Il dodici dicembre di quest’anno era una domenica qualunque. A Milano faceva un freddo pungente, sebbene senza i picchi dei momenti peggiori. Eppure per nove scacchisti non fu una giornata come tutte le altre: stavano per andare in carcere, a Bollate. Si trattava di andare a sfidare alcuni ragazzi che avevano seguito un corso grazie agli istruttori dell’Accademia di Scacchi di Milano: Elia Mariano, Andrea Bracci e Francesco Gervasio.
Questa non era una manifestazione estemporanea e non era neppure un’iniziativa rapsodica, sebbene pur sempre importante. L’Accademia, infatti, ha stretto una collaborazione con l’organizzazione carceraria fin dal 2008 e si va consolidando nel tempo. Tutto iniziò da una richiesta di un giudice in pensione, Franco Cecconi, ex socio dell’Accademia. Egli faceva volontariato nel carcere tenendo lo sportello giuridico. Egli lavorava proprio nelle carceri e aveva sostenuto, non senza qualche fondamento, che se per mestiere aveva fatto di tutto per tenere i delinquenti al fresco, aveva, adesso, l’esigenza di fare qualcosa di buono per loro e, magari, di tirarli fuori.
Ritornando a quel pomeriggio uggioso di quel dodici dicembre, mi ricordo vividamente come ci fossero alcuni scacchisti che, come me d’altronde, non avevano mai visto un carcere se non nei classici film dai quali, com’è naturale, è del tutto impossibile farsi un’idea di quella che deve essere la vita dentro una prigione. Nell’aria c’era un po’ di emozione non senza una certa ansietà. Il carcere è un ambiente marginale, come gli obitori, i cimiteri, i sanatori, gli ospedali nei quali si entra in una dimensione atemporale, parallela. Sembra di accedere in altri mondi possibili paralleli, diversi dal nostro. E in me nascevano spontanee le domande: chi avrò di fronte a me? Cosa avrà fatto? Si meriterà il trattamento riservatogli? Tutte domande legittime ma che dovevano rimanere ancora per qualche minuto sospese, lasciate lì, in attesa di risposta.
Non ero mai stato in un carcere e, forse per questo, quest’esperienza mi ha mostrato qualcosa che vale la pena di raccontare per intero. Innanzi tutto, il carcere di Bollate al suo apparire sembra un palazzo normale, qualunque. O meglio, uno stabile di un quartiere popolare in pieno stile funzionalista anni sessanta. Un palazzone di cemento armato grigio dalle dimensioni ragguardevoli. Ciascuna finestra era un blocco a sé e questo si evinceva dalla squadratura tra un vano e l’altro, evidenziata da una scanalatura nel cemento. Tanti parallelepipedi sovrapposti, come un alveare dalle celle rettangolari. A primo impatto lasciava un po’ tristi. Entrammo nella prima guardiola, l’ingresso al recinto esterno. Dovemmo dare i nostri documenti. Non si entra in un carcere senza aver precedentemente chiesto tutti i permessi e senza aver dato un esaustivo elenco di tutto ciò che si deve portare. Non fummo perquisiti e, esaurito l’appello, ci condussero nel primo edificio, il primo dall’ingresso. Tra la guardiola e lo stabile c’erano duecento metri circa di strada rivestita di macadam grigio e un po’ vecchiotto con sassolini che s’infilavano tra le fessure delle scarpe. Tutto, quel giorno, aveva il colore del fumo pallido. Una volta entrati, fummo nuovamente controllati. Questa volta, verificarono tutto ciò che avevamo portato e se non ci fosse nessun oggetto nascosto tra quelle buste che contenevano qualche vivanda e le scacchiere. In carcere sono vietati i cellulari. Così si premurarono di ricordarcelo. I secondini erano persone tranquille e tolleranti ma perfettamente ligi a tutta la burocrazia. Esaurita la pratica, fummo condotti in un terzo edificio. Per arrivarvi, dovevamo oltrepassare un recinto fatto di cemento. Un muro cieco, alto almeno cinque metri di colore grigio, manco a dirlo, con filo spinato alla sommità e luci che davano sia dalla nostra parte che dall’altra. Oltrepassammo una porta spessa cinque centimetri, d’acciaio e con una finestrella molto piccola ad un altezza di circa un metro e mezzo. Tutte le porte del carcere erano fatte allo stesso modo, con lo stesso spessore e con lo stesso colore. Finalmente, entrammo nello stabile nel quale dovevamo giocare. Mi guardavo intorno per cercare di rendermi conto della grandezza e non ci sono riuscito. Era molto grande ma i muri ciechi e le finestre basse non consentivano di avere una visione d’insieme ma solo una serie di particolari. La monotonia del corridoio era notevole, soprattutto se si pensa che era lungo almeno cinquecento metri. Ogni poco c’erano dei bracci che andavano in altre direzioni, tutti a novanta gradi rispetto al corridoio principale. Eravamo scortati, altrimenti non saremmo mai giunti a destinazione: in carcere non si va in giro da soli perché ci vuole sempre una scorta. Ogni cento metri, in questo corridoio infinito, stavano delle guardiole, talune vuote mentre altre con i secondini che chiacchieravano del più e del meno. Ho contato una decina di guardie carcerarie e almeno tre guardiole. Ciò che più mi colpì del posto erano tre aspetti: il soffitto era basso, massimo due metri e mezzo; la luce era artificiale comunque; c’erano solo ed esclusivamente uomini. Lentamente cercai di immaginarmi come dovesse essere la vita in quel luogo e quanto poco dovesse essere edificante. La donna non è solo una femmina, ma è anche un universo di emozioni e sentimenti umani che, in sua assenza, diventano impensabili. Giungemmo a quello che, ci dissero, era il teatro: una stanza di venti metri quadri ma dal soffitto molto alto, con dei tavoli e sedie di plastica di color rosso scuro, da bar, sui quali avremmo posizionato le scacchiere. Ci dissero che in quel luogo tenevano rappresentazioni. Il carcere di Bollate è uno di quelli buoni, dove i detenuti vengono trattati umanamente.
Quando arrivammo non c’era ancora nessuno, così predisponemmo le scacchiere per giocare, mettemmo i libri portati per i “ragazzi” su un tavolo e facemmo lo stesso con le bibite.
Incominciarono ad arrivare e, dopo qualche minuto di studio reciproco, ci mettemmo a giocare. Ciò che mi colpì più di tutto dei nostri avversari era la loro dignità. Sembravano consapevoli della loro colpa ma non per questo apparivano in soggezione. E si vedeva che erano contenti di giocare con noi: per loro era un’occasione per avere contatto con quel mondo esterno che alcuni di loro possono vedere solo due volte al mese. Dopo alcune partite di riscaldamento, iniziammo il torneo vero e proprio: due partite, una col bianco e una col nero. Il mio avversario giocò bene, ma si ritrovò ad avere la peggio. Aveva trent’anni ed era albanese. Mi domandai come si doveva sentire una persona di trent’anni, pochi più di me, lontano da casa sua e, per di più, in carcere. Gli albanesi sono uomini, fino a prova contraria. D’altra parte, se era lì qualcosa doveva aver fatto e più di una volta stavo per chiedergli cosa, ma il mio senso del buon gusto mi fece desistere.
Divertente fu la mia scappata al bagno: anche la toilette aveva porte di acciaio di dimensioni ragguardevoli, tutto bianco e senza finestre. Mi domandai subito quanto potesse essere frequentato quel locale, visto che, in realtà, era lontano dai luoghi abitualmente frequentati dai carcerati, più che per lo spazio, per la burocrazia carceraria. Come si fa, in genere, in questi casi guardai di fronte a me e lessi il cartello: “Onde evitare il noto effetto Venezia si prega i gentili signori di fare centro nel buco. Grazie!” Tutta questa ironia nel bagno di un carcere non ce la si aspetta! Confesserò che mi misi a ridere da solo!
Concludemmo la manifestazione con un brindisi generale e con tutta l’allegria disponibile.
Ritornato alla realtà, non ho potuto fare a meno di domandarmi quanti che parlano di prigioni abbiano anche solo una pallida idea dei sentimenti che si possono provare una volta dentro. Forse, dovremmo tutti entrare almeno una volta in un carcere, forse si risparmierebbero tante stupidaggini.
Ma nella malinconia dei miei sentimenti fui contento di aver giocato con quei ragazzi al più bel gioco che l’essere umano abbia mai inventato, gli scacchi. Una sfida senza sangue, una guerra senza odio, l’unico scontro che invece di dividere unisce. Un gioco capace di far comunicare due cervelli senza bisogno di parole, discussioni o altro, un gioco fantastico che ha il più bel motto del mondo, gens una sumus: siamo tutti una stessa gente.
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