento della direzione e del movimento dello sguardo. Vedremo questi altri metodi nel prosieguo delle lezioni.
Uno dei primi studi ad utilizzare il paradigma dell’abituazione/disabituazione per misurare la violazione delle aspettative del bambino e, da questa, dedurre lo stato dello sviluppo cognitivo e concettuale, è stato condotto da Renée Baillargeon, Elizabeth Spelke e Stanley Wasserman. Lo studio è stato pubblicato nel 1985 sulla prestigiosa rivista Cognition, e ha dimostrato che gli infanti, già a cinque mesi, posseggono il concetto della permanenza dell’oggetto. In altre parole, durante i primi sei mesi i bambini svilupperebbero l’aspettativa che un oggetto continui ad esistere anche quando viene nascosto alla vista.
Una serie di ricerche hanno dimostrato che gli infanti percepiscono gli oggetti con le categorie concettuali fisiche usate dagli adulti. Fin da molto piccoli i bimbi possiedono, ad esempio, il senso dell’unità dell’oggetto, concepiscono gli oggetti come soliti e come vincolati, nei loro movimenti, al rispetto della legge di gravità, come permanenti nel tempo e nello spazio, e così via. Nello studio di Renée Baillargeon e colleghi (1985), gli infanti venivano abituati alla rotazione di un pannello lungo un arco di 180 gradi. In altre parole, gli infanti assistevano a più rotazioni. Il pannello, rivolto verso il bambino e aderente con un lato alla superficie del tavolo, veniva sollevato o ruotato fino a toccare nuovamente la superficie del tavolo con il lato opposto. In una fase successiva, appena dietro al pannello veniva posta una scatola che impedisse al pannello di compiere il movimento completo appena descritto. I bambini erano testimoni di due eventi, uno possibile (‘reale’) e uno impossibile (‘magico’). Nell’evento possibile, il movimento di rotazione del pannello veniva ostruito dalla scatola e non riusciva ad essere completo. Nell’evento impossibile, invece, il pannello, nonostante l’apparente presenza della scatola, riusciva comunque a compiere un movimento di rotazione completo, dunque attraversava lo spazio occupato dalla scatola compiendo un movimento fisicamente impossibile.
L’effetto di scomparsa della scatola nell’evento impossibile, che negli anni ottanta del secolo scorso ancora non era possibile creare con un programma di animazione per pc, era creato da un meccanismo per cui ora veniva illuminata una parte dello scenario dove era presente la scatola, ora veniva invece illuminata la parte dove la scatola non era presente. Le due parti dello scenario si trovavano l’una di fronte e l’altra dietro uno specchio unidirezionale (ovvero uno specchio simile a quelli usati dalla polizia per seguire dall’esterno l’interrogatorio di un indiziato) il quale rifletteva ciò che gli stava davanti o ciò che gli stava dietro, a seconda di quale parte venisse illuminata. Dando al bambino la sensazione di osservare una stessa parte dello scenario, lo sperimentatore poteva far comparire e scomparire la scatola a suo piacere, giocando al momento giusto con l’illuminazione.
L’abituazione all’evento di rotazione procedeva nel modo seguente. Al bambino, seduto in grembo alla madre resa cieca alla scena, ovvero bendata per non influenzare la risposta del figlio, veniva mostrata una serie di ripetizioni del movimento del pannello. Nel frattempo, due osservatori, nascosti alla vista del bambino, ne registravano lo sguardo diretto verso la scena premendo in risposta un bottone di segnalazione. Gli osservatori, quindi, registravano la durata dello sguardo di fissazione del bambino. La ripetizione della scena veniva interrotta nel momento in cui lo sguardo del bambino diretto al movimento del pannello durava meno del 50% rispetto alla durata dello sguardo di fissazione del primo movimento di rotazione. Questo indice arbitrario veniva utilizzato come misura del fatto che il bambino era ormai abituato alla scena, ovvero che per lui la scena non costituiva più una novità, qualcosa di cui stupirsi o da comprendere meglio.
Una volta abituati alla rotazione, i bambini assistevano a un evento fisicamente ‘possibile’ e a un evento fisicamente ‘impossibile’. Ipotizzando la comprensione da parte dei bambini che (a) la scatola posta dietro al pannello è un oggetto persistente nel tempo e nello spazio, che dunque non smette di esistere nel momento in cui ne venga impedita la vista, e che (b) il pannello non può muoversi attraverso uno spazio già occupato da un oggetto solido, gli sperimentatori si aspettavano di registrare una reazione di sorpresa del bambino alla vista del movimento fisicamente impossibile. La predizione si è rivelata corretta: infatti, i tempi di fissazione dell’evento impossibile sono stati significativamente più lunghi rispetto ai tempi di fissazione dell’evento possibile, i quali erano simili a quelli relativi all’osservazione dell’evento a cui il bambino era stato precedentemente abituato.
Per ovviare ad una possibile interpretazione alternativa dei risultati, secondo la quale il bambino avrebbe guardato più a lungo l’evento impossibile rispetto a quello possibile semplicemente perché un movimento di 180 gradi è percettivamente più interessante rispetto a un movimento di 120 gradi, gli sperimentatori hanno condotto un esperimento di controllo. In questo esperimento successivo, la scatola, invece che essere posta dietro il pannello, veniva posizionata a lato del pannello, in modo che non potesse intervenire con il movimento di rotazione. Registrando, poi, i tempi di osservazione relativi ai due movimenti, uno di 120 e uno di 180 gradi, è stato possibile stabilire se i bimbi distinguessero gli eventi possibile e impossibile dell’esperimento principale lungo la dimensione della violazione dell’aspettativa che un oggetto solido persista nel tempo e nello spazio, oppure lungo la dimensione della preferenza per i movimenti più ampi. Se i bambini rispondessero semplicemente all’ampiezza del movimento, gli sperimentatori avrebbero dovuto trovare tempi di fissazione più lunghi relativi alla condizione in cui il movimento è completo, cosa che però non è accaduta, poiché i bambini mostravano lo stesso interesse per i movimenti di 120 e 180 gradi.
I risultati, per tanto, permettono di trarre la conclusione che gli infanti, già a cinque mesi di vita, possiedono il concetto che un oggetto permanga nel mondo fisico anche nel caso in cui non sia visto o percepito direttamente. Già Piaget (1954; La costruzione del reale nel bambino) si era occupato di chiarire lo sviluppo dell’idea di permanenza. Piaget, però, aveva individuato la circostanza evolutiva nella quale il bambino inizia a cercare gli oggetti nascosti alla vista, dopo i nove mesi di vita circa, come il momento in cui il bambino ha acquisito la consapevolezza che gli oggetti permangono. Quest’idea derivava per lo più dall’assunzione che il metodo più adatto per verificare la presenza nella mente del bambino dell’idea di permanenza fosse osservarne i movimenti atti a ricercare l’oggetto scomparso alla vista. Poiché i bambini prima dei nove mesi non mettono in atto un comportamento di ricerca, allora, a Piaget sembrava corretto dedurre che essi non possedessero il concetto che un oggetto permane nello spazio e nel tempo, ovvero che l’esistenza dell’oggetto è indipendente rispetto alla propria osservazione.
Tuttavia, possiamo pensare che, più semplicemente, i bambini di età inferiore ai nove mesi non mostrano un comportamento attivo di ricerca non perché non comprendono che l’oggetto permane, ma perché ancora non sono in grado di coordinare i movimenti come mezzi utili al raggiungimento di uno scopo, come può essere cercare un oggetto scomparso alla vista. Da questa ipotesi di spiegazione alternativa all’introduzione di un metodo che non sfrutti la (mancata) capacità di coordinare i movimenti in azioni dotate di scopo, il passo è breve e quasi necessitato (es. Bower, 1967). Questo è un caso chiaro in cui una limitazione metodologica non permette di scoprire contenuti mentali che pure sono presenti nel bambino.
Baillargeon e colleghi, consapevoli della grave limitazione di un metodo che prevedeva di sfruttare una capacità assente ai bambini più piccoli, ne hanno introdotto uno le cui misurazioni non dipendono né dalla capacità del bambino di coordinarsi per cercare l’oggetto né dalla conoscenza del bambino rispetto a particolari proprietà dell’oggetto scomparso. L’unica conoscenza necessaria ai bambini, per superare la prova metodologica volta a chiarire la presenza o l’assenza del concetto di permanenza, è che gli oggetti sono solidi e che, dunque, la scatola oppone resistenza alla rotazione del pannello. L’introduzione di questo nuovo metodo, maggiormente sensibile e adatto allo studio dell’infante, ha permesso di individuare la comprensione del concetto di permanenza da parte dei bambini di cinque mesi e, dunque, di correggere l’originaria proposta di Piaget.
A questo studio ne sono seguiti molti i quali, misurando la durata dello sguardo del bambino nella maniera descritta (looking times), hanno insistito nel tentativo di chiarire cosa l’infante comprende e quali concetti possiede. Non solo l’infante sembrerebbe possedere una sorta di fisica naïve, già molto simile a quella dell’adulto, per cui, ad esempio, gli oggetti sono concepiti sotto le categorie dell’unità, della solidità, della gravità, del movimento rettilineo e così via, ma sembrerebbe anche possedere una matematica, una logica e una psicologia naïve.
Ad esempio, uno tra gli studi classici sulla psicologia naïve degli infanti è quello della psicologa americana Amanda Woodward, la quale ha utilizzato il paradigma dell’abituazione per rispondere alla domanda se anche gli infanti, come gli adulti, comprendano un’azione umana secondo la categoria dell’intenzionalità. In altre parole, la domanda di ricerca era se gli infanti, durante il primo anno di vita, attribuiscono spontaneamente un’intenzione quando sono testimoni di un’azione compiuta da un essere umano. Se di fronte ad un infante compio una certa azione, egli coglierà l’intenzione che mi ha mosso, oppure mi rappresenterà mentalmente come un essere meccanico e determinato da qualcosa ma non da uno stato interno? Le ricerche della Woodward dimostrano che dai sei mesi di vita l’infante distingue un’azione umana dal movimento di un oggetto inanimato, comprendendo che le azioni umane, ma non i movimenti degli oggetti, possono essere compiute in accordo con un certo stato mentale dell’attore, con alcuni suoi obiettivi o scopi.
Il bambino veniva abituato al movimento di una mano, la quale raccoglieva costantemente uno specifico oggetto (es. una palla) tra due oggetti disponibili (es. una palla e un orsacchiotto). Una volta conclusa la fase di abituazione, la posizione degli oggetti veniva invertita. L’oggetto sistemato a destra era portato a sinistra, e viceversa. Al bambino veniva mostrata una scena in cui la mano raggiungeva lo stesso oggetto ma questa volta facendo un movimento opposto (es. invece che allungarsi a sinistra, si allungava a destra), oppure una scena in cui la mano faceva il solito movimento (es. a sinistra) raccogliendo però l’oggetto mai raccolto prima (es. l’orsacchiotto). I bambini guardavano più a lungo il caso in cui la mano raccoglieva il nuovo oggetto (l’orsacchiotto) rispetto al caso in cui la mano raccoglieva l’oggetto raccolto durante la fase di abituazione (la palla), dimostrando così di possedere l’aspettativa che l’azione della mano fosse intenzionale e diretta non casualmente verso l’oggetto preferito. In altre parole, il movimento della mano non è stato compreso dall’infante come semplicemente diretto a sinistra o a destra, ma è stato rappresentato come un movimento compiuto motivato da una certa specifica intenzione. Questo risultato non è stato replicato nella condizione di controllo, in cui un oggetto come una pinza di metallo sostituiva la mano, dimostrando che l’aspettativa posseduta dagli infanti è selettiva per le azioni umane, come d’altra parte suggerirebbe una qualsiasi analisi del concetto di intenzionalità. In altre parole, alla pinza di metallo gli infanti non hanno attribuito lo stato mentale della preferenza per la palla piuttosto che per l’orsacchiotto.
Un ulteriore e sorprendente risultato riguardante la comprensione della psicologia umana da parte dell’infante, a cui abbiamo già accennato e che non ha mancato di suscitare un ampio dibattito all’interno della disciplina, è quello delle psicologhe Kristine Onishi e Renée Baillargeon (2005). Le sperimentatrici hanno raccolto alcuni dati coerenti con il fatto che i bambini, durante il secondo anno di vita, già a quindici mesi, possiedono la capacità di predire il comportamento di ricerca di un oggetto nascosto da parte di un attore sulla base del fatto che l’attore possegga una falsa credenza. In altre parole, a quest’età i bambini sarebbero già in grado di attribuire agli altri false credenze, rappresentazioni del mondo che non corrispondono a come il mondo è nella realtà.
Questo risultato (e poi tanti altri coerenti con queste prime evidenze; Baillargeon, Scott, & He, 2010 per una bella rassegna) ha sfidato la visione, consolidata attraverso due decenni di ricerca, sullo sviluppo della capacità di attribuire stati mentali agli altri (la cosiddetta ‘teoria della mente’), che derivava dall’uso di compiti di valutazione esplicita e verbale (elicited-response task). Lo sperimentatore, utilizzando compiti che prevedevano che il bambino fosse interrogato e selezionasse la risposta corretta e inibisse quella scorretta, tipicamente concludeva che il bambino non comprende che gli altri possano avere delle false credenze prima del quarto compleanno (Wimmer & Perner, 1983; Wellman, Cross, & Watson, 2001). Solamente verso il quarto anno di vita il bambino comprenderebbe che le credenze non riflettono in modo immediato il mondo ma sono piuttosto delle rappresentazioni, e, come tali, alle volte possono essere errate. L’uso di una nuova metodologia d’indagine, la registrazione dei tempi di fissazione dello sguardo secondo il paradigma della violazione delle aspettative, ha permesso di individuare questa capacità di comprensione, studiata a partire dalle risposte spontanee del bambino, a partire dall’anno e mezzo circa.
Nell’esperimento di Onishi & Baillargeon (2005), ai bambini veniva mostrato un adulto bendato intento a riporre un oggetto in una scatola tra due possibili scatole. Dopodiché, i bambini erano testimoni dello spostamento dell’oggetto dalla scatola in cui era stato riposto all’altra scatola, e del fatto che l’adulto, poiché bendato, non potesse essere consapevole dello spostamento. In questo modo si determina una situazione in cui l’adulto bendato possiede una falsa credenza sulla posizione dell’oggetto. Misurando i tempi di fissazione dello sguardo rispetto alla ricerca dell’adulto nella scatola in cui aveva riposto l’oggetto piuttosto che nella scatola in cui si trova l’oggetto, e interpretando la misura secondo il razionale per cui il bambino osserva più a lungo un evento inaspettato di un evento previsto o coerente con le sue aspettative, gli sperimentatori hanno trovato che i bambini, già in tenera età, si aspettano che l’adulto cerchi inizialmente l’oggetto nella scatola in cui l’aveva riposto, e non nella scatola dove effettivamente si trova. Infatti, i bambini hanno guardato più a lungo l’adulto che riusciva a trovare l’oggetto al primo tentativo.
Per avere quest’aspettativa i bambini devono necessariamente possedere almeno una rudimentale ed implicita teoria della mente rappresentazionale, per cui gli altri vengono compresi come attori che agiscono sulla base delle loro credenze, le quali non riflettono il mondo così com’è nella realtà ma sono rappresentazioni, alle volte veritiere alle volte false. Questo e altri studi successivi tendono a dimostrare come fin dai primi anni di vita il bambino possieda una comprensione della psicologia sociale umana molto maggiore di quanto si pensasse sino a vent’anni fa.
3.2. Reaching measures (misure del movimento di raggiungimento): l’espressione della preferenza del bimbo
Le relazioni sociali tra le persone a volte assumono una connotazione morale. In altre parole, gli individui, il loro carattere, le loro abitudini, le loro azioni, le intenzioni che motivano il comportamento, e le conseguenze provocate dall’agire possono essere valutate usando concetti come bontà e cattiveria morale. La conoscenza morale e la competenza di giudizio morale non è solamente implicita, ovvero non è solamente una risposta spontanea all’ambiente, ma è anche esplicita. Anzi, buona enfasi è dedicata, nel mondo adulto, all’esplicitazione e alla discussione dei principi e delle valutazioni morali secondo ragione. Tuttavia, alla base della discussione morale risiede la stessa capacità di distinguere le azioni lungo alcune linee concettuali fondamentali, come quella relativa alla bontà e alla cattiveria. In altri termini, alla base della stessa possibilità di discutere con un vocabolario genuinamente morale c’è la condivisione, tra i parlanti, di un senso morale. Abbiamo già detto che il senso morale è la capacità di distinguere il bene dal male, la capacità di formare dei giudizi morali (cui segue, con lo sviluppo del linguaggio, la capacità di formulare delle valutazioni).
Ora, l’obiettivo scientifico è stabilire, sulla base dell’evidenza empirica raccoglibile, se il senso morale sia innato nell’uomo o, comunque, a quale età i bambini incomincino a distinguere tra azioni moralmente buone e moralmente cattive. Uno dei primi studi sulla valutazione sociale e morale dei bambini in età preverbale è stato condotto dagli psicologi Kiley Hamlin, Karey Wynn e Paul Bloom, e pubblicato su Nature nel 2007 con il titolo Social evaluation by preverbal infants.
A due gruppi di bambini, uno composto da infanti di sei mesi di vita e l’altro composto da infanti di dieci mesi di vita, sono state mostrate delle scene molto semplici di interazione sociale al fine di comprendere, innanzitutto, le loro aspettative. Le scene erano progettate in modo tale da rappresentare un’azione buona (di aiuto) oppure una cattiva (di ostruzione). I bambini venivano abituati ad una scena in cui un cerchio colorato con degli occhietti pitturati (che dai bimbi è rappresentato come un attore dotato di intenzionalità, e preferito nella sperimentazione rispetto ad un attore adulto poiché gli infanti sono solitamente riluttanti ad avvicinarsi ad adulti estranei) cerca di scalare una montagnola di cartone senza però riuscirvi. Dopo due tentativi di scalata, il personaggio cerchio veniva prima aiutato da un altro personaggio, poniamo un triangolino, che lo spingeva fino alla sommità della montagnola, oppure ostacolato da un personaggio cattivo, poniamo un quadratino, che dall’alto lo spingeva in basso (abituazione).
I bambini osservavano alternativamente un evento positivo di aiuto e un evento negativo di impedimento fino al raggiungimento dell’abituazione, ovvero fino ad una diminuzione sensibile dei tempi di fissazione dello sguardo. Per la precisione, la durata dello sguardo del bambino era misurata dal momento in cui il personaggio buono (triangolino) o quello cattivo (quadratino) usciva dalla scena fino al momento in cui il bambino non spostava l’attenzione per almeno due secondi altrove rispetto alla scena (segno di noia o disinteresse relativo), oppure al passare di un minuto.
Dopodiché, i bambini erano invitati a osservare una scena differente, nella quale il cerchio, in cima a una collina, sceglieva di raggiungere colui che lo aveva precedentemente aiutato, ad un lato della collina, oppure colui che lo aveva ostruito, al lato opposto. I bambini più grandi, di dieci mesi, hanno fissato più a lungo l’evento in cui il personaggio raggiungeva colui il quale aveva in precedenza impedito la scalata rispetto all’evento opposto. Il bambino, dunque, dai dieci mesi di vita, si aspetta che i personaggi preferiscano coloro i quali sono stati buoni con loro e, invece, abbiano un’avversione verso coloro i quali sono stati cattivi con loro. In questo senso, gli infanti hanno correttamente attribuito al personaggio principale l’intenzione di scalare la montagnola, e hanno formato l’aspettativa che il personaggio voglia accompagnarsi a chi l’ha aiutato a realizzare il suo obiettivo o voglia evitare chi gli ha impedito di realizzare le proprie intenzioni.
Ma cosa pensa o preferisca il bambino stesso riguardo colui il quale aiuta un terzo o colui il quale agisce in maniera cattiva non è ancora chiaramente deducibile dai tempi di osservazione della scena. Per rispondere a questa domanda gli sperimentatori hanno pensato di usare una misura diversa rispetto al tempo di fissazione dello sguardo. Per determinare le preferenze del bimbo, infatti, è consigliabile usare le cosiddette reaching measures, in altre parole le misure dei movimenti finalizzati al raggiungimento di un oggetto (d’ora in poi ‘movimenti di raggiungimento’). In questo caso parliamo del paradigma di scelta (choice paradigm), proprio perché al bambino è chiesto di scegliere il personaggio preferito, quello più buono, oppure quello più cattivo.
Il personaggio che aveva aiutato e il personaggio che invece aveva agito per impedire il raggiungimento dello scopo altrui venivano presentati ai bambini su un vassoio, sotto forma di rappresentazioni disegnate su cartone delle due figure. Al bambino veniva poi chiesto di prendere un giocattolo, una delle due figure, e praticamente tutti i bambini, sia quelli del gruppo di dieci mesi sia quelli del gruppo di sei mesi, hanno scelto di prendere la figura che giocava il ruolo dell’altruista. Questa scelta è stata interpretata come un indice della loro preferenza (morale).
Ora, poiché i bambini più piccoli, di sei mesi, hanno preferito scegliere il personaggio buono, ma ancora non hanno mostrato di aspettarsi che il personaggio scalatore debba preferire chi lo aiuta rispetto a chi si comporta in maniera cattiva, la conclusione tratta dagli autori è che la capacità di valutare situazioni sociali si sviluppa qualche mese prima della capacità di inferire le valutazioni sociali e morali altrui.
Rimangono aperte almeno ancora due questioni sulla corretta interpretazione dei dati. La prima riguarda la genuinità della valutazione sociale o morale dell’infante. È possibile argomentare che i bambini preferiscano l’uno o l’altro personaggio in conformità a considerazioni che non hanno nulla a che vedere con la proprietà sociale o morale dell’azione da loro compiuta, ma piuttosto con alcune caratteristiche percettive o fisiche. Ad esempio, i bambini potrebbero semplicemente preferire il movimento di salita a quello di discesa, oppure potrebbero gradire maggiormente osservare qualcuno che spinge in alto rispetto a qualcuno che spinge in basso. Anche se questa interpretazione può sembrare poco probabile, è comunque necessario che gli sperimentatori propongano delle condizioni di controllo che siano in grado di verificare la pertinenza delle ipotesi di spiegazione alternative. Per ovviare alla critica che spiegazioni più semplici ma meno teoreticamente interessanti potrebbero spiegare altrimenti i risultati, gli sperimentatori hanno dunque condotto un esperimento di controllo dove la figura aiutata o impedita era presentata come un oggetto inanimato, senza gli occhietti pitturati e senza l’abilità di muoversi da sé.
Le caratteristiche fisiche e percettive relative ai movimenti coinvolti nella scena rimanevano dunque le stesse, ma le caratteristiche sociali (occhietti e movimento autonomo) erano invece escluse. Mostrando le scene modificate in questo modo, è possibile predire due risultati tra loro opposti. Possiamo ottenere, da parte dei bambini, delle scelte simili a quelle trovate nell’esperimento principale, oppure possiamo ottenere delle risposte di scelta casuali. Se otteniamo delle risposte simili a quelle dell’esperimento in cui i personaggi erano dotati di proprietà sociali, allora dobbiamo spiegare anche i risultati del primo esperimento come un’espressione di preferenza da parte del bambino rispetto a caratteristiche non sociali della scena. Se, diversamente, i bambini nell’esperimento di controllo scelgono in maniera casuale, possiamo escludere l’interpretazione alternativa dei risultati del primo esperimento. Tutti i bambini, in questa situazione di controllo, hanno scelto in modo statisticamente casuale, rafforzando l’interpretazione che legava i risultati ottenuti nella condizione sperimentale con una precoce abilità di valutazione sociale e morale. La stessa scelta casuale è stata riportata quando ai bambini erano mostrate delle scene in cui il personaggio principale non mostrava alcuna intenzione, e rimaneva fermo a valle, mentre un secondo personaggio compiva il movimento di salita, e un terzo compiva un movimento di discesa. Se i bambini preferissero un personaggio all’altro in relazione alla loro predilezione per il movimento di salita o discesa, allora dovrebbero ancora una volta scegliere in maniera non casuale.
La seconda questione interpretativa rimasta aperta riguarda, invece, come spiegare la scelta finale (di preferenza) dei bimbi. I bambini possono aver mostrato una preferenza per la bontà rispetto alla cattiveria poiché preferiscono chi aiuta, poiché preferiscono non scegliere il cattivo, o per entrambe queste due ragioni. Introducendo una scena in cui viene coinvolto un personaggio ‘neutro’, il quale si limita ad osservare lo sforzo della figura scalatrice, e ripetendo la misura di preferenza, possiamo chiarire questo secondo problema interpretativo.
Quasi tutti i bambini di entrambe le età hanno mostrato di possedere la capacità di valutare positivamente, da una parte, e negativamente, dall’altra, di preferire la cooperazione e di non preferire coloro i quali impediscono il raggiungimento degli obiettivi altrui. Infatti, gli infanti osservati hanno preferito scegliere manualmente il personaggio buono a quello neutro, e, poi, il personaggio neutro a quello cattivo. Questa capacità di valutare gli individui per la qualità sociale o morale delle loro azioni costituisce un primo fondamento per un sistema di cognizione morale (senso morale) in fase di sviluppo. Aver trovato questa capacità presente in infanti al primo anno di vita è da molti considerata un’evidenza a favore della tesi che l’uomo possiede un senso morale innato.
3.3. La direzione dello sguardo per capire le aspettative e le preferenze dei bambini
È comunque possibile studiare anche bambini più piccoli di sei mesi. Gli stessi autori dello studio appena presentato (K. Hamlin, K. Wynn e P. Bloom) hanno infatti indagato la valutazione socio-morale di bambini al loro terzo mese di vita.
Con i bimbi così piccoli non è sconsigliabile utilizzare il metodo che sfrutta la preferenza implicitamente espressa attraverso il gesto di raggiungimento. Infatti, a tre mesi di vita un bambino ancora non riesce a controllare e coordinare bene i propri movimenti. Tuttavia, il comportamento di raggiungimento può essere messo in relazione con la direzione dello sguardo. Se un bambino preferisce un personaggio a un altro e vuole raggiungerlo, allora, verosimilmente, guarderà nella direzione in cui il personaggio preferito è stato posto. Per ottenere una conferma empirica di tale legame, gli autori hanno registrato la direzione dello sguardo dei bambini di sei mesi testati nell’esperimento già presentato, e hanno messo in relazione i dati ottenuti con la preferenza espressa dai bambini per mezzo del movimento di raggiungimento. Procedendo in questo modo, hanno trovato una forte correlazione tra i due comportamenti, confermando l’adeguatezza del metodo che registra la direzione dello sguardo per la comprensione delle preferenze del bambino. In breve, i bambini guardavano nella direzione in cui era diretto il loro movimento di raggiungimento.
L’idea, allora, è utilizzare la direzione dello sguardo come un indice della preferenza del bambino. Usando le stesse scenette usate nell’esperimento già descritto, i ricercatori hanno scoperto che i bambini di tre mesi preferiscono guardare nella direzione del personaggio buono o prosociale invece che nella direzione del personaggio cattivo o antisociale. I due personaggi venivano tenuti dallo sperimentatore (all’oscuro della loro identità, in modo da non influenzare nemmeno involontariamente la scelta del bambino) a una distanza di circa mezzo metro dal bambino e per un periodo di circa trenta secondi.
Già a tre mesi, dunque, i bambini sono in grado di discriminare le persone sulla base di alcune caratteristiche sociali, le quali sono a fondamento di un primo e rudimentale senso morale. I bambini giudicano situazioni che li vedono coinvolti solo in qualità di spettatori esterni, dunque senza avere un interesse personale in gioco; e le situazioni mostrate ritraggono episodi che sia i bambini più grandi sia gli adulti valutano come connotati moralmente. Questo risultato sui bambini di tre mesi, allora, conferma e rinforza le conclusioni tratte dall’esperimento sugli infanti di sei e dieci mesi, ovvero che siamo in presenza di alcune importanti evidenze empiriche a sostegno dell’ipotesi dell’esistenza di un senso morale innato, di una naturale predisposizione a valutare gli altri in termini morali.
Come nell’esperimento precedente, anche in questo gli sperimentatori hanno voluto capire cosa spieghi la preferenza per il personaggio prosociale. Lo preferiscono perché ne sono attratti? Oppure lo guardano più a lungo perché preferiscono evitare di osservare il personaggio antisociale? Oppure valgono entrambe le spiegazioni?
Ancora una volta, i bambini assistevano a tre scene: una in cui era coinvolto un personaggio prosociale; una in cui era coinvolto un personaggio antisociale; e una terza in cui era coinvolto un personaggio ‘neutro’, il quale non interagiva con i movimento dello scalatore. Di seguito, la direzione dello sguardo dei bimbi è stata registrata per comprendere le loro preferenze.
Ora, rispetto alla misurazione del comportamento di raggiungimento, la misurazione della direzione dello sguardo riesce a essere, per un certo verso, più sensibile. Se la prima, proponendo una scelta forzata al bambino (o il personaggio negativo o quello neutro), non riesce a rivelare le distinzioni nella forza relativa della preferenza (es. non riesce a rispondere alla domanda se il bambino preferisca il personaggio neutro a quello antisociale con più forza o convinzione di quanto non preferisca il personaggio prosociale a quello neutro), la seconda misurazione invece ci riesce, essendo il tempo di osservazione una misura continua e non semplicemente binaria.
Il risultato è che i bambini di tre mesi preferiscono il personaggio neutro a quello antisociale, ma ancora non preferiscono il personaggio prosociale a quello neutro. Gli sperimentatori concludono che il bambino sviluppa la capacità di valutare negativamente l’antisocialità prima di quando sviluppi la capacità di valutare positivamente la prosocialità. Ragionando in maniera speculativa, e considerando la filogenesi dell’uomo, la precoce sensibilità agli stimoli negativi o avversivi potrebbe avere un senso preciso. Forse ha avuto priorità, negli ambienti primordiali, la capacità di riconoscere l’elemento estraneo, antisociale, potenzialmente pericoloso, rispetto al riconoscimento dell’elemento prosociale e collaborativo. Queste linee interpretative, ovviamente, rimangono di natura speculativa.
3.4. Lo studio longitudinale?
Lo studio o l’indagine longitudinale è una ricerca correlazionale tra osservazioni di una stessa variabile dipendente (concettuale, ma non necessariamente operativa) ripetute durante un certo arco temporale. Condurre uno studio longitudinale, dunque, significa indagare l’esistenza di una correlazione (una relazione tra due variabili tale che una varia in funzione dell’altra) tra due o più misurazioni di una stessa variabile compiute in tempi diversi. Generalmente, attraverso l’indagine longitudinale è possibile comprendere con sicurezza la continuità o discontinuità e i cambiamenti nel processo di sviluppo della mente e del comportamento umano.
Ora, se consideriamo, oltre al campo più ristretto della cognizione morale, il campo di ricerca sulla cognizione sociale (e per inciso, la cognizione sociale comprende la cognizione morale, e diversi autori preferiscono parlare di cognizione sociale tout court quando si riferiscono agli studi condotti sugli infanti in età prescolare, trovando scorretta l’idea che bambini così piccoli ragionino in termini morali), possiamo notare una certa differenza tra le due cognizioni che diventa rilevante nel momento in cui scegliamo di condurre uno studio longitudinale.
Generalmente, studiando il ragionamento morale, lo sperimentatore è interessato a comprendere se è presente la capacità di trarre alcune distinzioni morali (soprattutto negli infanti e nei bambini) e quale tipo di scelta morale è privilegiata, oltre a individuare quali processi sono coinvolti nella formazione e nella formulazione del giudizio. Diversamente, nello studio della cognizione sociale lo sperimentatore può essere interessato al grado con cui è posseduta una certa capacità, ad esempio l’intelligenza sociale oppure la teoria della mente. Studiando la cognizione sociale, in altri termini, sarebbe più probabile avere misure di correttezza, mentre difficilmente ci si trova a dedurre da uno studio sul ragionamento morale che la persona ha ragionato in maniera corretta e in che grado l’ha fatto.
Questa differenza, allora, può, almeno in parte, dar conto del perché gli studi longitudinali, pur essendo in generale condotti raramente, siano comunque condotti con maggior frequenza sulla cognizione sociale che sulla cognizione morale. Ad esempio, la capacità di distinguere il bene dal male, riguardo certe azioni e situazioni, una volta sviluppata rimane un’acquisizione che accompagna l’individuo durante tutta la sua vita. La capacità di comprendere gli stati mentali altrui, invece, sembra essere una capacità posseduta a diversi livelli o gradi prima dall’infante e poi dal bambino. Ne segue che, nello studio dello sviluppo della teoria della mente, può essere sensato condurre un’indagine longitudinale per capire, ad esempio, se buone o cattive capacità di lettura della mente negli infanti in età prelinguistica siano correlate a buone o cattive capacità di lettura della mente nei bambini più grandi.
È ciò che hanno fatto gli psicologi Yamaguchi, Kuhlmeier, Wynn e vanMarle, con uno studio longitudinale poi pubblicato nel 2009. Abbiamo visto che molto presto, durante l’infanzia, si sviluppa la capacità di attribuire l’intenzionalità a un attore umano e che, più tardi, in età prescolare, i bambini, formulando giudizi espliciti, mostrano la capacità di comprendere correttamente gli stati mentali e le credenze altrui. Gli sperimentatori hanno ipotizzato uno sviluppo della cognizione sociale continuo, tale per cui le abilità registrabili durante l’infanzia sarebbero correlate alle abilità possedute dal bambino in età prescolare. Gli stessi bambini sono stati studiati a un anno di età e, in seguito, a quattro anni. Dopodiché, gli sperimentatori hanno verificato l’esistenza di una correlazione tra le misure ottenute a un anno e quelle ottenute a quattro.
Gli infanti venivano abituati alle scenette già considerate nelle quali una figura era aiutata da un’altra figura a raggiungere il suo obiettivo di scalare una montagnola oppure impedita nel suo obiettivo. Gli sperimentatori hanno registrato i tempi di fissazione dello sguardo rispetto a due eventi: l’avvicinarsi della figura a chi l’aveva aiutata e l’avvicinarsi della figura a chi l’aveva ostacolata. Guardando più a lungo l’evento in cui la figura si avvicinava a chi l’aveva aiutata, i bambini mostravano la loro preferenza verso quest’evento, al contempo mostrando di comprendere la differenza tra i due eventi (aiutare e ostacolare), e che la figura aveva delle intenzioni proprie, degli stati mentali specifici. La prima misura per calcolare la correlazione è, dunque, la quantità di tempo spesa dal bambino a fissare l’evento in assoluto preferito (quello di avvicinamento al personaggio buono) rispetto al tempo di fissazione totale.
Compiuti quattro anni, gli stessi bambini sono stati sottoposti a un compito volto a misurare in maniera più specifica e diretta la capacità di comprendere gli stati mentali altrui. Il compito prevedeva cinque domande, le risposte alle quali permettevano di valutare se il bambino comprendesse, ad esempio, che due persone possano avere desideri o credenze differenti rispetto a uno stesso oggetto, oppure che le persone possano avere delle false credenze, o, ancora, che possano simulare uno stato emotivo, come un’espressione di gioia o di tristezza. La seconda misura utile a calcolare la correlazione allora era un punteggio da 0 a 5, assegnato al bambino in relazione al numero di domande risolte correttamente.
Una misura di controllo, introdotta appositamente per valutare l’ipotesi che la continuità evolutiva è specifica per il dominio sociale e non, invece, generale, consisteva nel calcolare la correlazione tra i valori ottenuti dal compito della teoria della mente a quattro anni e altri valori relativi ai tempi di fissazione dello sguardo in un compito progettato per valutare l’abilità degli infanti nel discriminare la durata temporale di alcuni suoni, abilità, quest’ultima, che non ha nulla a che fare con la comprensione di eventi sociali.
Prima di vedere i risultati, un cenno veloce alla correlazione in statistica. La correlazione è un indice di misura dell’associazione tra almeno due variabili. Detto in altro modo, la correlazione misura il grado in cui due variabili variano assieme, come una varia in funzione dell’altra, se varia in maniera regolare al variare dell’altra, e se sì, in che misura. Al contrario della relazione causale, dove la variabile dell’effetto varia in funzione della variabile da cui dipende (la causa), la correlazione stabilisce semplicemente la misura in cui due variabili variano assieme, senza stabilire la dipendenza causale della loro variabilità.
La misura della relazione è espressa dall’indice di correlazione (lineare), il quale può assumere valori compresi tra -1 e 1. Zero esprime l’assenza di correlazione, ovvero il fatto che le due variabili variano in modo indipendente l’una dall’altra. Dopodiché, la correlazione può essere positiva o negativa. È positiva nel caso in cui all’aumentare dei valori di una variabile aumentino anche i valori dell’altra; è negativa nel caso in cui all’aumentare dei valori di una diminuiscano i valori dell’altra, o viceversa. Gli indici di correlazione (anche, r) pari a 1 o -1 indicano una situazione di perfetta correlazione positiva o negativa, in cui i valori di una variabile variano insieme ai valori dell’altra variabile con perfetta regolarità. Il valore assoluto di r, compreso tra 0 e 1, indica la forza della relazione lineare, massima quanto il valore è 1, minima o nulla quando il valore è 0. Graficamente una relazione nulla si rappresenta con una linea retta parallela a uno dei due assi cartesiani, mentre una relazione perfetta, negativa o positiva, si rappresenta con una retta che attraversa diagonalmente lo spazio del quartile individuato.
L’indice di correlazione r, trovato dagli sperimentatori tra i tempi di fissazione dello sguardo, espressione della preferenza e dell’abilità discriminatoria dell’infante, e l’abilità di comprendere gli stati mentali altrui del bambino, è pari a .53, ovvero è una correlazione positiva abbastanza forte. All’aumentare della capacità discriminativa dell’infante aumenta la prestazione del bambino al compito della teoria della mente. Ciò significa che le due variabili sono correlate positivamente. Diversamente, la prestazione del bambino al compito della teoria della mente non è correlata con la capacità di distinguere la durata temporale dei suoni (r = -.10). Questo risultato è per lo meno coerente con l’interpretazione per cui la continuità nello sviluppo individuata è da considerarsi specifica per il dominio sociale.
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