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Il filosofo non deve essere un politico, per Kant. A differenza che la visione platonica, la prospettiva kantiana integra il filosofo all’interno del problema politico non dall’interno ma dall’esterno. Il ruolo del filosofo deve essere quello di guida, di innovatore e chiarificatore delle idee del politico, il quale non dispone del tempo sufficiente per elaborare nuovi progetti e nuove ideologie politiche. L’argomento può essere riassunto in questi passi:
a. Gli uomini di stato sono interessati alla conoscenza delle massime morali sulla pace.
b. Gli uomini di stato abbisognano di conoscere le massime morali circa le condizioni che rendono possibile la pace interstatale e intrastatale.
c. Gli uomini di stato non hanno tempo per elaborare le risposte migliori.
d. Il giurista non si pone i problemi dello sviluppo del diritto ma lo utilizza esclusivamente in sede di amministrazione della giustizia.
Pertanto
e. Solamente i filosofi possono fornire le indicazioni su quali progetti politici sono in linea con lo scopo morale finale, che è quello della pace interstatale e intrastatale.
Il corollario del punto (e) è il seguente:
f. Il dibattito pubblico filosofico deve essere lasciato libero da intromissioni da parte della politica.
Il punto (a) stabilisce l’interesse morale del politico e il punto (c) stabilisce la principale limitazione del politico morale. Il punto (b) è una conseguenza del punto (a), laddove per rispettare (a) si richiede (b). Il punto (d), invece, stabilisce l’esclusione della categoria dei giuristi dagli individui della società capaci di fornire le risposte fissate dai punti (a-b). Sia detto di passaggio, che anche in altri punti Kant sottolinea il fatto che la categoria dei giuristi non sia altro che un’appendice dell’istituzione statuale che assume come ʽgiustoʼ ciò che è uno stato prevede nel codice legale sempliciter, il che, almeno nella prospettiva kantiana, è falso sia perché molto spesso i codici legali sono tutt’altro che coerenti e completi, sia perché essi non sono ancora sufficienti a garantire l’individuo dai soprusi dello stato e degli altri cittadini (questo era il caso, ad esempio, dell’amministrazione delle colonie già considerato). La conclusione a cui giunge Kant è, dunque, la (e), che richiede (f) per essere possibile. Infatti, negando (f) si nega anche la possibilità al filosofo di essere libero di trovare le soluzioni moralmente più corrette ai problemi della politica.
Kant sostiene esplicitamente che il filosofo non debba essere un politico, proprio perché, se lo fosse, allora cadrebbe la condizione di oggettività e libertà dalla quale deve partire per poter trovare le giuste soluzioni ai problemi politici a cui è sottoposto:
Non bisogna aspettarsi che i re filosofeggino o che i filosofi divengano re, e non c’è sempre da desiderarlo, perché l’esercizio del potere corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione. Ma che re o popoli sovrani (popoli cioè che si reggono sulle leggi dell’eguaglianza) non facciano scomparire o tacere la classe dei filosofi, e li lascino pubblicamente parlare, è indispensabile a entrambi per essere illuminati sui loro affari: perché questa classe, che per sua natura è immune da spirito fazioso e incapace di cospirare, non può venire sospettata di fare della propaganda.[1]
L’argomento è semplice. Il potere impone la costituzione e il riconoscimento di stati di interesse che impongono spinte psicologiche inevitabili e ineludibili all’animo umano che, così, risulta in difficoltà nell’attuazione delle leggi morali della ragione. Il filosofo non deve poter avere accesso al potere, proprio perché egli deve invece conoscere le leggi oggettive del comportamento morale che richiedono la sospensione di stati di interesse egoistici o individuali. Tuttavia, per fare questo, è indispensabile che il filosofo possa disporre di un libero dibattito pubblico che non sarà pericoloso per il sovrano, proprio perché al filosofo è precluso il potere. In questo senso, il fatto stesso che il filosofo non acceda al potere è garanzia duplice sia di disinteresse rispetto al giudizio sull’azione politica, sia rispetto al fatto che il dibattito pubblico necessario per l’elaborazione del giudizio non sia pericoloso per lo stato.
[1] Ivi., Cit., p. 81.
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