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Parte 1. Il primo ordine di complessità – Ovvero la fattualità
La settimana scorsa andavo ad una lezione di scacchi al mio attuale circolo di Milano, la magnifica Accademia a pochi passi dal Duomo in via laghetto. Orbene, andavo di fretta, come al solito in ritardo e, nel poco tempo a mia disposizione dovevo anche mangiare. Inghiottendo i bocconi, quasi strozzandomi, mi capitò pure di sporcarmi il mio giaccone blu scuro, quello buono. Studente fuori sede, privo delle piacevoli cure di una donna, lontane seicento miglia da me l’amata e la madre, questo è un guaio serio al quale si può scegliere o di indossare il cappotto primaverile o spendere una ventina di euro in una buona lavanderia. Sto ancora decidendo.
Arrivato con il panino in subbuglio, con i crauti mescolati al wurstel in piena attività digestiva, mi sedetti su una delle sedie per ascoltare il Maestro Internazionale. Ad un tratto, un uomo dal faccione simpatico e con gli occhiali simili a due periscopi domanda “Maestro, perché gli scacchi sono così complessi?” Al che, il nostro insegnante rimase spiazzato e, sostanzialmente, preferì continuare ad analizzare la partita.
La domanda “perché gli scacchi sono così complessi” sembra sostanzialmente impertinente, in un corso di analisi intitolato “come scegliere la mossa migliore”. Però è un quesito molto interessante e cercheremo di mostrare perché.
Partiamo dalla domanda: “Perché gli scacchi sono così complessi” è, bisogna pur dirlo, una domanda mal posta. Infatti la domanda assume come prerequisito che la frase “gli scacchi sono complessi” sia vera. Ma è effettivamente così? Il problema, a questo punto iniziale, consiste nel dividere in punti non ulteriormente divisibili la questione: se si dicesse “gli scacchi sono complessi” si darebbe per scontato che lo sono e che noi abbiamo ben chiaro cosa significhi la parola “complesso”. Tuttavia, il termine problematico (complesso) va discusso: complesso è il contrario di semplice. Semplice, ben inteso, non facile. Qualcosa si dice facile se la eseguiamo (quasi) senza pensarci: un finale di re e donna contro re è talmente facile da essere risolto anche dal più incerto dei giocatori. Semplice è qualcosa che non si può ulteriormente scomporre, è l’elemento di una certa teoria, gioco, materia, disciplina. Ad esempio, per fare una torta, i termini “semplici” sono gli ingredienti e le regole di combinazione degli elementi. Per gli scacchi, a primo sguardo sembra che l’elemento ultimo, cioè basilare che consente di descrivere tutto, siano i pezzi e le regole. In realtà, non è così: le case e le somme di case sono ciò che negli scacchi c’è di realmente semplice. I pezzi possono essere riscritti in termini di case e, allo stesso modo, tutto il resto.[1]
Abbiamo raggiunto un primo punto perché possiamo rispondere alla domanda: “cosa c’è di semplice negli sacchi” e la risposta è “la casella”. I pezzi li possiamo definire come “somme di caselle”: ogni pezzo controlla simultaneamente più case ma può essere collocato di volta in volta in un solo punto e, dunque, abbiamo sempre un insieme ristretto e ben definito di caselle che definisce ciascun pezzo. A questo punto, possiamo parlare direttamente dei pezzi come le prime unità “complesse”: ricordandoci sempre che essi sono costituiti di parti, possiamo parlare direttamente di essi.
Se l’atomo del gioco degli scacchi è la casella, i pezzi sono da considerarsi più delle molecole ma proprio il macrocosmo su cui tutto è regolato. Non c’è, negli scacchi, un passaggio intermedio, come c’è nella realtà. Le regole sono equiparabili alle leggi fisiche che sanciscono i limiti della realtà e ne stabiliscono tutte le potenzialità. Sarebbe interessante prendere in considerazione il problema se le regole sono a loro volta degli assunti puramente semplici (cioè frasi non composte da altre frasi) oppure no. Assumiamo che siano semplici. Ciascun pezzo ha una regola che ne stabilisce il comportamento: “il cavallo muove a L”, “la donna muove in diagonale e per colonne e traverse” etc.. Ogni pezzo ha una regola che stabilisce il suo movimento. Sembra banale, ma ogni pezzo, con l’eccezione del pedone, è potenzialmente spostabile all’infinito. In altre parole, noi possiamo sempre reiterare la stessa regola infinite volte. Non è un caso che ci siano due regole che dicono questo: “se in un finale, nessun pedone è stato mosso da cinquanta mosse, allora la partita è patta” e “se la posizione si ripete per tre volte in modo identico e consecutivamente allora la partita è patta”. Queste due regole sono indispensabili perché, senza di esse, si potrebbe andare avanti anche all’infinito. Dunque, non solo un solo pezzo può muovere avanti e indietro infinite volte (stando alle regole del solo movimento) ma ciascun pezzo può farlo! Il pedone fa parziale eccezione, ma può anche essere promosso…
Abbiamo considerato solo i singoli pezzi, ma non li abbiamo ancora fatti interagire tra loro. Ci siamo limitati a osservare come ciascuna unità generi un insieme infinito di mosse potenziali, con la parziale eccezione del pedone. Adesso compiamo un passo ulteriore: prendiamo il minimo dei pezzi per giocare e mettiamoli sulla scacchiera, diciamo un finale di re e donna contro re. Come si vince è facile, ma nasce da tre elementi complessi: (1) il movimento potenzialmente infinito del re bianco, (2) il moto potenzialmente infinito del re nero e (3) quello della donna. Il risultato è che abbiamo tre pezzi che possono generare un numero elevatissimo di posizioni e (escluse la regola delle cinquanta mosse e di ripetizione di mossa) potenzialmente infinite mosse. Immaginiamo, adesso, per composizione di aggiungere di volta in volta un nuovo pezzo e domandiamoci ancora: quante posizioni e mosse possibili posso ora giocare? La risposta ormai la conosciamo: se posizioni quasi infinite per un numero potenzialmente infinito di mosse è la risposta per tre pezzi, a maggior ragione ciò varrà anche per 32 pezzi! Per Capablanca gli scacchi andrebbero studiati dai finali per poi risalire indietro. Possiamo giustificare questo consiglio proprio perché nei finali abbiamo subito un quadro complesso ma lo è meno rispetto alla partita in cui compaiono tutti i pezzi contemporaneamente. Il finale è un piccolo “brano” di partita per un piccolo ensemble di pezzi.
C’è una ragione per cui esistono una quantità incalcolabile di varianti: per ogni pezzo si può reiterare la regola del movimento a piacere, in altre parole, la logica degli scacchi è fondamentalmente ricorsiva. Un esempio non scacchistico per focalizzare il concetto: i numeri interi (1, 2, 3…) si possono ottenere tutti dalla somma del numero uno operata infinite volte; allo stesso modo, potete ottenere infinite frasi aggiungendo sempre una “e” o una “o” alla frase precedente. I bambini sfruttano inconsciamente questo principio connaturato alla mente umana (e non a quella animale) quando domandano perentoriamente “perché”, “perché” etc..
Questa prima analisi è esaurita.
Interludio primo
Signore simpatico: “Maestro, perché gli scacchi sono così complessi?”
Caissa: “Mah, perché ci sono sei tipi di pezzi diversi e cinque di questi possono reiterare indefinitamente la regola del movimento. Se pensi che ci sono trentadue pezzi sulla scacchiera all’inizio di ogni partita, comprendi bene che la complessità è enorme.”
Signore simpatico: “Dunque, tu sostieni che la complessità nasca dalla somma di parti semplici? E le parti semplici sono le unità fondamentali, cioè le case.”
Caissa: “Esatto. Il punto è tutto qui, dal punto di vista della complessità vorrei dire fattuale”.
Signore simpatico: “Perché, c’è un altro genere di complessità?”
Parte 2. Analisi del secondo ordine di complessità scacchistica – Ovvero i problemi della conoscenza
Orbene, Caissa c’ha preceduto. In effetti, la sola complessità “fattuale” non esaurisce il problema della generale complessità degli scacchi, sebbene abbiamo ottenuto un primo grande passo: tutto è riscrivibile nei termini delle nostre unità fondamentali, le case, e le regole degli scacchi. Questa prima analisi potrebbe bastarci, se non fosse che c’è un secondo genere di problema che nasce direttamente dal primo.
Quante molecole ci sono nell’universo? Di meno che le mosse del nobil giuoco. Bene, ma quante ne conosciamo e quante mai ne potremmo conoscere!, un bel problema. Difficile a dirsi. Ma siamo sicuri che questa domanda sia veramente importante, rilevante, saliente?
Prendiamo un geniaccio come Einstein, se siete cattivi potete prendere il terribile Von Neumann: mica ciascuno di loro s’interessava di sapere riconoscere ciascuna distinta molecola esistente, loro ricercavano le leggi universali della natura. Una volta che abbiamo appurato di cosa sia fatto nell’essenziale il nostro gioco, folle sarebbe giocare senza cognizione: ciò farebbe di noi principianti. Ciò che separa un principiante da un vero giocatore è proprio la capacità di distinguere le case salienti dalle altre. La capacità di calcolo è, da questo punto di vista, un problema minore: un neofita può contare probabilmente fino a cinque o sei mosse in avanti (soprattutto se sono forzate) ma ben pochi hanno la capacità di risolvere problemi reali. Se così non fosse, perché pagare trenta euro per un libro sul calcolo combinatorio?
Abbiamo testimonianza diretta del fatto che un principiante assoluto non riesce a ragionare in termini di colonne aperte, settime e ottave. Eppure ciò, a tutti “noi”, ci paiono delle mosse talmente naturali che le postuliamo “evidenti per tutti”. Ciò non è così e ci porta direttamente al punto in questione: non ha importanza sapere quante posizioni ci sono sulla scacchiera, ma ci serve, questo si, sapere analizzare una posizione. L’analisi non segue mai da elementi semplici perché la sua esaustività si fonda sulla rilevanza che riusciamo a trovare a determinate mosse rispetto ad altre. Questo lavoro si fonda sostanzialmente su: (a) capacità di riconoscere alcune case come salienti o (b) schemi funzionali, quindi (c) calcolare le posizioni risultanti e fare un bilancio. Ogni giocatore ha un suo personale modo di analizzare in pratica le situazioni, ma è chiaro che partiamo tutti da questi tre punti “semplici”, con variazioni sul tema.
(a) La capacità di riconoscere alcune case come salienti deriva dalla nostra
“comprensione” della posizione, cioè riconoscere quali saranno le case deboli e forti del nostro schieramento e quello dell’avversario. Ciò avviene ancora prima di “contare” perché il calcolo segue sempre, ma non inizia, da qui. Chi sostiene che “tutto è tattica” in senso rigoroso, deve impegnarsi a dimostrare che 1) h4 sia una mossa fallimentare e lo deve dimostrare nei termini del puro calcolo: in altri termini, egli non potrà usare parole come “posizione”, “meglio”, “casa forte”, “casa debole”, “colonna aperta” etc. perché starà già facendo una concessione all’analisi posizionale. Egli dovrebbe prendere tutte le linee che seguono da 1) h4 e dimostrare, attraverso i fatti crudi del calcolo, che tutte le situazioni sono perdenti. E ci potremmo accontentare di una perdita di materiale senza giungere al matto… Dunque, si comincia dal nostro punto (a) e l’abbiamo dimostrato, per così dire, per assurdo.
(b) Gli schemi funzionali sono i così detti pattern o idee e sono delle posizioni ideali di pezzi da cui segue una determinata “cascata di mosse” che non è detto sia automatica ma è sostanzialmente la stessa per tutta una famiglia di posizioni. Per esempio, il tema del vortice rappresenta una forma molto banale di schema funzionale. Gli schemi funzionali sono una struttura molto elastica in cui compaiono delle caratteristiche salienti invarianti che, se siamo abbastanza abili, sappiamo riconoscere.
(c) In fine, abbiamo il calcolo vero e proprio dal quale nessuno può fuggire. L’aspetto combinatorio è centrale, sebbene scaturisca sempre dal punto (a) o (b) e consente delle valutazioni a lungo termine oppure di chiarirci le idee se la posizione attuale non è chiara. Questa caratteristica è molto interessante e si ripropone spesso anche nella vita. Per sapere se una cosa ci sarà utile oppure no, se non ne siamo certi, proiettiamo l’oggetto in una possibile condizione futura e cerchiamo di capire quanto il contesto di utilità sia probabile. Una volta fatto ciò, riusciamo a prendere una decisione. Il calcolo ha una funzione profondamente strategica: esso consente di ragionare in prospettiva quando non abbiam chiaro il presente stato posizionale.
Siamo pronti per rispondere al secondo ordine di complessità: gli scacchi sono molto complessi non solo nella loro fattualità, determinata dal numero di posizione e mosse possibili, ma anche nella loro conoscibilità. Sebbene i temi fondamentali negli scacchi siano pochi (inchiodatura, attacco doppio di vario genere, attacco da matto e pochi altri) le loro possibili configurazioni, unioni sono moltissime. Abbiamo bisogno di una grande quantità di informazione composita per arrivare a chiarire la dimensione strategica di una sola posizione: dobbiamo pensare alle case deboli e forti attuali, a quelle future, concepire temi tattici al presente e in prospettiva, calcolare varianti per chiarirci la situazione. Il problema è di genere conoscitivo (diremmo epistemico): è complessa l’analisi da fare per risolvere un problema di scacchi. Le analisi scacchistiche richiedono delle competenze diverse ma tutte fondamentali, elementari, semplici. Il difficile è metterle insieme coerentemente!
Interludio secondo
Signore simpatico: “Insomma, gli scacchi non li possiamo mai esaurire!”
Caissa: “Il punto è che non possiamo dire di conoscerli, di averli totalmente compresi! Questo è il bello!”
Signore simpatico: “Cosa vuoi dire, di preciso? Voglio dire: se avessimo calcolato tutto, avremmo risolto ogni problema.”
Caissa: “Sei sicuro? Se avessimo la posizione di ogni particella dell’universo non sapremmo ancora prevederne il futuro… a meno che…”
Signore simpatico: “A meno che?”
Caissa: “A meno che non avessimo anche compreso le leggi. Ma le due cose non si implicano reciprocamente! Il problema degli scacchi è appunto che non consentono grandi generalizzazioni. Prendi il computer. Lui non capisce niente di scacchi, ma sa far di conto e dare i pesi alle varianti e questo è fondamentale. Però, la sua grande utilità è che ci consente (a noi, proprio a noi, vecchi cerebri al carbonio) di capire meglio come funzionano gli scacchi, non di capirli del tutto!”
Signore simpatico: “Ci sono due livelli di complessità, quella fattuale e quella conoscitiva. Le due cose non si esauriscono a vicenda. Interessante. Be’, grazie, amico mio. Adesso vado a farmi una lampo!”
Caissa: “Eh, no! Caro mio, ti tocca adesso ascoltarmi sino alla fine!”
Parte 3. La meta-complessità degli scacchi
Abbiamo parlato della complessità assoluta degli sacchi, quella connaturata al gioco stesso ma abbiamo lasciato un problema importante. Le regole delle cinquanta mosse e della ripetizione di mosse, l’orologio da partita (e la patta d’accordo) rendono il gioco a dimensione umana, vale a dire, finito nel tempo. Eppure, c’è un’ulteriore limitazione che tutti noi conosciamo: noi stessi.
La mente umana deve fare i conti col la sua intrinseca natura e vale a dire che essa tende al risparmio energetico perché non ha risorse infinite. Non abbiamo memoria illimitata e non funziona a “calcolo bruto” perché la memoria conserva di più ciò che è già inserito in un “ragionamento” piuttosto che la singola esperienza. Prendete le vostre stesse conoscenze scacchistiche: non vi ricordate intere partite, ma solo parti di esse ma, soprattutto, le “posizioni salienti” e ciò perché le avete inserite in un preciso ordine mentale in base a cui giudicate le posizioni future.
Informazioni finite, combinazioni limitate, memoria semantica e non infinita. E come se non bastasse… abbiamo anche un corpo. Dobbiamo dormire, mangiare, espellere le sostanze nocive, abbiamo bisogno di zuccheri e di distrazioni: troppa concentrazione distrae, troppa tensione spezza l’attenzione.
Anche l’approccio extrascacchistico è un approccio complesso perché tocca interamente ciò che siamo più che ciò che possiamo fare.
Potremmo parlare dei condizionamenti sociali, del senso di giudizio di chi ci osserva (per chi ha questa sfortuna psicologica), delle emozioni, dei nostri gusti personali, dell’ELO nostro/altrui (che se è più basso il suo allora sottovalutiamo le forze altrui e se è più alto allora ci sottostimiamo) che, tutto sommato, non interessano né il livello bruto della complessità scacchistica né quello conoscitivo. Ma ci basti aver dato un elenco e aver esaurito il nostro scopo.
Epilogo
Signore simpatico: “Caissa, ti prego! Basta! Non pensavo che la risposta alla domanda perché gli scacchi sono così complessi fosse anch’essa così complessa!”
Caissa: “Ebbene, adesso capisci meglio perché il re volle farmi tagliare la testa. Perché gli proposi un gioco facile ma complesso. Ti riassumo un po’ il tutto. Gli scacchi sono complessi perché nascono da elementi finiti ma infinitamente reiterabili (complessità del primo ordine) che rendono il gioco così ricco di possibilità che il calcolo e la nostra comprensione sono messe a dura prova (complessità del secondo ordine). Noi poi siamo esseri viventi e non automi e… meglio proprio così! Dobbiamo far fronte alle difficoltà del caso (complessità del terzo ordine o complessità meta-scacchistica).”
Signore simpatico: “Me la togli un’ultima curiosità?”
Caissa: “Quante ne vuoi. Dimmi pure.”
Signore simpatico: “Perché parli di complessità di primo e secondo ordine?”
Caissa: “Accidenti, ma allora ho parlato invano! La complessità del primo ordine ci dice soltanto perché ci sono tante cose diverse nel regno delle possibilità (vorremmo dire delle entità) mentre la complessità del secondo ordine ci parla della poliedricità delle conoscenze (vorremmo dire dell’epistemologia): l’una ci serve per capire cosa c’è, l’altra per conoscere ciò che ci serve!”
Signore simpatico: “Quant’è difficile!…”
Caissa: “Una grande verità! E se lo fossero meno, ci piacerebbero allo stesso modo?”
[1] Per vedere come questo sia possibile, ho scritto alcuni articoli reperibili nella rivista di Lucio Rosario Ragonese reperibile anche nel mio sito (www.scuolafilosofica.com) nei numeri: 26, 27, 28.
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