La letteratura scacchistica si può dividere in due categorie: la letteratura scacchistica tecnica e la letteratura scacchistica culturale. La letteratura scacchistica tecnica si può, a sua volta, suddividere in almeno altri due generi, a loro volta, partizionati: la letteratura tecnica del centro partita e la letteratura tecnica del resto. La prima può essere, a sua volta, divisa tra tattica e strategia; la seconda, invece, in aperture e finali. All’interno della categoria di letteratura tecnica, ai confini di essa, si situa la didattica.
La letteratura scacchistica culturale si divide, invece, in due categorie, perché questa grande classe di scritti è molto ampia i cui confini, però, non son netti: la letteratura culturale si divide in dissertazioni analitiche sul gioco e sulla storia.
Infine, c’è una terza categoria che riguarda i libri scritti sugli scacchi, ma non direttamente di scacchi, senza, però, che essi costituiscano il tema dominante ma siano essi inclusi come componente parziale del lavoro. Questo genere di scritti sono, generalmente, di autori che conoscono gli scacchi solo parzialmente ma ne rimangono, comunque, affascinati. Due esempi: La scacchiera di J. Brunner e Il giocatore di scacchi di Maelzel di E. G. Poe. Bisognerebbe aggiungere una grande mole di studi, analisi e romanzi che citano gli scacchi, ora come immagine chiarificatrice, ora come orpello dilettevole. Gli scacchisti, probabilmente, sottovalutano la grandezza di tale raccolta potenziale di scritti, che è davvero considerevole. Solo in filosofia, Locke nel suo celebre Saggio sulla natura umana cita gli scacchi, per finire al filosofo americano contemporaneo Daniel Dennett che nel suo La mente e le menti usa l’immagine del software scacchistico per illustrare la sua idea della lettura “progettuale” degli artefatti. In letteratura, poi, gli scacchi costituiscono un particolare, un dettaglio ossessivamente presente: persino Bukowski cita gli scacchi nel suo Storie di ordinaria follia. Ad esempio, Il grande sonno il mitico Chandler “Accesi quella lampada a piedistallo. Spensi la luce del soffitto e attraversai nuovamente la stanza, vero la scacchiera che mi aspettava sul tavolo da gioco sotto la lampada. C’era un problema da risolvere in sei mosse su quella scacchiera. Ed era irrisolvibile come la maggior parte dei miei problemi. Tesi una mano e spostai un cavallo, poi mi tolsi il cappello e il soprabito e li buttai dove capitava”.[1]
Questa grande partizione, che deve essere letta in modo molto elastico, è utile per comprendere la grande varietà dei diversi lavori che, tutti, concorrono ad aggiungere sapere a quella dimensione più ampia che è il “fenomeno sociale” del gioco degli scacchi. Perché gli scacchi sono principalmente un fenomeno sociale: essi mettono in comunicazione persone, unite da un unico interesse, che, però, trascende il puro livello della pratica del gioco. Si può dire, in effetti, che gli scacchi, nella loro pura veste meccanica, rivestano la minore importanza, rispetto al fenomeno più generale dell’insieme delle relazioni sociali, tecnologiche e conoscitive che il gioco stesso smuove. Basterà fare qualche esempio per comprenderci. Nella mia breve esperienza, ho conosciuto circa duecento persone all’interno dei circoli, dei campionati nazionali a squadre, all’interno dei tornei, all’interno della mia (appena al principio) attività di giocatore per corrispondenza, all’interno degli scambi culturali che intrattengo con altri scacchisti. Io sono un ragazzo che ha iniziato relativamente da poco, cioè da quattro-cinque anni, a “vivere” gli scacchi in modo più intenso e consapevole. Per parlare in termini più impersonali, gli scacchi riguardano le attività dei circoli nazionali ufficiali, quelli non ufficiali, i giocatori da torneo, i giocatori per corrispondenza, gli appassionati saltuari, gli scrittori (siano essi scacchisti professionisti oppure no), e una quantità ampia di persone che giocano e leggono via internet.
Questa, si può dire, è la base “orizzontale” dello scacchismo, come movimento sociale, e coinvolge persone di tutti i tipi e di tutte le estrazioni sociali.
Il secondo livello è l’aspetto tecnologico. Si può dire, senza metafore, che gli scacchi siano una “sfida tecnologica”. Essi sono l’oggetto di ricerche assidue da parte degli informatici sia nei termini di programmazione e implementazione di software scacchistici, sia nei termini di sistemi di trasmissione di informazione a grandi distanze (internet): non c’è gioco che abbia più beneficiato dall’avvento della tecnologia informatica che gli scacchi. Inoltre, sono presenti DVD di insegnamento scacchistico e, a suo tempo, c’erano le VHS di commento a partite (me ne ricordo una su Capablanca). Altre imprese tecnologiche hanno riguardato i libri: si pensi alla necessità di rendere trascrivibile ogni partita (ricordiamoci della pesantezza della trascrizione descrittiva usata ancora ai tempi di Nimzowitsch), di riportare i diagrammi. In fine, da non sottovalutare, c’è stata la necessità di creare scacchiere e di uniformarle a determinati standard, per non parlare dei gadget scacchistici così diffusi e così variegati, dai vestiti alle penne.
Infine, c’è l’aspetto verticale dello scacchismo, reso necessario per dirimere le contese tra i campioni del mondo, per la gestione del punteggio ELO e per rendere possibile l’uniformità legale necessaria per un gioco che sia unico e omogeneo in tutto il mondo: il gioco è l’insieme delle sue regole. Come tutti sappiamo, molti amatori italiani credono ancora che si possano muovere due pedoni alla prima mossa piuttosto che uno di due passi, e sono così difficili da convincerli del loro errore!
Questo è solo un piccolo quadro ma rende l’idea di ciò che è “il fenomeno sociale” degli scacchi. Solo un’ultima osservazione a riguardo. Proprio perché gli scacchi sono un fenomeno sociale, e considerata la natura egoistica del gioco, estremamente competitivo, ciò che nei circoli si trascura, almeno in Italia e per quel che ne so io, è proprio la cura della socialità, in senso più ampio. Nei circoli, sin troppo spesso, gli scacchi sono limitati alla loro componente puramente agonistica, pur limitata alla sfida di giocatori non professionisti. Ciò che a livello istituzionale è stato sin troppo ignorato è che promuovere gli scacchi significa promuovere contatti, amicizie, conoscenze e non solo l’aspetto tecnico. In Italia gli scacchi sono rimasti un gioco abbastanza elitario perché non si è cercato di promuovere e concepire il nobil gioco nel suo aspetto più generale, che coinvolge moltissime persone di interessi, qualità e mentalità molto diverse ma tutte in grado di apportare dei grandi vantaggi al movimento scacchistico generale.
Vorremmo aggiungere che questa sorta di “esigenza esoterica” è uno dei tratti caratteristici della nostra Patria, giacché un po’ per tutto, purtroppo, si può trovare il medesimo approccio: la storia è chiusa nei circoli di storici, la filosofia in quella di pochi filosofi, e la politica miserabile, fondata sui partiti e impermeabile alla società civile. La democrazia della conoscenza è avversata perché mina i vantaggi di quei pochi che hanno vissuto interamente per ottenere la distinzione dalla massa e che reclamano i propri meriti sugli altri “pigri”. Purtroppo, ciò è un grave ostacolo per il benessere sociale e, nello specifico, per il benessere degli scacchisti: sono gli scacchisti, non gli scacchi, a fare nobile il nostro gioco.
Un Top Ten, alla domanda “cosa deve fare uno scacchista per migliorare” rispondeva che bisogna cercare di “immergersi” quanto più possibile all’interno degli scacchi, includendo anche la lettera di libri di storia scacchistica e tutto ciò che coinvolge conoscenze anche non direttamente tecniche. La conoscenza è figlia della democrazia e tanto più ci sono persone diverse che si interessano, direttamente o indirettamente al gioco, e tanto più il livello medio di gioco si alza e finisce per far fuoriuscire anche il “campione”. In fondo, il fenomeno dell’Unione Sovietica e delle altre potenze scacchistiche può essere visto, nell’essenza, in questo (al di là della componente economica, naturalmente). Ci tengo a specificare che non mi rivolgo polemicamente al circolo che frequento, che, invece, è particolarmente attento alla dimensione “sociale” degli scacchi, di cui sto parlando. Vorremmo semplicemente parlare di un problema globale e nazionale che, a quanto pare, investe lo scacchismo italiano per intero ed è sentito da moltissime persone.
Il fatto è che si vuole spendere tempo ed energie per “ricercare il campione”, come se questo fosse il risultato di un puro lavoro di setacciamento e specializzazione. Invece, il campione è una persona che nasce e vive in un contesto e che si sviluppa solo dove c’è un “amore” diffuso per tutti gli aspetti del gioco. Immaginiamo un ragazzino italiano di quindici anni che è bravo, magari è già arrivato alla categoria ragguardevole di Maestro Fide. A quindici anni ha già le capacità per competere con molti a livello internazionale. Ma la sua vita non è fatta solo di tornei. Egli va al circolo e trova il vuoto: tra i diciotto e cinquant’anni trova esclusivamente due persone. Egli, inoltre, si trova nella possibilità di giocare via internet e di studiare per conto suo. All’età di diciotto anni si rende conto che non ha dodici ore al giorno da dividere con gli scacchi e lo studio. Inoltre, siccome non è già un GM, non ha accesso al sostentamento economico sufficiente per vivere solo di scacchi. Così, nonostante sia bravo, un potenziale Maestro Internazionale, egli smette di giocare perché non ha sufficienti motivazioni. E queste vengono anche dalle spinte secondarie, sociali e non solo economiche: infatti, un ragazzo di quindici anni che non è già un Maestro Internazionale, difficilmente diventerà un campione del mondo, ma sarebbe uno di quelli che può portare in avanti il prestigio, la fiducia, l’interesse di tanti. “Prestigio”, “fiducia” e “interesse” sono categorie sociali!
Karpov nell’introduzione al libro Storia degli scacchi in Italia, diceva che tutti i lavori di scacchi venivano tradotti in russo. Tutti, senza eccezioni. Anche quella letteratura non tecnica. Anche la storia degli scacchi in Italia! Nell’Unione Sovietica non c’erano solo GM, un fatto ovvio che, forse, non è sempre così evidente!
Bisogna riflettere sul problema sociale, bisogna assolutamente prendere più sul serio anche quei giocatori che vanno nei circoli solo perché ritengono che gli scacchi siano un buon modo di passare il tempo con le altre persone perché essi creano quelle basi sociali necessarie per lo sviluppo di un movimento scacchistico più pervasivo, più consapevole, più democratico e più forte. In questi tempi, contraddistinti dalla mancanza di ideali universali (forse, anche finalmente) il vuoto emotivo lascia aperta la strada al nichilismo, alla massificazione dell’individuo, all’egoismo. Ma c’è lo spazio, in questo momento di vuoto, per creare alternative, per dare risposte, anche nel nostro piccolo, ad un mondo che, invece, può essere cambiato per il meglio. E gli scacchi, in quanto fenomeno sociale, possono dare tanto a tanta gente. Quanto sia variegata la natura degli interessi scacchistici e quanto essi possano essere profondi lo mostra la storia della letteratura scacchistica stessa e di quanto prestigio essi abbiano, solo dal peso delle pubblicazioni di persone che di scacchi non ne sanno nulla. Abbiamo, oggi, molti più strumenti per migliorare la nostra società e la vita. Gli scacchi sono uno di questi.
[1] Chandler R., (1943), Il grande sonno, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 141.
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