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Fui subito colpito dalla quantità di giovani inglesi sparpagliati in giro; tutti ben vestiti, tutti con l’aria un po’ affamata e tutti intenti a parlare con voce bassa e seria ad americani solidi e prosperosi. Ero certo che stavano vendendo qualcosa: azioni o assicurazioni o automobili. Per lo meno erano consapevoli fino all’angoscia dello scialo di denaro lì attorno e persuasi che quel denaro sarebbe diventato loro in cambio di qualche parola pronunciata nel tono giusto.
Scott Fitzgerald
Il grande Gatsby è un romanzo di Scott Fitzgerald pubblicato per la prima volta negli USA nel 1925, divenne rapidamente un fenomeno di massa e si impose alla critica quasi unanimemente. Il romanzo narra la storia di un oscuro ricco americano, Jay Gatsby, e di vari intrecci amorosi che vedono coinvolti i personaggi principali del romanzo, Nick Carraway, Daisy e Tom Buchanan e Jordan Baker.
Nick Carraway conosce Jay Gatsby come la maggioranza: ad una festa della società bene disposta dallo stesso Gatsby, il quale aveva come abitudine e prerogativa quella di organizzare simili eventi mondani. Nick scopre assai presto che tutti i partecipanti delle feste di Gatsby non soltanto non conoscevano l’organizzatore, ma assai spesso non si conoscevano tra loro. Nessuno conosceva nessuno e così le feste diventavano l’occasione per affogare la solitudine dei singoli in grandi baldorie a base di alcol e flirt più o meno inconcludenti. In simili circostanze molto spesso gli avvenimenti premiavano i partecipanti con momenti assai poco edificanti: “Mi guardai attorno. Quasi tutte le donne rimaste stavano litigando con uomini che si diceva fossero i loro mariti. Perfino il gruppo di Jordan, il quartetto di East Egg, si scisse per dissensi. Uno degli uomini parlava con strana intensità a una giovane attrice, e la moglie di lui dopo aver tentato di affrontare la situazione con un sorriso dignitoso e indifferente ebbe un collasso e decise di ricorrere ad attacchi laterali: gli compariva improvvisamente accanto a intervalli come un diamante sprizzante collera e gli sibilava all’orecchio: “L’hai giurato”.[1] Le feste erano principalmente frequentate da donne, più o meno allegre, più o meno forzatamente felici.
In realtà in tutto il romanzo non si chiarisce mai così bene perché Gatsby organizzasse queste feste, anche se è lecito supporre che fosse per incontrare Daisy, suo unico vero amore. Ed in realtà Gatsby era una sorta di dispensatore di servizi per avventori casuali che non un vero e proprio pianificatore: “La prima sera che andai nella casa di Gatsby ero probabilmente uno dei pochi ospiti veramente invitati. Le persone non erano invitate: andavano. Salivano su macchine che le trasportavano a Long Island e qui, chissà come, finivano alla porta di Gatsby. Arrivati lì, si facevano presentare da qualcuno che conosceva Gatsby, dopodiché si comportavano secondo il galateo appropriato ad un parco di divertimenti. A volte arrivavano e partivano senza neanche aver conosciuto Gatsby, venivano alla festa con una ingenuità che costituiva da sola il biglietto d’ingresso”.[2] Questo sistema, dunque, sembra essere il default, lo standard per molte di quelle serate che oggi si possono apprezzare in tutto il loro splendore in quella culla della civiltà che è il pacifico e profondo western way of life.
Daisy era sposata con Tom Buchanan, il quale aveva un’amante rozza e volgare. Quando Gatsby e Daisy si rincontrano i due sembrano quasi riprendere spontaneamente la loro precedente relazione. Gatsby, la cui storia non viene mai pienamente esaurita e ricostruita a più riprese, a suo tempo fu costretto a separarsi da Daisy per due ragioni: prima di tutto perché non aveva i soldi per potersi permettere di mantenerla, ricca di famiglia com’era. Evidentemente, anche all’epoca dell’amore fondato sui sentimenti, si richiede un sussidio economico per mantenerli, sicché sembra quasi che la connessione tra il potere e denaro sia ben più sottile di quanto non appaia a prima vista, soprattutto per chi si illuse, a suo tempo, di rivendicare il primato dell’emozione su quello del vil denaro che, tuttavia, si prende ancora le sue rivincite a scapito di tutti gli idealisti.
Ad ogni modo, c’era anche una seconda ragione: Gatsby era di leva nella prima guerra mondiale, nonostante non faccia in tempo ad essere inviato in Europa (come molti soldati americani nel primo conflitto mondiale). Così per necessità diverse sommate Gatsby è costretto ad allontanarsi da Daisy. La quale, d’altra parte, non ha né voglia né pazienza e la sua vita sembra semplicemente un susseguirsi di feste, di incontri e non impiega molto a rimanere “lusingata” dalle avance di Tom Buchanan, uomo prestante e dalle sostanze evidentemente generose.
Nick Carraway riesce a ricostruire la vita di Gatsby solo molto lentamente, ed è anche il narratore in prima persona del romanzo. Anch’egli sembra essere legato ai modelli incarnati dai festini alcolici e sensuali di Jay Gatsby, di cui diventa molto amico perché l’unico in grado di coglierne l’intrinseca debolezza. Il suo amore per una relativa vita mondana non toglie che possa ricordarsi del campanile di Kant al momento opportuno, ma non potendosi permettere di pensare solo alla cultura, è anche costretto a lavorare.
Tutta la storia ruota attorno a due fuochi: la vita di Gatsby e la quadruplice radice dell’amore sensuale che si consuma tra Tom Buchanan, l’amante, Daisy e Gatsby. Gli eventi complessivi dei singoli personaggi sono vagamente privi di sostanza, quasi a sottolineare che l’amore sia l’unica ragion d’essere per questi individui. Amore, sia ben inteso, che non si realizza mai in un’unione compiuta e felice, ma è sempre fonte di una perpetua condizione di insoddisfazione. Infatti, Tom Buchanan, uomo vagamente superficiale e sinceramente privo di empatia nei confronti dei veri valori della civiltà, si accontenta di avere una bella moglie di eccellenti origini, una amante piccante di popolari ascendenze e vivere trascorrendo una sera ad una festa e un pranzo al ristorante. Allo stesso modo, Daisy è in grado di riprendere la relazione con Gatsby, nonostante non giungano mai a consumare il loro amore. In questo senso, il romanzo sembra quasi essere una sorta di apologia del tradimento dell’amore romantico-platonico, laddove questo sembra essere quello più capace di riscattare l’individuo dalla mediocrità imperante ma, allo stesso tempo, risulta poi del tutto fallimentare. L’amore diventa così simbolo stesso di un falso significato, ma anche l’unico ad essere veramente degno di essere creduto. Nick Carraway prova ripetutamente ad avere approcci costruttivi con Jordan Baker, ma alla fine non riesce.
Il romanzo, non certo casualmente, termina con la sconfitta di ogni singola storia d’amore: l’amante di Buchanan muore casualmente investita dalla moglie. L’avvenimento conduce Buchanan ad accusare Gatsby della morte della donna, visto che Daisy e Gatsby erano insieme nell’auto. Allo stesso tempo, Buchanan non vuole essere coinvolto nelle inevitabili questioni burocratiche e di etichetta che la morte dell’amante avrebbe provocato. Sicché i due coniugi decidono di lasciare la città. Gatsby, accusato di essere lui ad aver investito la donna, e non tenta neppure di discolparsi per amore di Daisy, viene ucciso dal marito della stessa. Nonostante tutte le sue feste, egli fu un mistero ignorato in vita e così da morto, chiudendo il cerchio di una forse inutile esistenza.
Il grande Gatsby è una grande riflessione sui valori della società di massa, assunti acriticamente dagli individui che possono permettersi il lusso di viverli e non semplicemente sognarli. Disinteressati alla conoscenza, privi di un istintivo senso religioso o comunque di curiosità, si abbandonano all’oblio di se stessi per riuscire a trascorrere del tempo nell’unico piacere disponibile: il sesso e l’alcol. A dimostrazione che simili valori non sono certo di nuova origine, essi diventano mezzo e fine dell’azione sociale. Per i più sensibili (Gatsby e Nick) si può arrivare all’astrazione o, forse, alla vaga ispirazione di un amore non più semplicemente sensuale ma anche emotivo e sentimentale capace di costituire una forma larvale di ideale di vita.
Gatsby, infatti, sembra essere l’emblema stesso del nuovo romantico aggiornato alla società di massa: organizza feste per riuscire a disintossicarsi dalla propria solitudine e trae soddisfazione dalla presenza di Daisy. Ma questo amore poi fallisce alla prova dei fatti: non è né indissolubile (Daisy si sposa quando Gatsby è nell’esercito) né indistruttibile (come dimostra il fatto che Daisy non si reca neppure al funerale di Jay) né incorruttibile (perché tutti i personaggi sono spinti continuamente a ricercare alternative vagamente piacevoli agli inevitabili sacrifici che un vero impegno sentimentale richiede).
Di fatto l’amore è fonte di ogni senso ma anche fonte di ogni privazione di senso. Ad un primo livello, infatti, l’amore è la prima e unica forza motivante per le azioni di questi individui, ma poi, ad un secondo livello, esso risulta del tutto privo di valore. In qualche modo si può fare il parallelo con il denaro, simbolo stesso dell’American way of life: esso diventa scopo che però non genera di per sé soddisfazione interiore. E’ pur vero che questo genere di amore, appunto perché non assurge a valore intrinseco, determina di per sé la morte interiore dell’individuo. Ma semplicemente perché tutti sono così accecati dal proprio egoismo da non essere in grado di riuscire a riconoscere nell’altro un valore e, quindi, nella vita stessa. La vita è vista come mezzo per trarre soddisfazione pura per il proprio senso di solitudine sentimentale, male indirizzata dalla solitudine sessuale verso strade controproducenti rispetto alla necessità di condivisione di sé e dei propri sentimenti. Infatti, avere a cuore una persona può comportare un sacrificio rispetto ad altre esigenze. Ma in un mondo in cui dominano esclusivamente delle vaghe ispirazioni, mai passate al vaglio di una sana critica, si finisce assai spesso per scambiare il mezzo con il fine, perdendo così il vero obiettivo: il riconoscimento della vita propria passando per la dignità dell’altro. A parte il caso di Nick, e comunque fino ad un certo punto, il romanzo non prevede personaggi con amicizie: se Nick è amico di Jay, è discutibile che Jay stesso prenda veramente a cuore l’amicizia di Nick.
Tutto il romanzo è impregnato di un nichilismo reale che può lasciare sgomenti di fronte alla coscienza perché ci si può legittimamente chiedere come sia possibile che non ci sia, in una tale dimensione, nessuno che cerca di chiarire interiormente se alla base della vita umana ci sia qualche valore che possa essere tale da giustificare e motivare la vita stessa. Privandosi della propria capacità introspettiva, gli uomini sono così condotti ad accettare le spinte naturali che inducono alla partecipazione passiva di quelle attività sociali che non riescono a mantenere le promesse. Le feste di Gatsby sono, così, il simbolo di un fallimento dei costumi sociali che sembrano poter rendere accessibile una sana compagnia, mentre in realtà inducono soltanto malessere nei singoli, relegati ancora una volta verso sistemi alternativi per trovare una soddisfazione che comunque non riceveranno da nessuno degli avventori del raduno. Vanno alle feste per trovare compagnia, ma gli risulterà impossibile trovarla proprio perché ognuno di loro non si concede positivamente all’altro. Per riportare le parole di Nick: “Eravamo a un tavolo di gente particolarmente sbronza. Era colpa mia. Gatsby era stato chiamato al telefono, e soltanto due settimane prima quella stessa gente mi era riuscita molto simpatica. Ma ciò che allora mi aveva divertito si stava ora rivelando per lo meno spiacevole”.[3] E’ triste pensare che simili parole possano lasciare ormai indifferenti ad un lettore del XXI secolo, costretto suo malgrado a vivere in un mondo in cui il sistema Gatsby è la norma. E tanto è vero che la morte per incidenti stradali dovuti ad autisti ubriachi sia una delle principali cause di morte del mondo civile, tema di morte che si ritrova proprio nel romanzo.
Scott Fitzgerald ha composto il suo celebre romanzo tra uno stile rarefatto, adatto a trattare di un valore impalpabile quale è quello dell’amore tra gente impalpabile: “Non riuscivo a perdonargli [a Tom Buchanan] e neanche a trovarlo simpatico, ma capii che dal suo punto di vista ciò che aveva fatto era pienamente giustificato. Era stato tutto molto sbadato e pasticciato. Erano gente sbadata, Tom e Daisy: sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettesse a posto il pasticcio che avevano fatto…”[4] Questa è, in sintesi estrema, tutta l’umanità considerata nel romanzo. Né più né meno. Per questo l’opera è dominata ad una costante cupezza, che però non sprofonda mai in angoscia espressa perché si sarebbe dovuti passare a quel secondo livello che invece è precluso agli individui descritti da Fitzgerald.
L’angoscia è la condizione consapevole del dolore e in quella consapevolezza si gioca la differenza con il semplice soffrire. In questo senso, l’angoscia è una difesa dell’Io che incomincia a prendere coscienza di un perpetuo stato di malessere e così può prendere un avvio di una larvale ricerca interiore che può dischiudere un qualche possibile senso. Infatti, la grandezza dell’essere umano sta proprio nella sua capacità di elaborare delle soluzioni di significato interiore proprio in reazione ad uno stato di dolore. Ma, appunto perché “sbadati e pasticcioni” questi esseri, così perpetuamente capaci di sopravvivere a se stessi alle spese degli altri, riescono nel difficile intento di rimanere perpetuamente identici. Lo stile, dunque, alterna momenti di grande realismo e di dilatazione, sintomo del fatto che la prosa di Fitzgerald è profondamente ragionata in base alle esigenze del momento: “Michaelis e costui furono i primi a raggiungerla, ma quando le strapparono di dosso la camicetta [dell’amante di Buchanan morta] ancora umida di sudore, videro che il senso sinistro oscillava come un risvolto, e non c’era bisogno di sentire il cuore. La bocca era spalancata e leggermente squarciata agli angoli, come se la donna avesse fatto fatica a emettere la vitalità tremenda che aveva rinserrato così a lungo”.[5]
E’ chiaro che Il grande Gatsby è un’opera interessante, anche preziosa, persino intelligente. Ma non è così indubbio il suo valore assoluto. Infatti, se essa si deve valutare sulla base di quei quattro criteri che Dante ha così profondamente delucidato, esso non risulta manchevole sotto il profilo del livello interpretativo materiale (la trama) o a livello simbolico (i significati). Semmai risulta forse incompleto nella disamina del senso stesso delle cose e della vita: esso non c’è mai e neppure sembra che l’estetica sia in grado di riscattare le mediocrità della vita descritta nel romanzo. In altre parole, talvolta sembra davvero che la narrazione sia talmente impegnata nel ricostruire una condizione di privazione di senso che si arriva al paradosso del non riconoscerne più il senso stesso dell’opera. Infatti, sin dall’Ecclesiaste si parla del mondo disperato, mai felice e sempre capace di ingannarsi. Ma se il messaggio biblico ha un chiaro valore religioso per chi ci crede, e un significato comunque profondo per chi non ci crede, le narrazioni che finiscono per scambiare l’umanità per quella condizione di miseria sembrano essere vittima di se stesse e finire per dimenticare che esistono molte parti importanti della realtà umana che comunque vanno considerate anche quando si voglia far vincere quel vuoto che si cela dentro l’anima dell’uomo.
Sia detto en passant: l’ultima rappresentazione cinematografica del romanzo, al di là della sua discutibilità complessiva, ben difficilmente avrebbe potuto soddisfare Fitzgerald. E non si può non rimanere colpiti di come certo cinema sia così disinvolto a considerare certe pietre miliari della letteratura in modo così semplicistico, incamerandosi le entrate solo per la celebrità del titolo, ma senza poi riprodurre almeno in parte lo spirito complesso dell’opera considerata. Simili operazioni di disinformazione dovrebbero essere lasciate ai servizi segreti di nazioni mediocri.
Scott Fitzsgerald
Mondadori
Pagine 182.
Euro: 7,65
Citazioni da Il grande Gatsby
Fui subito colpito dalla quantità di giovani inglesi sparpagliati in giro; tutti ben vestiti, tutti con l’aria un po’ affamata e tutti intenti a parlare con voce bassa e seria ad americani solidi e prosperosi. Ero certo che stavano vendendo qualcosa: azioni o assicurazioni o automobili. Per lo meno erano consapevoli fino all’angoscia dello scialo di denaro lì attorno e persuasi che quel denaro sarebbe diventato loro in cambio di qualche parola pronunciata nel tono giusto.
Michaelis e costui furono i primi a raggiungerla, ma quando le strapparono di dosso la camicetta [dell’amante di Buchanan morta] ancora umida di sudore, videro che il senso sinistro oscillava come un risvolto, e non c’era bisogno di sentire il cuore. La bocca era spalancata e leggermente squarciata agli angoli, come se la donna avesse fatto fatica a emettere la vitalità tremenda che aveva rinserrato così a lungo.
Non riuscivo a perdonargli [a Tom Buchanan] e neanche a trovarlo simpatico, ma capii che dal suo punto di vista ciò che aveva fatto era pienamente giustificato. Era stato tutto molto sbadato e pasticciato. Erano gente sbadata, Tom e Daisy: sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettesse a posto il pasticcio che avevano fatto…
Eravamo a un tavolo di gente particolarmente sbronza. Era colpa mia. Gatsby era stato chiamato al telefono, e soltanto due settimane prima quella stessa gente mi era riuscita molto simpatica. Ma ciò che allora mi aveva divertito si stava ora rivelando per lo meno spiacevole.
Mi guardai attorno. Quasi tutte le donne rimaste stavano litigando con uomini che si diceva fossero i loro mariti. Perfino il gruppo di Jordan, il quartetto di East Egg, si scisse per dissensi. Uno degli uomini parlava con strana intensità a una giovane attrice, e la moglie di lui dopo aver tentato di affrontare la situazione con un sorriso dignitoso e indifferente ebbe un collasso e decise di ricorrere ad attacchi laterali: gli compariva improvvisamente accanto a intervalli come un diamante sprizzante collera e gli sibilava all’orecchio: “L’hai giurato”.
La prima sera che andai nella casa di Gatsby ero probabilmente uno dei pochi ospiti veramente invitati. Le persone non erano invitate: andavano. Salivano su macchine che le trasportavano a Long Island e qui, chissà come, finivano alla porta di Gatsby. Arrivati lì, si facevano presentare da qualcuno che conosceva Gatsby, dopodiché si comportavano secondo il galateo appropriato ad un parco di divertimenti. A volte arrivavano e partivano senza neanche aver conosciuto Gatsby, venivano alla festa con una ingenuità che costituiva da sola il biglietto d’ingresso.
[1] Fitzgerald S., (1925), Il grande Gatsby, Mondadori, Milano, p. 54.
[2] Ivi., Cit., p. 43.
[3] Ivi., Cit., p. 108.
[4] Ivi., Cit., p. 180.
[5] Ivi., Cit., p. 139.
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