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Un libro sulla filosofia della guerra? Filosofia pura della guerra!
Abstract
A philosophy of war del filosofo inglese Alexander Moseley, autore di alcuni articoli sulla influente Internet Encyclopedia of Philosophy, è una delle poche opere filosofiche dedicate esclusivamente alla guerra. L’opera è edita nel 2002 e rimane ancora uno dei pochi esemplari di filosofia applicata alla guerra. Nonostante Moseley cerchi di rimanere fedele al suo proprio imperativo di non tratteggiare la guerra da un punto di vista morale, egli, come vedremo, in realtà è profondamente impegnato nella difesa di una peculiare prospettiva antropologica, capace di fondare una forma radicale di pacifismo. Tale visione antropologica difende l’idea che l’uomo sia libero di scegliere in base alle sue proprie idee, le quali sono determinate dal contesto storico-ambientale, ma non sono tali da annullare la sua volontà, il cui libero arbitrio è il baluardo che garantisce la libertà stessa. Moseley, poi, cerca di portare argomenti economici e sociali a favore della pace, la cui razionalità si impernia attorno al riconoscimento della superiorità della cooperazione, collaborazione e integrazione sia tra singoli esseri umani che tra gruppi sociali.
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Struttura dell’articolo
- Considerazioni metodologiche
- Premesse individuali e premesse sociali: enunciazione e disamina
- Definire la guerra: un obiettivo chiaro
- La guerra non è inevitabile e argomenti a favore di un pluralismo metafisico, descrittivo ed esplicativo
- Alternative alla guerra: cooperazione individuale e internazionale sulla base della ragione, delle idee e della cultura
- Conclusioni
Bibliografia citata
1. Considerazioni metodologiche
Per comprendere A philosophy of war è indispensabile considerare immediatamente le premesse da cui parte Moseley. Infatti, esse sono chiavi di lettura imprescindibili per riuscire a considerare nella giusta ottica la posizione del filosofo inglese. Nonostante venga dichiarato che l’analisi sia neutrale da un punto di vista morale, risulta allo stesso tempo non neutrale da un punto di vista filosofico. Moseley difende un pacifismo radicale, in cui è esclusa ogni forma di guerra, non v’è alcuno spazio per una guerra giusta e, quindi, neppure in generale.
Lo scopo stesso di A philosophy of war consiste proprio nel proporre un’antropologia e un’eziologia della guerra in cui si mostri come la guerra sia intrinsecamente sconfiggibile. Il fatto che ogni forma di guerra sia un male è dato per scontato a tal punto da non essere seriamente considerato come un punto problematico trovare una giustificazione politica o morale del suo rifiuto. Sin da subito non si può fare a meno di rimanere dubbiosi di fronte ad un approccio filosofico in cui ci si astiene dal portare ragioni (quali che siano) a sostegno delle tesi di fondo. In questo caso, infatti, era indispensabile considerare i problemi della guerra, laddove anche in chiave pacifista, è impossibile rifiutarsi dal considerare seriamente se la guerra sia o meno un male e se sia inevitabile.
Su questo ultimo punto, però, Moseley argomenta lungamente, sicché l’idea generale che si può evincere indirettamente dall’opera è che la guerra sia evitabile, quindi è evidente che si debba sempre evitare. L’argomento morale kantiano della pace perpetua (se è possibile la pace perpetua allora dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per garantirla) non viene considerata esplicitamente, ma è implicita in tutto il lavoro di Moseley. Questa inferenza implicita sembra essere supportata anche dalle prove che Moseley porta per la positività economica della pace.
Infatti, proprio per non portare prove morali (che pure avrebbe potuto considerare) Moseley è forzato a considerare solo evidenze di natura non morale a sostegno della pace: la cooperazione tra popoli e individui conduce inevitabilmente alla prosperità economica, che sostiene ed è figlia della pace.
Da un punto di vista metodologico, dunque, Moseley propone un’analisi filosofica di natura non morale sulla guerra e sulle sue varie tipologie. Egli sostiene l’indispensabilità di considerare molte discipline diverse in quanto nessuna in particolare è in grado di esaurire (descrivere e spiegare) un fenomeno tanto composito e sfuggente quanto è lo è la guerra. In questo si fonda il suo “approccio multidisciplinare” che non si radica oltre a livello metodologico. Infatti, da un punto di vista delle argomentazioni egli si rifà esclusivamente a ragioni filosofiche, vale a dire normative. Moseley, infatti, riutilizza a fini filosofici le prove storiche, letterarie, artistiche, antropologiche reperite appunto da varie categorie di studi.
Lo stile argomentativo di Moseley non risulta essere propriamente analitico, se con “analitico” intendiamo una specifica analisi del linguaggio utilizzato per descrivere la guerra piuttosto che il livello di dettaglio delle argomentazioni presentate. In questo senso, Moseley sembra più rientrare all’interno degli studi di filosofia politica classica (di cui è esperto) che non all’interno della filosofia analitica applicata ad un ambito di studi specifico. Egli, tuttavia, assume come sistema argomentativo la preliminare assunzione delle tesi avversarie per poi criticarle e rifiutarle. E’ proprio per questa ragione che in diversi punti del suo saggio sembra di incappare in una fallacia logica. Sembra che Moseley voglia dimostrare ciò che egli stesso ha già preliminarmente ha assunto come vero (o come falso): questo è particolarmente evidente quando Moseley considera i problemi del determinismo metafisico e del realismo politico.
Infine, Moseley non scende troppo nel dettaglio delle tesi e delle argomentazioni rivali (al di là della tipologia di argomentazione o critica delle stesse). Questo perché egli è interessato sia a portare evidenze a sostegno della sua antropologia pacifista e possibilista, quanto perché non intende analizzare specificamente le varianti delle possibili posizioni alternative.
2. Premesse individuali e premesse sociali: enunciazione e disamina
Per avere un quadro unitario della posizione di Moseley non sarà fuori luogo considerare l’insieme delle premesse esplicite o implicite da cui trae le sue conclusioni. La formulazione è nostra, Moseley lascia sullo sfondo l’enumerazione delle proprie assunzioni. Ci sembra idoneo formulare le ipotesi in modo quanto più analitico e chiaro possibile:
(I) Premesse individuali
- Relazione causale mente e corpo: gli stati mentali M all’interno della mente T di un soggetto S hanno un potere causale tale che da uno stato mentale a di M di S si causa un secondo stato mentale b o da uno stato mentale a si causa un’azione c ascrivibile a S. (Si veda p. 6, p. 210).
- Libera volontà: la volontà è una capacità della mente umana tale per cui se S desidera a e a è un’azione realizzabile da S allora a può essere realizzata da S sulla base della sua volontà. (Si veda p.7, p. 106).
- La guerra è un’attività culturale: la guerra è una attività la cui causa risiede nelle decisioni dei singoli individui parte di una società. Dato (1) e (2) allora le decisioni dei singoli dipendono dai loro stati mentali e dalla loro volontà. Gli stati mentali proposizionali possono essere formati attraverso altri individui per testimonianza: in questo caso si parla di cultura. Una società può trasmettere ad altri individui un corpus di idee favorevoli alla guerra. Si definisce così la cultura come l’insieme M delle credenze condivise c di una società S di individui I tale che se I appartiene a S allora c di M è creduta da ogni individuo i di I. (Si veda p. 7, p. 77, p. 146).
Il fatto che la (3) sia indipendente da (1), si evince dal fatto che non segue logicamente che un gruppo di individui si comporti come un individuo. Quindi per sostenere che la guerra è un’attività culturale (intesa come attività sociale di più individui individuati da un comune insieme di idee) bisogna inevitabilmente assumere una nuova premessa che sancisca la relazione tra individuo e società di appartenenza. E’ evidente che per Moseley la (3) ha come condizione necessaria la (1), dovendo fondare la cultura sull’insieme delle credenze dei singoli individui inscritti in una società. Tuttavia, la (1) non risulta inglobare alcun termine che rimandi ad una attività sociale, come che sia definita. Per tanto, la (3) va considerata a pieno titolo come una assunzione.
- La guerra è una passione: tra le attitudini dell’essere umano c’è quello di combattere e di unirsi in gruppi per combattere contro altri uomini e altri gruppi. (Si veda p. 8).
- La guerra è parzialmente causata dalla natura umana: la natura umana, qui intesa come fattore biologico e psicologico dell’essere umano, talvolta spinge verso la guerra (condizione prevista da (1)), ma date (1) e (2) essa non può essere l’unica causa. (Si veda p. 76).
(II) Premesse sociali
- Le società sono insiemi di individui: non si dà il caso che una società non sia altro che un insieme di esseri umani. Una società A è definita da un insieme di individui I tale che I contiene almeno due elementi a, b fino a un numero n tale che A è diversa da ogni suo sottoinsieme. Gli elementi di I rispettano (1) e (2) mentre le società non rientrano in (1) e (2). (Si veda p. 83, p. 185).
Si noti che nella prospettiva di Moseley non è lecito assumere che le società abbiano una volontà libera, né che abbiano volontà alcuna. Questa è la principale differenza tra individui umani e gruppi sociali.
- Le società dispongono di credenze: le società sono dei gruppi di individui che dispongono di credenze condivise da cui possono generare azioni sulla base di (1), per tanto una società dispone delle credenze condivise dei singoli individui (Si veda p. 30).
- I gruppi non decidono né pensano e la guerra è il risultato di una serie di scelte individuali: non c’è una mente tale che essa sia la somma di individui a loro volta dotati di mente (premessa (6)), perciò ogni individui dotato di mente per (1), (2) e (3) è in grado di prendere decisioni sulla base delle proprie idee o stati mentali a condizione che lo voglia. (Si veda p. 39).
Le premesse centrali dell’analisi di Moseley sono le prime tre congiunte, infatti, egli definisce come ʽguerra uno stato di violenza organizzatoʼ. Per riportare le sue parole: “war is a state of organised open-ended collective conflict“.[1] La definizione si applica, dunque, a stati di conflitto organizzati in cui gli elementi in conflitto sono esseri umani o gruppi di esseri umani. Moseley assume le singole decisioni dei singoli esseri umani parte del gruppo come elementi ultimi che determinano uno stato di guerra. Tuttavia, assumendo l’idea che la guerra sia una condizione contingente, egli deve rintracciare le cause della contingenza per mostrare come la guerra sia solo una possibilità, eventualmente sconfiggibile.
La strategia di Moseley consiste nel considerare il ruolo dei singoli individui come fondativo, nella misura in cui la libera volontà (premessa 2) e le idee dei singoli individui (premessa 1) hanno un potere causale (premessa 1) che determinano una certa decisione che si tradurrà poi in azione. La cultura, in quanto insieme di credenze condivise sia valutative che disposizionali (che quindi indirizzano verso un certo modello comportamentale condiviso da una società), assume un ruolo importante proprio perché rende più facile ereditare o formare nuove idee a partire dall’insieme di idee e credenze proprie di una certa società. La spiegazione della guerra e quindi della sua natura, secondo Moseley, deve essere fondata sulla somma delle decisioni dei singoli individui, le cui idee (premessa 1) e le cui volontà (premessa 2), se assistite dalla cultura (premessa 3) possono determinare lo stato di “conflitto organizzato”.
Va considerato che si potrebbero anche dare definizioni e antropologie diverse da quelle fornite da Moseley. Egli, infatti, assume le prime tre premesse individuali proprio perché vuole mostrare da un lato come la guerra sia spiegabile e, dall’altro, come essa non sia che un evento contingente che può essere evitato. Sulla base del potere causale delle idee e delle credenze (premessa 1) si può assumere che la guerra sia un evento contingente nella misura in cui essa può venire ad essere solo se viene accettata dalle idee dei singoli individui. Questa è sia la spiegazione che la dimostrazione del fatto che la guerra può essere spiegata e di come la sua stessa spiegazione mostri la sua intrinseca contingenza.
Per ampliare la portata della potenza causale delle idee, data la natura sociale della guerra, Moseley amplia lo “spazio delle credenze” dagli individui alle società, per quanto queste ultime non siano altro somme di singoli individui (le cui relazioni non vengono considerate parte dell’ontologia sociale di Moseley). La cultura di una società è determinante per la presenza della guerra perché rallenta o favorisce l’insorgenza di conflitti armati. Se una società considererà onorevole la guerra, allora i singoli individui assumono idee e attitudini che non rifiuteranno l’uso della forza nella pratica. Anche in questo caso, come per la premessa 1, la spiegazione stessa della guerra sulla base della terza premessa funziona sia da base eziologica che da evidenza a favore della tesi di fondo di Moseley.
Quanto sopra è tanto più evidente quando consideriamo la premessa 2, vale a dire l’assunzione del libro arbitrio. Il libero arbitrio è la capacità dei singoli individui di uniformare la propria volontà sulla base di un’idea piuttosto che sulla base di un’altra, indipendentemente dalla forza motivazionale delle due idee. Per quanto esista un potere causale tra le idee, il libero arbitrio garantisce che nessuno stato mentale di un soggetto è condizione sufficiente per la sua decisione. Essa, infatti, va ratificata dalla volontà, la quale può anche rifiutarsi di adeguarsi allo stato mentale del soggetto, quale che sia. Per tanto, la guerra non è soltanto il risultato di una certa cultura (premessa 3), piuttosto che delle idee che credute dai singoli individui (premessa 1), ma è anche un’attività intrinsecamente volontaria (premessa 2). Il sistema decisionale di Moseley può essere così schematizzato:
Nello schema abbiamo aggiunto la presenza della ragione, di cui Moseley parla a lungo, in quanto essa interviene sulla formazione e disamina delle credenze, ma essa non si sostituisce né alle credenze (siano esse individuali o condivise), né alla volontà: le credenze sono il contenuto stesso della mente di un individuo, mentre la ragione è la sua capacità di combinare o scomporre idee creandone così di nuove. La ragione può spingere verso l’adozione di una certa attitudine all’azione, ma la ratifica finale del processo deliberativo è instanziata nella volontà, il cui libero arbitrio garantisce la possibilità di accettare o rifiutare quanto proposto dalle idee, credenze e dalla ragione.
Le premesse (4) e (5), aggiungono dei dettagli su ciò che può favorire l’insorgenza dei conflitti relativamente a ciò che viene definita in senso ampio come “natura umana”. Con natura umana potremmo intendere qualsiasi proprietà ascrivibili ad un essere umano idealizzato. Moseley considera la guerra come una passione intrinseca, cioè un’attitudine permanente inscritta tra i desideri di base dell’essere umano. Non si tratta propriamente di un istinto alla guerra, ma di un insieme di attitudini che favoriscono l’insorgenza di conflitti: l’aggressività, la paura, la volontà di dominio sono tutte passioni interne all’animo umano, che fanno parte del bagaglio psicologico standard di qualsiasi uomo. La premessa (5), cioè che la natura umana non determini ipso facto la guerra, in realtà non è altro che un corollario delle altre, nella misura in cui la volontà è libera (premessa 2) e le singole idee non sono uniche ma potrebbero essere diverse e, all’occorrenza, possono non spingere verso la guerra.
A questo punto è evidente che se la somma delle singole azioni converge verso un’attività di guerra, allora inizia lo stato di violenza, ma non necessariamente di guerra. Infatti, Moseley argomenta a favore dell’idea che non ogni forma di violenza sia una guerra. Le rivolte e i disordini spontanei delle folle non possono essere inclusi all’interno della categoria di guerra. Per tanto, Moseley introduce altre premesse. Infatti le sole premesse individuali non sarebbero sufficienti a discriminare atti di guerra da atti di combattimento non organizzato. Il problema, allora, è come considerare l’organizzazione.
La prima premessa sociale (premessa 6), le società sono insiemi di individui, non è un’affermazione filosofica gratuita, visto che filosofi come Hegel e Marx considerano le società e gli stati come individui (e infatti non accetterebbero né la prima né la seconda premessa, mentre accetterebbero la terza premessa individuale). Moseley non argomenta la premessa 6, mostrando il fatto che essa sia un assunto di fondo e non una tesi dimostrata. Tuttavia egli insiste nel criticare le tesi avversarie. La prima premessa sociale, comunque, non viene analizzata per tanto non è chiaro come considerare le relazioni tra individui, se ci siano, come funzionino e come consentano di comporre interessi condivisi. Allo stesso modo di come non è chiara la relazione che intercorre tra individui e società. Di fatto, Moseley sembra ammettere solo ed esclusivamente gli individui, e non le relazioni, all’interno della sua ontologia sociale. Altro fatto problematico della terza premessa è il fatto che essa non consente di individuare un criterio di identificazione delle società: un insieme di esseri umani totalmente scompaginato, purché includa credenze condivise, è anch’esso una società?
La seconda premessa sociale consiste nell’enunciare il fatto che le società dispongono di credenze condivise: ogni società ha una cultura (premessa 3). Dato il fatto che ogni individuo di una certa società partecipa alla cultura di quella stessa società, la cultura influisce in modo determinante nel comportamento globale della società. Questa premessa viene assunta come indipendente dalla premessa 3 perché ci siamo spostati da un’analisi dei singoli individui a gruppi di individui. La metafisica e le leggi di comportamento delle singole entità individuali a gruppi di entità, va considerata come indipendente anche qualora siano identiche: dire che un atomo si muove in un certo modo non implica che dieci atomi si muovano come uno, anche qualora effettivamente si muovano come uno (potrebbe non avvenire per la stessa legge che vincola il solo atomo).
In fine, la terza premessa sociale (premessa 8) stabilisce un limite per le società e per quello che le società sono e di come esse vanno concepite. Esse non sono individui, non vanno considerate come individui e non possono essere spiegate come individui: metafisicamente, epistemologicamente e eziologicamente le società vanno considerate semplicemente come aggregati di singoli esseri umani, la cui interazione va assunta come regolata dall’insieme delle attitudini e disposizioni e credenze individuali. Non c’è spazio ulteriore la dimensione sociale, la quale è sostanzialmente riducibile alle dinamiche di singoli individui.
3. Definire la guerra: un obiettivo chiaro
Moseley è chiaro in merito al problema della guerra: manca una definizione condivisa. Ogni autore che se ne sia occupato spesso la considera da un punto di vista morale (la tradizione della guerra giusta), oppure politico (la tradizione della filosofia politica moderna classica da Machiavelli e Hobbes in avanti). Tuttavia il trattamento tradizionale risulta affetto dall’errore sistematico di concepire l’oggetto in funzione dell’interesse. Per tale ragione, Moseley rivendica il primato di un approccio né morale né politico alla guerra:
Moralists often appraise or condemn war, and accordingly war may consigned to the sub-discipline of applied ethics or political philosophy; but by its very nature of questioning, examining, and postulating answers, philosophy deals with life and death, and so with peace and war. But philosophers should not rest there; they should aim to study war in all of its aspects – not just the moral or political issues it raises – and consider what war’s connections are to systems of thought presented by philosophers: for politicians are often influenced by philosophical thought, although they may not realize it.[2]
Non solo, dunque, la filosofia della guerra deve essere liberata dall’approccio morale o politico, ma deve anche rendersi conto dell’importanza di una tale ricerca. La definizione di guerra per Moseley è sempre stata affetta dalla fallacia normativa, cioè dal voler includere all’interno della definizione di guerra una forma di valutazione morale o politica in cui si riuscisse a discriminare non solo l’oggetto della ricerca ma anche la sua natura qualitativa, la cui valutazione dipende intrinsecamente dalle norme di valutazione utilizzate (morali o politiche a seconda dei casi):
War’s definition should avoid specific political conceptions of the world (e.g., the world is only made up of states), as far as that is possible, for the objective of a war may not be the overthrow of a regime – it may be war for glory’s sake, war for God’s sake, war for ritual’s stake or other ends. Often, definitions of war imply that the incumbent target is morally or politically legitimate, which implies a particular political conception of the world, namely that it involves states, and that such states either hold power legitimately or not. Definitions of war (notably the political-rationalist and realist definitions) are prone to such faults; hence, to be philosophically useful, the concept should not initiate normative implications but attempt to describe what war is.[3]
Moseley rifiuta esplicitamente l’idea che la guerra sia solo una condizione soggettiva: è possibile definire la guerra in maniera obiettiva, cioè indipendente dalla prospettiva specifica del soggetto (“Wars are not in the eye of the beholder, but must be objectively defined, as far as that is possible).[4] Non è, in realtà, così chiaro se la guerra sia una realtà oggettiva, se cioè bisogna considerare la guerra come un fatto da incorporare nella propria ontologia. Moseley non sembra accorgersi del problema, ma stando alle sue assunzioni, la guerra va considerata come una condizione complessa e, quindi, ontologicamente non elementare.
La guerra va concepita come un fatto sociale la cui definizione non deve incorporare termini di valutazione morale e politica. Moseley definisce la guerra come un conflitto organizzato delimitato nel tempo. Egli rifiuta l’idea che l’essenza della guerra (che dovrebbe catturarsi nella definizione) richieda di per sé l’uso della forza, laddove sussistono condizioni di conflitto senza spargimenti di sangue. In definitiva, dunque, la definizione discrimina gli eventi sociali in cui due o più gruppi si organizzano. Gli eventi sociali di natura bellica, tuttavia, possono essere ridotti a fatti più semplici che non sono di natura sociale.
Sono diversi i problemi della definizione di guerra di Moseley: (1) egli non prevede all’interno della sua definizione un riferimento alle intenzioni degli agenti, elemento intuitivo ben chiaro per altro a gran parte della tradizione (si pensi, ad esempio, a Hobbes, che Moseley cita esplicitamente). Potrebbe darsi che Moseley non consideri l’intenzione degli agenti come determinante perché vuole che la guerra sia definita indipendentemente dalle inclinazioni soggettive e perché non vuole entrare all’interno dei problemi relativi alla definizione delle intenzioni (filosoficamente assai impegnativi). Ma così la definizione di guerra sembra risentire di una componente fondamentale. Infatti ciò emerge dal secondo problema.
(2) La definizione di Moseley non incorpora la condizione per cui ci sia un’organizzazione dello stato di conflitto. Un’organizzazione sociale privata di uno scopo esplicito o implicito non è più ipso facto un’organizzazione (si veda Bottazzi E., (2010), Criteri filosofici per l’organizzazione delle organizzazioni sociali, Torino, tesi di dottorato). Per tale ragione, la definizione di Moseley sembra monca, laddove non si spiega la natura della guerra rispetto alla richiesta della presenza di un’organizzazione. Un ulteriore problema lasciato aperto da questa aporeticità è proprio il fatto che non è neppure chiaro se uno stato che invada un territorio di pastori disorganizzati stia commettendo un atto di guerra o no. Rispetto al gruppo disorganizzato di pastori senza dubbio no, visto che questi non sono organizzati. Ma anche guerre la cui natura è estemporanea (vedi le contese di confine o le guerre tra i coloni inglesi in America con i nativi) sembrano totalmente lasciate fuori. Per tanto, la definizione di guerra di Moseley ricade sotto la scure di controesempi. Essa rimane meno specifica della definizione di guerra offerta da Clausewitz, sicuramente si estende e risulta correttamente più vaga, ma non risulta sufficientemente debole da includere tutte le guerre sia reali che immaginarie.
(3) La definizione di Moseley non fa emergere la natura relazionale della guerra. Non è un caso, infatti, che molti autori che portano prove a favore dell’attività bellica il fatto che essa unisca i popoli (per quanto questa tesi possa sembrare implausibile), favorisca la circolazione delle idee e costituisca un momento di chiarimento sociale, sia culturale che politico. Al di là della plausibilità di queste tesi e del fatto che Moseley non ne abbraccerebbe una, rimane il fatto evidente che la condizione di guerra è evidentemente una condizione di una relazione tra gruppi sociali, comunque la si voglia vedere. Ma questo non emerge in alcun modo dalla prospettiva di Moseley.
4. La guerra non è inevitabile e argomenti a favore di un pluralismo metafisico, descrittivo ed esplicativo
Date le premesse individuali (premessa 1, 2 e 3) non è possibile considerare la guerra (stato di conflitto organizzato delimitato nel tempo) come inevitabile. L’argomento potrebbe essere il seguente: nel mondo possibile in cui siamo, in cui le idee causano il comportamento, in cui la volontà è libera e in cui la cultura ha una così grande influenza sull’attività sociale, la guerra non può essere considerata inevitabile, ovvero non è una necessità logica. Non essendo una necessità logica, rimane aperta la possibilità che la guerra sia una necessità nomologica, cioè una necessità imposta dalle leggi (fisiche o altro) del mondo possibile in cui ci trova.
La strategia filosofica adottata da Moseley è la seguente: esistono mondi possibili in cui la guerra è logicamente necessaria, questi mondi possibili non sono la totalità dei mondi possibili, il mondo possibile attuale, definito dalle leggi della fisica e dalle premesse 1, 2 e 3, include dei fatti contingenti, cioè non necessari. Data la natura del mondo, considerata la definizione di guerra e le premesse del discorso, si deve escludere che la guerra sia un fatto necessario, quindi è contingente: la guerra è evitabile a determinate condizioni. Soprattutto la seconda premessa, l’assunzione del libero arbitrio, determina ipso facto l’assunzione dell’esistenza di fatti intrinsecamente contingenti. Per cui la guerra, causata da fatti contingenti (le decisioni dei singoli individui) è anch’essa contingente, visto che i fatti che la rendono possibile sono appunto contingenti.
Se la possibilità logica della necessità della guerra è facile a sconfiggersi, rimane aperto il problema che la guerra sia una necessità in questo mondo possibile. A questo secondo problema Moseley porta una batteria di argomenti contro tutte le posizioni filosofiche che hanno variamente cercato di difendere l’idea che la guerra sia inevitabile (sia che essa sia un bene o un male): comportamentismo, darwinismo sociale, marxismo, hegelismo, realismo politico in varie formulazioni (realismo politico normativo o esplicativo). Il principale argomento di Moseley consiste nel mostrare come la spiegazione della guerra inevitabile fallisce di fronte alle premesse 1, 2, 3 e 6 e 7. Questa forma argomentativa risulta sostanzialmente fallace, laddove siamo chiaramente di fronte ad una petizione di principio: Moseley attacca le tesi avversarie assumendo le sue premesse, ma non dimostra direttamente in modo filosoficamente inattaccabile il fatto che la tesi avversaria sia falsa (salvo casi rari). In questo senso, la critica di Moseley risulta di bassa forza, anche se, naturalmente, non nulla.
Moseley difende, allora, la sua teoria secondo cui non esiste una sola spiegazione per la guerra, cioè per l’insieme dei conflitti organizzati limitati nel tempo. Non esistendo una spiegazione unica, non presentandosi una causa unica, risulta che la guerra è realizzabile in molti modi diversi e, per tanto, deve essere spiegata in modo diverso di volta in volta. Talvolta può essere in ragione della cultura, altre volte dell’interesse, ma essa non ammette una sola causa e quindi una sola spiegazione (intesa come categoria esplicativa).
Quanto qui detto non vuol dire che la guerra non abbia delle condizioni invarianti, ma solo che esse non sono mai sufficienti. Prima di tutto, deve esserci un insieme di idee condivise sulla liceità dell’atto militare all’interno dei singoli individui di un gruppo sociale (premessa 1, 3, 6 e 7), in secondo luogo la valenza causale delle idee deve prendere forma in atti espliciti da parte di una certa società (premessa 1): se la somma delle decisioni individuali determinate dalla libera volontà sulla base dell’insieme delle idee e della cultura sarà sufficiente ad indirizzare gli individui verso l’organizzazione di un conflitto, allora la guerra avrà inizio. Tuttavia, questa costruzione ideale di una possibile spiegazione generale dei conflitti è troppo generale per essere sufficientemente esplicativa relativamente ad un singolo caso, in cui ci aspettiamo che il peso delle singole premesse vari. Talvolta è più il peso della cultura che delle singole idee, altre volte l’interesse individuale di una classe di individui è determinante.
In conclusione, non essendoci una causa unica per la guerra, non essendo un evento necessario a livello logico e nomologico, non rimane che un pluralismo eziologico ed esplicativo sulla guerra.
5. Alternative alla guerra: cooperazione individuale e internazionale sulla base della ragione, delle idee e della cultura
La guerra ammette delle alternative, visto che a questo punto possiamo trarre la conclusione che la guerra non sia inevitabile. Il fatto che la guerra abbia alternative, non significa che talvolta non compaia sotto le giuste condizioni. Le condizioni usuali per la formazione di una guerra sono determinate dalla percezione che la guerra sia un fatto vantaggioso, onorevole, prestigioso. Si attribuisce prestigio a qualcosa o a qualcuno sulla base di una valutazione normativa definita da diverse condizioni (si veda Pili G., (2013), Autorità e prestigio: una analisi particolare e generale di un fenomeno sociale, www.scuolafilosofica.com). In questa sede, comunque, è lecito considerare il prestigio come un’attribuzione di valore ad un individuo a partire da regole sociali. Allo stesso modo, l’onore è una forma di riconoscimento del proprio valore e del proprio prestigio. In qualche modo l’onore è il prestigio visto dal punto di vista dell’individuo. Per tale ragione è evidente che tanto il prestigio che l’onore sono due condizioni culturalmente determinate e quindi definite da idee che potrebbero cambiare.
Dimostrare che le cose stiano così è agevole: il senso dell’onore da parte di un soggetto può cambiare nel tempo, così come la natura del suo prestigio. Dato il fatto che l’onore si valuta in funzione del prestigio, dato il fatto che la valutazione di un fatto scaturisce dall’adozione di una regola, dato il fatto che il prestigio si attribuisce agli altri, allora il prestigio è una valutazione sulla base di regole sociali. Le regole sociali possono variare, così anche l’attribuzione del prestigio e la percezione dell’onore.
Per scongiurare la guerra, dunque, bisogna partire dalle premesse individuali (1 e 3) che garantiscono da sole che il singolo individuo possa scegliere liberamente una via della pace (sempre possibile sulla base della seconda premessa individuale della libera volontà). Tuttavia, ciò deve essere replicato anche a livello sociale: la cultura deve sostenere la pace in modo che la società difenda una via pacifica di integrazione.
Moseley deve difendere che a livello globale (cioè non morale e possibilmente non politico) la pace è più vantaggiosa della guerra, in modo da mostrare come la pace sia più utile anche a livello egoistico e individuale. La sua posizione è quella del liberalismo classico, vale a dire l’idea che il commercio sostituito alla guerra aumenta e massimizza l’utilità complessiva. Il libero mercato tra le società aumenta la probabilità di formare nuovi beni e di diffonderli a condizione che si diano i giusti contraccambi, cosa che garantisce la reciproca integrazione sia produttiva che commerciale. Ma anche politica, visto che l’interdipendenza economica crea collegamenti tra le popolazioni anche distanti. Il libero commercio garantisce prosperità per tutti sul lungo periodo, perciò la guerra risulta sostanzialmente improduttiva: i beni di consumo vengono distrutti in guerra, mentre con il commercio vengono ridistribuiti secondo le possibilità e l’utilità dei singoli.
Moseley, si faccia caso, fa un grande sforzo per non invocare alcuna valutazione politica e morale anche della pace, dimostrando di avere una coerenza di fondo su tale punto, evidentemente importante. Tuttavia, la difesa della guerra come attività improduttiva fallisce di fronte a molti casi in cui la guerra risulta utile, almeno per alcuni (si pensi all’economia statunitense prima e dopo la seconda guerra mondiale). Inoltre, il fatto stesso che non invochi ragioni politiche (al di là di quelle morali) inficia indubbiamente una difesa della pace: il problema della guerra è chiaramente culturale ma è anche un problema politico.
Se l’atteggiamento di “naturalizzazione della guerra” è senza dubbio fondamentale, lungimirante e corretto, in sede di difesa delle alternative non si possono ignorare i costi politici e umani. Infatti, si può dimostrare sia attraverso l’introduzione di casi immaginari che di casi reali che la guerra non ostacola il commercio, ma lo avvia (le guerre dell’oppio, l’apertura dei porti giapponesi da parte dell’ammiraglio Perry, le guerre commerciali tra l’Inghilterra e l’Olanda). In altri casi, poi, la guerra risulta altamente remunerativa per la maggioranza della popolazione coinvolta. Inoltre, casi di guerre recenti mostrano come le aziende specializzate nella ricostruzione postbellica traggano grandi vantaggi dall’apertura di nuove zone di influenza e nuovi mercati prima preclusi (si veda Gagliano G., (2013), La nascita dell’intelligence economica francese, Aracne, Roma). In fine, la guerra economica contemporanea (basti leggere l’illuminante ed eccellente Gagliano G., (2014), Stato, potenza e guerra economica, CEMISS, http://www.cestudec.com/documento.asp?id=378) dimostra che le posizioni di Moseley sono troppo parziali per riuscire sicure (cioè non sconfiggibili da evidenza contraria) e decisive (cioè necessarie e sufficienti a garantirne la buona fondazione filosofica).
La strada di Moseley è quella di un attacco simultaneo alle fondamenta della guerra, perché una sola strada potrebbe non essere sufficiente in talune circostanze: bisogna educarsi ad accettare la pace, condizione riconosciuta come più vantaggiosa della guerra; è necessario avviare un processo di annichilimento dei principi militaristi nella cultura; è indispensabile riconoscere l’utilità del commercio e della cooperazione tra i popoli. Ma queste assunzioni, si badi, conducono ad una conclusione la cui validità è di natura politica.
7. Conclusioni
A philosophy of war di Alexander Moseley è un lavoro indubbiamente originale e di valore filosofico sotto diversi punti di vista, principalmente perché è forse la prima pubblicazione che sottolinea l’insoddisfazione per il trattamento filosofico tradizionale della guerra (sempre normativo) e della riflessione pura su di essa per privilegiare un atteggiamento nuovo, di naturalizzazione della filosofia della guerra: progetto di naturalizzazione qui inteso come rifiuto netto e motivato delle analisi della guerra su basi esclusivamente normative. In secondo luogo, essa prende sul serio l’idea che la filosofia deve avere un atteggiamento multidisciplinare, utilizzare argomenti da diverse aree di studio e ricerca. Già solo per il fatto che Moseley non usa lo slogan della multidisciplinarietà ma porta argomenti di storia, antropologia, biologia è già di per sé uno sforzo che in ogni caso va apprezzato nella sua piena dimensione.
Rimane il fatto che in molti casi l’analisi di Moseley risulta anch’essa vincolata da assunzioni non sempre ben difese e non sempre necessarie. Egli, poi, vuole fare a meno di sposare conclusioni di natura politica, anche se non si vede come riuscire a non considerare alcune di queste sotto altri punti di vista. Inoltre, il suo approccio non analitico non riesce a risolvere molti problemi che apre (basti considerare la definizione di guerra), lasciandoli troppo spesso al lettore. In ogni caso, dato lo stato dell’arte attuale sulla filosofia della guerra e le tesi difese, A philosophy of war è destinato a diventare un classico del settore, punto di paragone per le riflessioni future.
Bibliografia citata
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[1] Ivi., Cit., p. 14.
[2] Ivi., Cit., p. 5.
[3] Ivi., Cit., p. 15.
[4] Ivi., Cit., p. 15.
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