Abstract
L’analisi de L’arte della guerra del tattico romano Publio Flavio Vegezio Renato risulta ancora oggi di grande attualità. Assumendo un punto di vista metastorico, abbiamo cercato di rintracciare i fondamenti ultimi dell’analisi di Vegezio in modo da comprendere la logica fondamentale da cui poter trarre utile conoscenza ad uso e consumo del lettore contemporaneo.
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L’arte della guerra (De rei militaris o Epitoma de rei militaris) è un classico degli studi del warfare, in particolare degli studi descrittivi e non propriamente strategici, cioè normativi. Publio Flavio Vegezio Renato (da ora solo Vegezio, come è universalmente noto) non è sostanzialmente interessato ad elementi generali e strategici della guerra e dell’arte militare, quelli che oggi diremmo i maggiormente connessi con la politica di uno stato (o di un impero) o che riguardano la natura della pianificazione strategica della campagna militare. Piuttosto egli è uno storico e un tattico dell’epoca classica romana. Sia detto subito che L’arte della guerra di Vegezio non è un testo scritto nel periodo repubblicano ma durante la fase epigonica dell’impero (IV secolo d.C.). L’influsso del periodo classico romano (inteso nel periodo a cavallo tra il periodo monarchico e quello repubblicano fino ad Augusto incluso in questo concetto ampio di classicità latina) si estende per tutte le pagine dell’opera di Vegezio, il quale, infatti, lungi dal considerare terminato il mandato imperiale come centro di gravitazione della civiltà, cerca di trovare i motivi per cui gli antichi eserciti romani avevano reso l’urbe il centro del mondo conosciuto (dai romani).
In questa sede, comunque, non ci concentreremo sugli elementi storici dell’opera di Vegezio di cui, senz’altro, c’è una letteratura specifica di maggiore autorevolezza. Cercheremo, invece, di enucleare i punti chiave della visione di Vegezio per riportare alla luce la sua riflessione all’interno del warfare e della strategia. Questo perché, ci pare, la visione di Vegezio, oltre ad essere giustamente considerata classica, rimane un punto di riferimento ancora oggi interessante ed autorevole. Quando sarà necessario tracceremo anche qualche considerazione di natura storica per comprendere i motivi per cui Vegezio si sente di difendere una certa posizione. In fine, la nostra edizione di riferimento è una traduzione inglese di John Clarke dei primi tre libri dell’opera (in totale composta di quattro libri). Non avendo potuto rifarmi ad una traduzione in lingua italiana, dato il fatto assurdo che il lavoro di Vegezio non è stato recentemente ripubblicato da qualche casa editrice (fatto sconcio a cui l’editoria italiana ci ha globalmente abituato), le citazioni dall’opera di Vegezio saranno in italiano su traduzione mia a partire dal testo inglese: quindi da prendere con le pinze per via del doppio passaggio linguistico.
Prima di considerare gli elementi fondamentali del warfare alla luce dell’interpretazione del tattico romano, non sarà fuori luogo concentrarsi sulla modalità di scrittura dell’autore, per meglio inquadrarne la finalità. Egli scrive il De rei militaris per fornire delle idee consolidate e applicabili alla coeva pratica militare ad uso e consumo dell’imperatore. Tuttavia, Vegezio si concentra soprattutto ad una analisi storico-descrittiva delle legioni, lasciando che l’analisi normativa sia tratta direttamente dal lettore. E’ vero che all’interno dell’opera è presente un elenco di massime pratiche, ma risultano meno importanti rispetto all’analisi descrittiva generale. L’idea è, dunque, quella classica riguardo all’implicito valore didattico della storia e della Storia (la storia con la “s” minuscola sarà usata per intendere gli avvenimenti storici. Mentre la Storia con la maiuscola sarà usata per intendere la storiografia): un fatto storico e la sua ricostruzione storiografica sono entrambe fonti di informazioni indispensabili per l’acquisizione della giusta dottrina (vincolante da un punto di vista normativo). Questo amore sovrano per la storia e la Storia non solo è motivante per lo storico a conservare e conoscere i fatti del passato, ma anche per il lettore stesso, specialmente quello interessato a tradurre in pratica le conoscenze disponibili sulla disciplina.
In questo senso, Vegezio si colloca, come tutti gli storici romani, all’interno della tradizione che vuole l’esempio storico come caso supremo degno di biasimo o emulazione (si pensi alla celebrità e influenza dello stile delle Vite parallele di Plutarco). Per tale ragione, descrivere la compagine militare romana dell’età classica non è soltanto un modo per conservare una memoria storica importante a livello identitario, ma ha una valenza propriamente didattica, quasi prescrittiva: “Noi non possiamo ora aspettarci di trovare un uomo che insegni ciò che nessuno ha mai imparato da sé. L’unico metodo, quindi, che rimane di ricuperare gli antichi costumi è attraverso i libri, e dalla consultazione dei vecchi storici”.[1] In fine, Vegezio è sicuramente da inscriversi nella dominante tradizione storiografica e intellettuale romana la quale privilegiava il costume della Roma del periodo classico, il cui insieme di valori si è consolidato all’interno di quel mos maiorum che era l’ideale, l’optimum razionale sociale e d’azione per gran parte degli intellettuali romani.
Tuttavia, in quanto ʽarteʼ della guerra, Vegezio comunque prende le distanze da una concezione puramente teorica del warfare, in cui ci si può limitare esclusivamente alla conoscenza dei fatti del passato. La storia e la Storia possono essere due direttrici di apprendimento importanti, ma non sono esclusive e condizioni sufficienti (qualora al massimo necessarie) per la definizione della virtù militare praticamente instanziata dalla prassi del soldato o del generale. Per tale ragione Vegezio divide in quattro categorie i membri di un esercito: i soldati, gli ufficiali, i logisti e gli informatori. Anche se questo risultato lo stiamo traendo noi alla luce della lettura del suo testo, l’impostazione è ascrivibile al tattico: quello che qui si vuole distinguere non sono i ruoli delle singole masse combattenti, quanto la tipologia generale degli uomini coinvolti, cioè gli elementi ultimi dei ruoli presenti all’interno di un esercito massimamente efficiente.
L’analisi di Vegezio analisi è condotta alla luce di tre assunti principali per definire un buon esercito:
(EB) Un esercito è buono solo se
(a) è organizzato in modo razionale,
(b) ogni unità è efficiente rispetto al suo ruolo,
(c) è in grado di disporre di mezzi sufficienti per agire.
I punti (a) e (b) sono mal formulati perché prevedono già una valutazione di qualità, cosa che rende relativamente circolare la definizione degli intenti programmatici di Vegezio. Tuttavia, almeno in prima istanza, sono molto chiari per chiunque non sia un filosofo che necessiti di maggior rigore. Ad ogni modo, non è inutile, dunque, eliminare i termini problematici (“razionale” ed “efficiente”) per ottenere una maggiore chiarezza riguardo al nostro argomento:
(EB)* Un esercito è buono solo se
(a) è organizzato secondo norme strutturali adeguate,
(b) ogni unità dispone di virtù adeguate per il suo specifico ruolo,
(c) è in grado di disporre di mezzi sufficienti per agire.
Ora la definizione (EB)* sembra più accettabile e più rigorosa e chiarisce che (1) un esercito è bene organizzato qualora rispetti alcune regole di gestione della massa combattente (ad esempio, Vegezio ci dice che un esercito non può essere troppo numeroso perché pone dei problemi negli spostamenti e nella concentrazione della massa combattente); (2) un esercito non può essere buono se le sue unità non dispongono di alcune virtù essenziali (di cui si avrà a parlare estesamente più oltre) e (3) è indispensabile disporre di mezzi, sia come complesso di materiali bellici propriamente intesi, ma anche relativamente agli strumenti logistici per fabbricare fortini, insediamenti, ponti o navigli e, infine, alle informazioni indispensabili per minimizzare il rischio all’interno dei terreni in cui si possono avere potenziali combattimenti.
Sebbene Vegezio sia un pensatore abbastanza sistematico, egli segue una logica di natura pratica e non concettuale, che è quanto stiamo tentando di ricostruire. Questo si evince dalla stessa struttura dell’opera:
Il primo libro tratta della scelta e degli esercizi delle nuove leve; il secondo spiega l’organizzazione di una legione e il metodo della disciplina; e il terzo contiene le disposizioni per l’azione. Da questa progressione metodica, le seguenti istruzioni sulle azioni generali e sui mezzi di vittoria saranno meglio compresi e di maggiore utilità. Per armata sarà inteso un numero di truppe, legioni e ausiliari, cavalleria e fanteria, riuniti per fare la guerra. Questo numero è limitato dal giudizio del professionista.[2]
Considerando i punti (a-c), Vegezio inizia dal trattare il punto (b) nel primo libro, in quanto l’insieme dei soldati (i singoli individui) sono coloro che costituiscono i singoli elementi dell’esercito. Per tanto, per avere una massa combattente efficiente è indispensabile che lo siano i singoli individui, cioè i singoli soldati. Da uomo dell’antichità, Vegezio predilige una visione dell’ethos incentrata sulle virtù, cioè su tratti psicologici assunti stabilmente dall’individuo a tal punto da costituirne il carattere. In altre parole, dato un certo individuo S quale che sia il tempo, S possiede un insieme di proprietà costitutive P tali che P siano proprietà psicologiche e determinano l’azione a di S ad ogni tempo t. Se le proprietà costitutive P di S sono per lo più vantaggiose al fine del warfare, allora S sarà definito virtuoso, viceversa non lo sarà. Una virtù, dunque, non è altro che una proprietà di un individuo a partire dalla quale egli agirà in modo più o meno virtuoso. In questo caso, trattandosi di virtù militari, si considerano le virtù adatte alla conduzione della pratica del soldato all’interno del warfare. Due sono le conclusioni importanti dell’analisi di Vegezio: (1) le virtù militari possono essere acquisite mediante l’addestramento e (2) solo a partire dalle capacità dei singoli individui è possibile ottenere un esercito efficiente.
Vegezio ritorna più volte sul punto (1) perché difende un’idea a suo modo audace: gli uomini possono nascere più o meno con delle predisposizioni verso l’arte della guerra, ma tutti sono in grado di diventare dei virtuosi (nel senso visto) mediante un sistema di apprendimento. In questo senso, il primo obiettivo di colui che predispone un esercito è impostare un efficace sistema didattico a scopi propriamente pratici: fare acquisire le virtù militari ai singoli individui che, di per sé, possono avere o non avere una certa predisposizione innata. Se ce l’hanno, sarà indispensabile rafforzargliela. Se non ce l’hanno, sarà indispensabile indurgliela. Quindi, in tutti i sensi è indispensabile l’addestramento militare che deve essere impostato in modo da garantire l’acquisizione delle qualità indispensabili al soldato per essere efficiente.
L’addestramento militare deve essere pianificato in modo da riuscire utile al corpo e alla mente del soldato, in quanto senza addestramento fisico egli avrà difficoltà a combattere e a trasportare l’equipaggiamento militare, mentre senza un contegno dello spirito cederà sul piano psicologico. Perciò Vegezio insiste su tre punti: (I) l’addestramento deve prevedere il continuo allenamento agli sforzi prolungati; (II) osservanza rigida della disciplina durante il periodo di addestramento e (III) indefesso interessamento verso tutte le attività previste all’interno di una campagna militare. Per il tattico romano l’addestramento e la disciplina sono le due vie per la virtù militare almeno per quanto riguarda la costituzione dei soldati che comporranno la legione:
La vittoria in guerra non dipende interamente dai numeri o dal puro coraggio, solo le capacità e la disciplina la renderanno certa. Noi vediamo che i romani dovettero la conquista del mondo a nessun’altra causa che il continuo addestramento militare, all’esatta osservanza della disciplina nei suoi campi e all’instancabile coltivazione di altre arti della guerra. Senza queste che possibilità potevano mai avere i numeri delle armate romane contro le moltitudini dei galli? O con quale successo avrebbero potuto ottenere la loro piccola statura rispetto a quella prodigiosa dei Germani? Gli ispanici ci sovrastavano non solo nel numero ma anche nella forza fisica. Noi siamo stati sempre inferiori agli africani in salute e nell’arte dell’inganno e degli stratagemmi. E i greci, indubbiamente, erano di gran lunga superiori a noi nelle arti e in ogni genere di conoscenza. Ma nonostante tutti questi svantaggi i romani opposero un’inusuale cura nella scelta delle loro leve e nel loro addestramento militare. Loro avevano compreso l’importanza del rendersi più idonei dalla continua pratica e dall’addestramento ad ogni manovra potesse avvenire nell’idea e nell’azione.[3]
Sempre tenendo a mente l’importanza del periodo classico della storia romana, Vegezio arriva a suggerire che i migliori soldati sono i militi che in pace sono contadini: sono più abituati alle fatiche, alle difficoltà di una vita difficile e priva di agi. E, aggiungiamo, sono anche persone ben motivate a non morire perché hanno molto da perdere e, anche se non era oggetto di studi (piuttosto recenti), era già chiaro anche allora che l’uomo stima per sé molto più importante non perdere quel poco che ha, piuttosto che rischiare di ottenere qualcosa in più: il rischio è verso la difesa di ciò che si possiede, piuttosto che l’amore del rischio per ciò che ancora non è nostro. Questo, secondo gli studi di neuroeconomia, vale in un rapporto di 2/1, sicché i contadini hanno già diverse virtù utili da un punto di vista militare.
Le virtù, dunque, considerate da Vegezio sono di tre categorie differenti: (a) fisiche, (b) virili e (c) sociali. Un soldato con un fisico fiacco sarà anche incapace di combattere e resistere psicologicamente alle avversità della guerra. Ogni virtù militare considerata riflette una visione sostanzialmente al maschile dell’esercito: si tratta, infatti, di qualità proprie del maschio addestrato ad esercitare la forza controllata. Vegezio dà per scontato che l’addestramento e l’attività militare sono rivolte ai soli uomini maschi. In fine, il soldato è anche suscettibile al senso dell’onore e della fedeltà. Vegezio, infatti, insiste abbastanza sull’importanza della fedeltà e dei problemi connessi al lassismo tra le fila dell’esercito, che comportano sedizioni, uno dei principali ostacoli al buon funzionamento dell’esercito (vedremo che questo è a tal punto importante da determinare una ridondanza nella struttura stessa dell’esercito). In particolare, tutto il corpo della legione deve essere animato da un solo spirito unitario convergente verso un unico fine (quel che Sun Tzu avrebbe definito il Tao).
Prima di passare al punto (a) della definizione EB* (un esercito è buono solo se è organizzato secondo norme strutturali adeguate), chiudiamo ricordando che Vegezio è un pensatore eminentemente pratico, il quale cerca soluzioni per problemi coevi. Durante la fine del IV d.C. l’impero romano d’occidente è ormai indirizzato verso la sua parabola definitivamente discendente. A differenza dell’impero romano d’oriente, che sopravvivrà alle ripetute invasioni, immigrazioni e confusioni, l’impero romano nel suo complesso non ritornerà alla sua unità e il fallimento giustinianeo del VI secolo d.C. va situato, comunque, in questa linea di continuità nel tentativo di salvare e riproporre l’impero unitario. Per far crollare un impero non basta scompaginarne una parte, per quanto grande, ma deve entrare in crisi sotto molteplici aspetti, tutti concomitanti e solo complessivamente in grado di spiegare la cesura definitiva di un ordine costituito. Tuttavia, per i contemporanei, che, come diceva Huizinga, vedono solo i risultati della storia come un infinito susseguirsi di errori e di malgoverno (cosa che oggi dovremmo tutti ricordarci); per i contemporanei di Vegezio non v’era altro che uno stato di confusione e di disorganizzazione nell’esercito (la principale arma di controllo e difesa dei confini dell’impero). Se queste erano le premesse per concepire il problema, Vegezio rintraccia la soluzione negli scritti dei classici che, come abbiamo visto sopra, sono in grado di fornire quelle risposte che un uomo nell’arco di una vita non avrebbe tempo di trovare o non potrebbe necessariamente trovarle. Non è un caso, dunque, che Vegezio ritrovi in un passato sostanzialmente appiattito (l’organizzazione dell’esercito imperiale affiancata al modello del milites dell’era repubblicana con i suoi conseguenti valori) e unitario il nucleo tematico di risposte, poi diventate sistematiche nella sua analisi, grazie alle quali trovare una soluzione ai problemi del presente. Alla fine dei conti, quasi tutte le riflessioni sull’arte della guerra (specie quelle classiche) nascono sostanzialmente dall’esigenza di trovare una risposta pratica a dei problemi urgenti imposte dalla ragion di stato (variamente considerata in base alla prospettiva degli autori).
Nel libro secondo Vegezio tratta dell’organizzazione della legione, sia nel senso di come bisogna comporre l’insieme dei quadri dell’esercito, sia di come bisogna gestirne l’organizzazione sistematica. Da un lato, dunque, Vegezio considera i problemi legati alle regole di composizione dell’esercito virtuoso (quindi, virtù che ora diventano qualità delle strutture e non di singoli individui) ed anche i sistemi che fattivamente rendono possibile tale unità delle parti. Da un lato, dunque, l’esercito va tripartito nelle tre tipologie classiche: fanteria, cavalleria e marina. La fanteria è la massa combattente più versatile e più importante, laddove essa è quella che può svolgere un numero più elevato di funzioni. Nell’esercito romano, almeno così come lo presenta Vegezio, ogni milite ha una molteplicità di ruoli che variano in base alla necessità del contesto della campagna militare: egli è scavatore, costruttore, montatore, combattente, guardia e eventuale scout. Mentre la cavalleria ha soprattutto il ruolo di spingersi in avanti o scompaginare le fila dell’esercito nemico o gettarsi all’inseguimento dell’esercito in rotta, è la fanteria che costituisce il nerbo dell’esercito romano.
Per mantenere l’unità dell’esercito è indispensabile vigilare continuamente sul rispetto della legalità e della disciplina nel suo complesso. Per questo ci devono essere in ogni esercito dei tutori dell’ordine che controllino che la vita della truppa avvenga nel pieno rispetto delle regole e della disciplina. Insieme alla disciplina è indispensabile curare l’igiene pubblica e privata, cioè sia i singoli individui che la gestione del campo. Per un popolo che è stato così attento alla cura del corpo, questo punto non sorprenderà più di tanto, se non per il fatto che Vegezio ci ritorna a più riprese e ne fa uno degli obiettivi stessi del comando. All’interno della categoria igienica, per così dire, rientra anche la gestione delle derrate alimentari. Il tattico romano insiste molto sull’importanza della salute, che può essere garantita dal controllo dell’igiene e della dieta dei soldati. E’ considerata una virtù del generale quella di saper controllare e tenere a buoni livelli la sanità generale dell’esercito.
Gli ufficiali dell’esercito erano i primi a dover garantire particolari virtù militari all’interno del loro curriculum individuale. In particolare, Vegezio sottolinea l’importanza dell’intelligenza e della disciplina nei quadri ufficiali. Infatti, saper prevenire la disorganizzazione piuttosto che avere una buona capacità di reazione alle crisi è possibile grazie alla presenza di buoni ufficiali. Questi svolgevano diversi compiti importanti, oltre a quelli strettamente militari, tra cui il controllo e il mantenimento dell’ordine. E, d’altra parte, sempre considerando il valore dell’esempio all’interno della cultura romana, gli ufficiali dovevano essere i primi a mostrare in modo inoppugnabile quell’insieme di virtù virili, militari e sociali indispensabili per il buon mantenimento dell’esercito. Vegezio, infatti, mostra come la scalata verso i vertici dell’apparato militare erano dovuti principalmente alle qualità riscontrate sul campo: l’iter di ascesa verso l’apice era determinato da un insieme di passaggi (da una coorte ad un’altra, da un grado all’altro) in base a risultati ottenuti in combattimento. Questo dimostra che, almeno nell’ideale di una riflessione astratta, la meritocrazia era considerata un valore del sistema militare romano. In parte ciò può anche spiegare perché i generali fossero anche così importanti a livello politico: erano parte della storia di una legione, araldi di un insieme di virtù che assurgevano a modello stesso dell’ethos romano e, in fine, potenziale referente per maggiorazione di salari e scalate sociali all’interno della legione.
Le proprietà fondamentali dell’esercito romano così individuabili dal discorso di Vegezio: (1) una buona organizzazione complessiva (dal controllo dei conti fino alla capacità di discernimento dei terreni da parte del generale), (2) gestione dell’ordine e della legalità, (3) efficiente organizzazione logistica (deve essere possibile oltrepassare fiumi, mari, ostacoli naturali, edificare palizzate, muri, scavare trincee. Vegezio si dilunga in molti di questi dettagli importanti per la logistica), (4) capacità di riparazione e di intervento su specifici dissesti (ma in generale efficiente capacità di reazione alle crisi di vario genere), (5) attento e oculato controllo della sanità generale, (6) integrazione della truppa all’interno del quadro ufficiale in base ai meriti.
Il terzo libro, l’ultimo che considereremo, è quello che tratta la disposizione per l’azione. Più specificamente, se nel primo e nel secondo libro si considera l’insieme degli elementi statici (virtù individuali e virtù strutturali dell’esercito), nel terzo si considera la dinamica delle legioni. Per questo Vegezio considera prima di tutto i rischi connessi all’esposizione di un esercito alle minacce potenziali insite in ogni campagna militare: lentezza e difficoltà negli spostamenti, dislocazione e gestione dei rifornimenti, rischio di dispersione e mancanza di concentrazione della massa combattente, rischio di perdita totale della guerra in caso di disfatta. Questi elementi di rischio sono sostanzialmente ineliminabili perché dipendono semplicemente dal solo spostamento dell’esercito in territorio ostile. Tuttavia, se l’evento può realizzarsi ed è implausibile renderlo logicamente impossibile, si può fare in modo di diminuirne sensibilmente la probabilità della sua occorrenza. Vegezio, da uomo dell’antichità, per quanto tattico, assume implicitamente il principio ben noto a tutto il mondo classico secondo cui la materia non si piegherà mai alle pure leggi della forma (come ben avrebbe detto Aristotele). Specialmente nel warfare. Sicché è indispensabile attuare determinati principi strategici generali da cui, poi, Vegezio trarrà delle massime tra cui il fin troppo celebre si vis pace para bellum.
Innanzi tutto, bisogna avere cura di prendere le dovute precauzioni durante lo spostamento in forze, cautelandosi mediante lo studio di quattro elementi: (1) conoscenza del territorio, (2) natura delle strade, (3) orografia del terreno e (4) presenza di guide. La conoscenza del territorio consente di diminuire la probabilità di imboscate o di schierare l’esercito a battaglia in punti svantaggiosi. Sapere la sistemazione generale delle vie di comunicazione consente di poter sapere in anticipo come e se è possibile impiegare le proprie truppe o, nel caso, ritirarle dal terreno di battaglia. La conoscenza dell’orografia del terreno è importante sia in chiave propriamente offensiva che difensiva e può essere ottenuta mediante l’invio di guide del luogo o predisposte.
In base a quanto abbiamo detto e compreso dell’opera di Vegezio, possiamo fare il punto della struttura dell’esercito da lui proposta mediante il disegno di un grafo in cui si mettono in evidenza più che la struttura d’ordine gerarchica (in realtà sovrapposta al sistema di comunicazione delle informazioni nelle modalità di trasmissione degli ordini e delle stesse informazioni), la relazione organizzativa globale della legione romana. Il grafo strutturale dell’esercito, organizzato per manovrare in campagna durante gli spostamenti potrebbe essere il seguente:
Dal grafo emerge chiaramente che la massa combattente e le unità ausiliarie (intese nel senso dell’insieme del personale addetto alle attività di vettovagliamento e trasporto dei materiali etc.) sono le due unità con i compiti più variegati. Per massimizzare il controllo della disciplina ci sono due unità complessive che hanno il medesimo compito, anche se in gradi e modalità diverse (il centro di comando e gli ufficiali).
Il centro di comando, poi, è quello in cui confluiscono le informazioni sul territorio che dall’esercito, sicché vi è un doppio circuito di diffusione dell’informazione all’interno della compagine militare: interna ed esterna. L’informazione interna, che confluisce al comando, è l’insieme delle informazioni utili per comprendere lo stato di organizzazione interna della massa combattente. Per questo Vegezio ribadisce l’importanza della cura dei singoli (addestramento, igiene, morale), in modo che l’amministrazione interna possa concentrarsi sul calcolo delle risorse e sul mantenimento dell’optimum organizzativo.
Per quanto riguarda, invece, le informazioni esterne esse provengono principalmente dagli scout e dalla capacità del comando di riconoscere immediatamente le tipologie di terreno utili. In questo senso, si vede come il centro di comando sia il punto nevralgico dell’esercito romano in cui tutti i nodi della rete convergono. Tuttavia, vediamo come, almeno a quanto sembra emergere dall’analisi di Vegezio, la truppa non comunica immediatamente con il centro di comando, ma trasmette le informazioni dal nodo intermedio della rete che sono gli ufficiali. Questo filtro ha ragion d’essere sia per questioni di gestione dell’autorità (imposizione del prestigio indispensabile per mantenere una buona disciplina attuato classicamente mediante la separazione fisica ed estetica degli uomini) ma anche per non determinare un sovraccarico inutile del carico complessivo delle informazioni ad uso e consumo del comando. I moderni calcolatori si fondano su l’architettura di Von Neumann, che sancisce che il numero di in put alla macchina debbano passare per un “collo di bottiglia”, in modo da non mandare in sovraccarico il computer. Negli eserciti il rischio del sovraccarico è un problema serio, sicché si impongono simili precauzioni.
Gli ufficiali, dunque, sono il punto intermedio tra il comando e le singole unità militari. Vegezio, infatti, insiste a lungo sul fatto che i principali compiti degli ufficiali siano quelli di gestire la disciplina della truppa. Mentre il centro di comando accumula l’interezza delle informazioni endogene ed esogene alla compagine complessiva, del territorio e di altri elementi essenziali (ad esempio, il clima, le quantità delle vettovaglie, la sicurezza dei fianchi e delle retrovie – che Vegezio consiglia di difendere con la cavalleria), gli ufficiali hanno il compito di mantenere alto il livello di controllo sulla truppa (il nodo adibito a quasi ogni compito propriamente operativo). La disciplina è tanto importante da necessitare un doppio circuito che svolge un compito due volte.
C’è una certa presenza di ridondanza, se si fa caso, per ogni compito o mansione ritenuta particolarmente soggetta a rischi: i soldati possono sempre ammutinarsi, mentre la difesa dell’accampamento è un compito collettivo perché di vitale importanza per la sopravvivenza stessa dell’esercito in campagna. Compiti relativamente più sicuri sono propri solo di specifici nodi della rete.
Ancora una volta vale la pena di osservare quale sia il peso dell’efficienza del centro di comando, il quale è anche il nodo preposto alla conoscenza dei rischi e, quindi, del calcolo efficace dei mezzi per diminuire la probabilità degli spostamenti dell’esercito, spostamenti che sono il momento di massimo rischio per la sopravvivenza dell’esercito sia in senso fisico che strutturale: se la difesa effettiva degli esseri umani può essere aumentata mediante l’uso di strumentazione più o meno sofisticata, la conservazione della comunicazione informativa è più labile e meno rigidamente difendibile mediante l’uso della tecnologica di cui, per altro, i romani non ne avevano di illimitata. Come avrebbe successivamente osservato Clausewitz, infatti, il centro di comando è sottoposto ad una moltitudine di informazioni tale che, spesso, è impossibile discernere quelle salienti da quelle meno importanti. Per questo tutti i pensatori del warfare sottolineano l’importanza che i capi militari siano in grado di capire “a colpo d’occhio” la natura dei terreni e dei rischi connessi ad un certo teatro di guerra, come pure devono essere abili a riconoscere la qualità delle informazioni pervenute. Per minimizzare il rischio di errore Vegezio consigliava l’invio di guide con alta competenza relativa al territorio che intendevano controllare.
In realtà, a questa semplice precauzione più o meno canonica si può aggiungere anche il consiglio, sempre di Vegezio e generale attitudine romana, di conoscere l’avversario contro cui si deve combattere. Vegezio stesso, in più di una circostanza, riporta fatti e informazioni importanti sui principali nemici di Roma. I comandanti in capo devono essere possibilmente bene informati sugli usi e costumi dei vicini, degli alleati e dei nemici. Questo era possibile grazie all’interesse romano per la conoscenza dei popoli vicini di cui La Germania di Tacito è un caso paradigmatico. Sicché si deve supporre che il comando sia già ben consapevole delle nozioni indispensabili per comprendere e prevedere il nemico coinvolto all’interno del teatro di guerra.
L’aumento del rischio della sopravvivenza dell’esercito durante le marce in territorio ostile è determinato dal raddoppiamento delle minacce. Dilatandosi in marcia l’esercito può essere colpito in due modi: possono essere fatti oggetto di imboscata o possono interrompersi i canali di comunicazione per qualsiasi motivo. Quando l’esercito è concentrato la probabilità che la comunicazione cessi da un nodo all’altro della rete è minima proprio perché anche un solo ufficiale può impartire gli ordini per organizzare le singole unità, mentre in marcia ogni unità deve ricevere gli ordini dal suo proprio ufficiale, pena la perdita di efficacia e di rapidità di trasmissione dell’ordine. Per questa ragione, un esercito raccolto mantiene un alto grado di capacità di difesa perché diminuisce drasticamente il rischio connesso alla perdita delle comunicazioni interne tra i nodi della rete.
Durante una campagna, invece, in cui le legioni si spingono in avanti si incorre in una moltitudine di rischi che vanno tutti calcolati: (1) le unità combattenti possono essere singolarmente attaccate, (2) le comunicazioni tra il comando e gli altri nodi della rete possono essere bloccate, (3) la possibilità di spostamento può essere forzata in passaggi altamente esposti e che negano la possibilità di ritirata, (4) possono essere colpite le retrovie in cui sono presenti le vettovaglie e gli ausiliari, cioè la compagine militare più ad alto rischio e senza la cui presenza un esercito non può avanzare con sicurezza e molto addentro nel territorio nemico. Come si vede ad occhio nudo, i punti (2) e (3) sono sostanzialmente eliminati nel momento di concentrazione della forza e il (4) può essere gestito mediante l’erezione di fortificazioni: ancora per ribadire la natura causale dell’aumento del rischio delle marce e di come, appunto, la probabilità che possa accadere qualche evento imprevisto raddoppi di numero durante il momento di dilatazione della massa combattente.
Per tali ragioni Vegezio consiglia la massima prudenza negli spostamenti e nella pianificazione dell’invasione in forze del territorio nemico, consiglia di prendersi cura della struttura e amministrazione interna delle forze in modo da minimizzare il rischio di problemi strutturali interni: gli ufficiali e la truppa sono i due nodi più esposti a creare simili problemi. Basta, infatti, che gli ufficiali si rifiutino di eseguire gli ordini che tutto l’esercito risulterà paralizzato: gli ordini non arriveranno alla truppa e i compiti di minima sorveglianza saranno in pericolo. In fine, la conoscenza del territorio deve essere anticipata mediante l’utilizzo di guide specifiche capaci di reperire le informazioni necessarie per minimizzare il rischio di entrare in territori di morte, per dirla alla Sun Tzu.
Per concludere questa analisi, quanto abbiamo tratto dall’opera di Vegezio è ad uso e consumo di una comprensione più generale del warfare, più di quanto sia, forse, utile per entrare nel merito del tattico romano. Questo perché, lo ribadiamo a scanso di equivoci, questo non è uno studio storico ma una disamina generale su uno dei pensatori classici del warfare, la cui conoscenza ci sembra ancora utile per l’attualità e per comprendere i meccanismi che stanno alla base di ogni organizzazione militare, a prescindere dal suo grado di complessità. L’analisi di Vegezio, infine, è condotta mediante criteri ancora classicheggianti, incentrati sul riconoscimento della virtù e dell’importanza della conoscenza rispetto all’ignoranza. Per quanto la sua riflessione sia, dunque, il risultato di un’esigenza propriamente prammatica e contestuale, risulta evidente il grado di interesse verso una delle opere classiche del warfare.
Bibliografia essenziale
Clausewitz C., (1837), Della guerra, Einaudi, Torino.
Cesare Caio Giulio, La guerra gallica, Rizzoli, Milano, 1997.
Plutarco, Vite parallele, UTET, Torino, 2005.
Mazzarino S., L’impero romano, Mondadori, Milano, 2010.
Sun-Tzu, L’arte della guerra, Rizzoli, Milano, 2004.
Tacito, Germania, Rizzoli, Milano.
Vegezio P.F., L’arte della guerra, Rizzoli, Milano.
Von Neumann J., Morgenstern O., (1947), Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, Princeton.
[1] Vegezio, De rei militari, Libro I, The military remark.
[2] Vegezio, L’arte della guerra, Libro III, The number which should compose an army.
[3] Ivi., Libro I, The Roman Discipline – The cause of their greatness. Corsivo nostro.
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