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Il vecchio e il mare è un romanzo breve di Ernest Heminway apparso per la prima volta nel 1952 e vincitore del premio Pulitzer. La trama è piuttosto semplice: un vecchio pescatore ormai perseguitato dalla sfortuna (non pescava un pesce da ottanta giorni) è assistito da un giovane allievo, il quale imparò a pescare dall’anziano. Al principio, il giovane non solo sfama e aiuta il vecchio, ma gli procura delle buone esche. Il vecchio rifiuta l’aiuto del giovane, il quale deve continuare la sua strada da solo: dotato di una sua peculiare fortuna, il giovane viene sconsigliato dalla famiglia di seguire ancora il vecchio, ormai improduttivo per il benessere economico del giovane e del suo nucleo familiare.
Il vecchio così parte in solitario in una barca a remi ma dotata di una vela. Egli sa che la fortuna va e viene. Infatti dopo poco tempo abbocca un pesce le cui dimensioni sono importanti. Inizia così una sfida in cui preda e predatore saranno legate indissolubilmente e il cui termine non potrà lasciare identiche entrambe le parti.
Il vecchio e il mare è un romanzo la cui catalogazione sfugge ad una semplificazione drastica. Innanzi tutto, non si tratta di un romanzo per ragazzi nella misura in cui è scritto come se fosse visto da un’anima giovane, ma senza che questa possa poterlo apprezzare fino in fondo. Infatti, ogni oggetto ha una sua sensazione, ogni cosa ha un suo peculiare corrispettivo emotivo, il modo di vedere le cose proprio del passaggio tra l’irrazionalità pura e istintiva dell’infanzia e la più calibrata ma pur sempre tumultuosa visione del mondo dell’adolescenza. E’ un libro probabilmente scritto per un pubblico che riesce a capire come il mondo doveva apparirgli quando ancora non aveva la percezione che il mare è solo acqua e il mondo è solo terra. E l’acqua è un insieme di molecole di H2O senza alcun significato.
D’altra parte, non si tratta neppure di un romanzo di avventura perché la trama non si dipana tra colpi di scena e interruzioni drastiche per passare da un’emozione all’altra. Al contrario, la storia del romanzo è sempre incentrata sulla lenza, per così dire, che è il legame che unisce il vecchio pescatore al giovane e vigoroso pesce. Non c’è alcun colpo di scena, mentre l’unica domanda perdurante è se il vecchio riuscirà o no ad avere il suo pesce o morirà per primo. Questo non è sufficiente, di per sé, a generare la presenza di un eroe che scandaglia il mondo dell’ignoto per ritornare nel mondo quotidiano accresciuto e arricchito, come in molti romanzi di avventura (si pensi a L’isola del tesoro di Robert Luis Stevenson).
Il vecchio e il mare è, piuttosto, un romanzo introspettivo in cui l’elemento della caccia viene trasfigurato in una relazione duplice tra preda e predatore in cui nessuno dei due elementi odia l’altro, quanto piuttosto sono solo i due poli opposti di un’unica realtà di giustizia, che è quella di saper accettare il proprio ruolo nel cosmo. Il pescatore parla continuamente al pesce, come se fosse una persona. E lo è, nella misura in cui una “persona” è un insieme di proprietà morali che afferiscono ad una sola entità. Il pesce spada è appunto la “preda” che ha dei diritti, dei doveri e un suo destino, colmo di dignità. L’unione tra preda e cacciatore è indissolubile, anche nel senso che il destino è inevitabilmente congiunto, nella misura in cui entrambi si trovano costretti a seguire la medesima strada. Così il pescatore cerca di abbattere i pescicani che tentano di sbranare il pesce spada, simbolo ultimo della difesa dello sconfitto.
In questo libro emerge pienamente l’amore di Hemingway per la caccia e, infatti, il romanzo può essere letto come una riflessione matura di un esperto cacciatore rispetto al mondo della natura di cui non può fare a meno di utilizzare, ma a cui tributa un valore sovrano nella misura in cui riconosce la sua dignità e unicità. E, in fin dei conti, il predatore dipende dalla presenza della preda sia della sua esistenza fisica che morale. Per un cacciatore vivere senza prede sarebbe piegarsi all’accettazione del fatto che la vita può viversi anche senza uno scopo. Ma questa forma larvale e inferiore di sopravvivenza è rifiutata virilmente dalla presenza di una preda che farà di tutto per non essere sconfitta e per avere in premio la sua stessa vita.
Il gioco tra preda e predatore è duplice sia in senso fisico che morale, ed è un gioco terribilmente serio perché mortale e vitale allo stesso tempo. La costruzione del senso interiore delle due parti dipende dalla reciproca qualità, dalla forza e potenza dello scontro. Per questo il pescatore non accetta neppure per un istante l’idea di perdere il suo pesce, di ritornare indietro dopo aver speso tanto tempo e tante energie. Ma non per ragioni di cibo (egli aveva da tempo rifiutato di mangiare per piacere), ma solo per ricongiungersi alla pratica virile di un ideale concreto che esclude la presenza di mezze misure. Il rapporto, dunque, è decisivo, stringente.
Il romanzo è scritto con uno stile realista, in cui i termini tecnici per parti della barca e della vita di bordo abbondano. Eppure si tratta di un realismo il cui scopo è quello di tratteggiare i simboli di una vita spesa nella caccia tra due specie alternative. Se l’uomo, intelligente ma debole, rappresenta il cacciatore, il pesce spada rappresenta la forza della natura, simbolo di quella potenza primordiale che l’essere umano ha dovuto imparare a rispettare e conoscere per poterlo vincere. Ma se la realtà umana ha finito per prevalere su quella naturale, se l’inclinazione degli esseri tecnocratici ha determinato la dissoluzione di una visione pacifica della natura, imponendo così la ricostruzione di un immaginario animale in cui tutti i viventi assumono sembianze umane (si pensi ai cartoni della Disney), il vecchio pescatore rappresenta l’uomo civile pre-tecnocrate in cui era ancora possibile un rapporto armonico, di equilibrio con il mondo che lo circonda. Egli non deflora, egli non deturpa. Egli è pronto ad ammazzare, ad uccidere, ma non a distruggere.
Così i pescicani rappresentano quel pericolo della dissoluzione del rapporto armonico tra preda e predatore, in cui gli esseri saprofagi si cibano della morte altrui, senza rispettarne l’intrinseco rapporto. Così come gli esseri umani più mediocri sono pronti ad accorrere di fronte alla fontana del guadagno facile, quale che sia il prezzo da far pagare agli altri, i pescicani accorrono a cose fatte, quando ormai il vecchio si era garantito la vittoria sulla sua preda. I pescicani cercano di rompere questo sacro equilibrio, perché di fatto instaurano un’asimmetria: essi non hanno lavorato, non hanno rischiato, non hanno rispettato la preda, ma si cibano delle sue carni. Così come coloro che saccheggiano le conoscenze degli altri senza dare niente in cambio, come coloro che sono capaci di umiliarsi e umiliare pur di ottenere subito quel che avrebbero ottenuto comunque, come i vigliacchi che accusano fraudolentemente gli amici per agguantare il piccolo vantaggio del momento, così i pescicani fanno scempio della preda dell’anziano pescatore.
Sebbene si tratti di un libro estremamente denso, scritto con acutezza e con indiscutibile trasporto, rimane tutto sommato troppo lineare per assurgere a paradigma di grandezza assoluta. Ad esempio, I ragazzi della via Paal, L’isola del tesoro o Lo strano caso del Dottor Jeckill e Mister Hyde, sono esempi di romanzi in cui l’elemento naturale si scontra con quello civile, in cui si mostrano le luci e le ombre di un universo umano in conflitto con se stesso, in cui i simboli caratterizzano il delinearsi della trama, nonostante si celino dietro strutture narrative di avventura o di mistero. Sembra mancare l’ambiguità, la presenza della complessità di una lotta che non sia semplicemente il risultato di un’accettazione di un destino ineluttabile, ma lo scontro tra due possibilità morali che sembrano entrambe giuste ma reciprocamente inaccettabili. Il vecchio non avrebbe potuto esser pescecane, ma preda si e così il pescespada avrebbe potuto essere il cacciatore, ma non distruttore, non pescecane.
Ma considerando il fatto che in così poche pagine così dense si senta una presenza di una saggezza ormai perduta e sostituita con le ciminiere e il calcestruzzo indiscriminato, Il vecchio e il mare riesce a restituire all’adulto quel senso del mondo che ormai non è più all’orizzonte delle cose umane. E così, proprio con simili romanzi, riusciamo ancora a ricordarci come in fondo vivere e morire all’interno di un ciclo naturale poteva dischiudere un senso che gli aerei, le bombe atomiche e quella che noi chiamiamo “civiltà”, non sono in grado di restituire, trasmettere, riconoscere. Se la natura è nata ingiusta, almeno essa è potuta rimanere incorrotta. Così come lo è il vecchio, così come lo è il pescespada. Così come lo è la morte all’interno del ciclo di vita di tutti gli esseri che non hanno rubato il fuoco per imporre un sistema di vita il cui senso è precluso allo sguardo di tutti e che va avanti per inerzia fino alle soglie dell’autodistruzione. E oltre.
Ernest Hemingway
Il vecchio e il mare
Mondadori
Euro: 9,00
Pagine: 165.
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