Il professore Christoph Schminck Gustavus ha ricostruito la storia di Attilio Buldini e di Gigina Querzè, attraverso lo studio delle fonti orali. Egli infatti considera lo studio delle fonti orali di fondamentale importanza per una ricostruzione storica completa, specialmente per le esperienze dei singoli individui internati in campi di concentramento, in cui è inevitabile dover fare riferimento all’esperienza personale e soggettiva degli internati per poterne capire e considerare in modo adeguato il peso pregnante della loro esperienza come casi storici. Emozionante, toccante e suggestivo il racconto.
La storia di Attilio Buldini inizia durante la guerra: egli era di professione un barbiere, e poi chiamato alle armi fu mandato di stanza all’Isola d’Elba. Lontano dalla moglie Gigina, con cui però aveva modo di scambiarsi lettere, egli, come la maggioranza dei soldati italiani, che non combattevano per una causa condivisa ma per un regime, attendeva solo il momento di poter fare ritorno a casa. L’8 settembre 1943 fu in tal senso una data fondamentale per la storia dell’Italia: Pietro Badoglio (lo stesso che aveva condotto le truppe italiane in AOI nelle avventure coloniali del fascismo), capo del governo e maresciallo d’Italia, proclama l’armistizio di Cassibile firmato il 3 di quello stesso mese con gli alleati anglo-americano.
Attilio, assieme ai suoi commilitoni, festeggia: già pensa al suo ritorno nella sua Romagna, laddove lo attende Gigina, sua promessa sposa. Ma la triste storia pregressa di Attilio è giusto al prologo di una tragedia. I tedeschi, appoggiati ancora a Mussolini, segregato nello stato fantoccio di Salò si impegnarono in una importante controffensiva contro gli alleati: al porto di Piombino vennero tratti con l’inganno migliaia di soldati italiani e vennero fatti salire in dei vagoni gestiti dalle ferrovie dei nazisti. Questi ultimi promettevano loro che li avrebbero riportati a casa. La realtà fu diversa. Quello sarebbe stato un viaggio verso la Germania, verso i campi di lavoro e i campi di concentramento.
Durante il viaggio, chiusi e stipatissimi nei vagoni “bestiame”, Attilio scrisse dei bigliettini verso la donna che amava, con l’illusione che forse qualcuno li avrebbe raccolti: effettivamente ciò avvenne e Gigina poté vivere nella speranza e nell’attesa di poter ri-incontrare il proprio caro.
Dopo la deportazione, soldati e ufficiali vennero posti davanti alla scelta di potersi arruolare all’interno della Wehrmacht o, in caso contrario, di essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10% accettò l’arruolamento. Gli altri vennero considerati prigionieri di guerra. In seguito cambiarono status divenendo internati militari, ed infine, dall’autunno del 1944 alla fine della guerra, “lavoratori civili”, in modo da essere sottoposti a lavori pesanti senza godere delle tutele della Croce Rossa.
Attilio faceva parte degli internati militari, in quanto come molti preferiva i lavori forzati, rispetto che ferire il proprio orgoglio patriottico, e non solo. E’ oltremodo noto anche dalle esperienze della prima guerra mondiale che gli uomini sono molto restii a essere reintegrati nei ranghi di un nemico che combatte contro la gente di stessa nazionalità, lingua e cultura.
La ricostruzione della storia di Attilio e Gigina nasce dal racconto che lo stesso Attilio ha potuto comporre durante il dopoguerra per consegnarlo al professor Schmink Gustavus. Essi sono riusciti anche a ricostruire dove di preciso fosse stato internato (cosa affatto scontata laddove spesso neppure gli stessi prigionieri avevano la benché minima nozione della loro ubicazione): per la precisione in tre diversi campi di concentramento, fra cui quello di Bremervorde (oggi non più visibile), quello all’interno della città, e quello di Blomendal (40 km a nord di Brema) dove per nutrirsi Attilio spesso mangiava erba e corteccia piuttosto che cercare rifiuti organici all’interno della spazzatura, laddove spesso dei membri della Resistenza lasciavano qualche patata.
Le condizioni di vita di Attilio si fecero più dignitose quando poté sfruttare le sue doti di barbiere all’interno del campo: racconta di essere stato persino da una signora (la signora Neumann) la quale come ricompensa gli diede cinque patate al sugo, un pasto luculliano per chi non mangia dignitosamente da mesi. Infine, la liberazione.
La guerra sta volgendo al termine e gli alleati avanzano sempre più in profondità. I bombardamenti si fanno sempre più frequenti col culminare dell’Operazione Millennium II con la quale Brema venne quasi rasa al suolo. È questo il momento in cui migliaia di deportati possono scappare e riprendere il treno verso la libertà. Tornato nella sua casa di Borgo Panigale, Attilio si ricongiunge con Gigina: stette tre settimane chiuso in cantina. La paura della luce e della libertà era evidentemente troppo forte. Ma Gigina che, come lui, sebbene in modo diverso, aveva resistito tutti quegli anni (con a carico anche un figlio tubercolotico), riuscì a risollevarlo e si sposarono facendo il loro viaggio di nozze su una vecchia bicicletta.
È questo il racconto di Attilio Buldini, e come questo, ce ne sono archiviati migliaia grazie all’associazione dell’A.N.E.I (Associazione Nazionale Ex Internati); al professor SchminkGustavus il merito di aver racchiuso all’interno di più di un libro questa vicenda meritoria di essere esempio di storia riportata mediante l’esperienza degli individui, mostrando così le interrelazioni plurime tra la grande compagine delle moltitudini umane e i singoli specifici attraverso cui la storia si compie. Così da mostrare, ancora una volta, che la storia siamo noi.
Ho letto la storia di Attilio Buldini. Conoscevo personalmente Gigina Querzè.
Gentilissimo Giorgio,
siamo felici di averle potuto rievocare i ricordi della signora Gigina Querzè.
Grazie del commento
Francesco Wolfgang Pili