Pubblico la mia risposta a Marco Mozzoni, “0/1”, BrainFactor, 27/5/2013 riflessione apparsa su Brainfactor.it
Siamo veramente immersi in una realtà percepita, da noi – tutti (?), secondo categorie dicotomiche? Sicché nel confrontarci, ad esempio, con il disagio mentale saremmo costretti ad intendere i fenomeni solamente come anormali o normali, le persone come malate o sane? Soprattutto, è vero che «non accettiamo più di confrontarci con le sfumature dell’esperienza vitale»?
Non è secondario osservare come non sembra esserci stato un tempo in cui l’uomo, di fatto, abbia «accettato di confrontarsi con le sfumature dell’esperienza vitale». E se c’è stato, esso è il tempo stesso della Storia dell’uomo, presa nel suo complesso. Come a dire: da sempre e comunque l’uomo si confronta con le sfumature della sua esistenza. Cosa? Forse si intende che l’uomo non ha mai dato ascolto alla profondità della sua esperienza, alle supposte questioni di senso, alle delicate dinamiche della propria psiche e del proprio cuore?
Se è così sarebbe comunque assurdo negare che l’uomo, accanto alla sua evoluzione culturale e civile, non ha sviluppato sempre maggiore sensibilità per le dinamiche emotive, razionali e, in genere, mentali. Non solo abbiamo avuto un progresso materiale, ma, accanto ad esso e grazie ad esso, un progresso nella sensibilità e accuratezza della percezione di noi stessi. Ma la storia della conoscenza, e della scienza, non è forse la storia dell’affinamento dei sistemi classificatori?
Noi volgiamo lo sguardo ovunque ma ancora non vediamo dov’è il trauma originario dell’introduzione delle dicotomie … cosa vediamo invece? Vediamo uno stesso pensiero che senza soluzione di continuità passa da uno stadio in cui classifica rozzamente ad uno stadio in cui classifica finemente. Vediamo un processo di affinamento dello strumento classificatorio. Se la vista non ci inganna dunque dovremmo, oggi, a rigore, essere in grado di percepire maggiormente le sfumature (e, ben inteso, ogni tipo di sfumatura, perché non esistono veri contenuti anomali della conoscenza, ma solo strumenti di conoscenza anomali) rispetto al passato.
In questa prospettiva, quale valore può avere l’operazione di recupero della supposta saggezza e dell’atteggiamento verso il mondo dello sciamano, ad esempio? Possiamo veramente pensare che la parola o il gesto dello sciamanico siano qualcosa di più dell’espressione di un pensiero primitivo, limitato, estremamente vago, possibilmente illusorio ed errato (pervaso di idoli nel senso baconiano)?
L’uomo oggi può dedicarsi agli stessi problemi (poniamo, esistenziali) di cui si occupava lo sciamano. Quale sarà la differenza nei due casi? Cosa ci divide nel pensiero da uno sciamano? Vogliamo credere veramente ad un passato dal pensiero «fluido»? Oppure vogliamo riconoscere che l’uomo contemporaneo ha la possibilità di fruire di strumenti concettuali di precisione, di discernere e classificare con più rigore, di rifiutare con onestà le ipocrisie del pensiero, di ragionare con maggiore libertà rispetto ai condizionamenti dell’ignoranza sulle cause dei fenomeni (come la paura del pensiero «empio»)?
Vogliamo veramente farci piccoli di fronte ai nostri stessi strumenti? O piuttosto assumere la statura che ci spetta? Senz’altro da nani se confrontata a quella che immagina la nostra ambizione. E piccola in particolare se, per un momento, consideriamo, ad esempio, la nostra difficoltà nel porci in maniera critica e libera di fronte all’interpretazione morale … Questi strumenti che fanno grande e pulito il pensiero dell’uomo contemporaneo sono, per lo più, gli strumenti della scienza. Che bisogno c’è di rendere responsabile di alcunché questa nobile attività umana?
Semmai si può dire che essa, nel tempo, ha causato (e non: si è resa responsabile), in occidente, fiorenti condizioni di vita, sviluppando la capacità tecnica dell’uomo. Essa ha classificato, diviso e suddiviso, specificato, chiarito, ridotto teorie ad altre più comprensive esatte e potenti, chiarito pensieri vaghi strutturandoli e rendendoli comprensibili, e così via … – ha, per altro, lasciato alla sensibilità del singolo molte questioni, quelle che tradizionalmente (ma forse a torto) sono dette le più «profonde».
Di sicuro ha insegnato all’uomo il reale valore della verità, del rigore, della chiarezza e dell’onestà – questo sul piano dei valori, ma anche sul piano della pratica. Ha insegnato all’uomo a pensare meglio, a fare, innanzitutto, chiarezza e ordine, a fondare il proprio pensiero su basi stabili e a capire con rigore di che cosa si sta parlando. È evidente che il pensiero dicotomico può rappresentare una vera piaga per la comprensione della realtà e di noi stessi – infine un ostacolo per la migliore azione.
Cosa, per altro, non può non rappresentare una piaga per qualcos’altro? E tuttavia il potenziale di rischio è reale … ma quali alternative esisterebbero? Non dovrebbe renderci cauti nel ragionare il riconoscimento del fatto che, quell’insieme da cui si vorrebbe far provenire l’inclinazione manichea, è – fuori da ogni serio dubbio – una della maggiori se non la maggiore conquista dell’uomo moderno e contemporaneo: la scienza? E che l’inclinazione manichea è una considerevole parte dell’approccio metodologico di quell’insieme?
Insomma, senza la posizione di valore, da parte della modernità, sulla conoscenza oggettiva, su procedimenti conoscitivi affidabili empiricamente, sulle categorie e divisioni fondate, sull’analisi rigorosa delle parti e dei livelli sempre più microscopici (ma anche macro), ora saremmo ancora uomini che bruciano streghe e che teorizzano sulla chimica del flogisto … invece che, sia pure, «dicotomizzatori», «malati manichei scientisti» fiduciosi dell’apporto benefico del farmaco e del manuale diagnostico nella cura della persona.
Che senso avrebbe perdersi o fermarsi nella «liquidità dell’esperienza vitale»? E innanzitutto, è veramente possibile? Sembrerebbe di no, poiché un’operazione simile non avrebbe che la forma di un ritorno al primitivo, all’indistinto, al vago e alla parte animale che è in noi. Pensiamo ancora che l’indistinto perché indistinto, l’incomprensibile perché incomprensibile, il trascendente perché trascendente, il Tutto perché Tutto siano da preferire al loro contrario?
Ma poi, lo Spirito del tempo è quello che è. Non ha senso fargli il processo. Piuttosto, chi ragiona sul suo tempo, da una parte, non può permettersi l’abbandono a sentimenti nostalgici verso epoche d’oro; dall’altra, deve costruire, inattualmente. È il tempo del futuro che dobbiamo incominciare a leggere sui testi di riflessione del presente.
Nessuno ha paura di affrontare l’ignoto. Proprio come nessuno ha perso qualche supposta «dimensione originaria dell’esistenza» o «approccio autentico verso se stesso» … queste sono formule menzognere. Denotano illusioni, apparenze che sorgono, in molti casi, da un ragionare con, nel cuore, la nostalgia verso un pensiero che viene tanto più riconosciuto nella sua dimensione di libertà, liquidità e apertura, quando misconosciuto nella sua realtà primitiva, rozza, paurosa e stupida. Possiamo non riconoscerla ma questa è la verità. Dobbiamo dire di più. Poiché non sembra affatto che abbiamo perso con la stupidità e la rozzezza (se mai l’abbiamo persa) anche la possibilità di intenderci concettualmente in spazi aperti.
Il punto è che siamo diventati più critici e consapevoli. Non se ne faccia una colpa alla consapevolezza e si parta, piuttosto, con l’accettazione di questo fondo a poco a poco sedimentato, per cercare di costruire, sulle sue basi (quali altri basi ci sono veramente date oggi?) nella direzione che desideriamo. E se, infine, così procedendo, ci si troverà di fronte alla scelta obbligata di eliminare come illusoria la pretesa di concepirsi in spazi aperti, di concepirsi uomini liberi e responsabili … allora coraggio, lo si farà, e tanto peggio per gli immaturi pensieri.
La propensione a comprendere quello che ci accade è senz’altro naturale, così come il desiderio di sviluppare nuove e migliori forme di conoscenza. Dobbiamo però sapere che quello che abbiamo veramente non è una contrapposizione tra forme conoscitive analogiche e forme conoscitive digitali, ma, semplicemente, un lento passaggio da forme ancora rozzamente digitali e forme più finemente digitali. La storia della cono(scienza) è questo passaggio.
Oggi possediamo manuali diagnostici in continuo aggiornamento (poiché, in essi, nessuno ritiene di trovare la verità assoluta): un tempo avevamo classificazioni primitive che sul piano pratico incontravano l’insuccesso. D’altra parte, quale chiara comprensione possiamo avere di noi stessi e dell’altro se non all’interno di schemi, modelli e categorie? Pensiamo veramente di poter ogni volta conoscere da capo? Di poter rinunciare a ragionamenti che distinguono, oppongono, deducono, astraggono, generalizzano e classificano?
Quale destino accoglierebbe un pensiero che rinunciasse all’ausilio delle tecniche di classificazione e analisi sviluppate nel tempo della crescita dell’uomo? Noi vediamo una sterile ed ambigua ripetizione di un pensiero primitivo che ancora non dice nulla, che preferisce i gesti e i balbettii dell’infante al rischio dell’affronto della complessità linguistica, ormai nata quando l’innocenza è persa.
E nella quotidianità, abbiamo veramente necessità di fare esperienza di noi stessi più di quanto già non si faccia? E’ possibile prescrivere in questo senso? Tutti i giorni molte persone (come chi scrive) fanno «esperienza dell’umano, in tutta la sua ricchezza», o povertà. Oppure si vuol far credere che la ricchezza sia da individuare nelle oscurità della nostra esperienza? E perché? Che ricchezza da talpe sarebbe?
Sono in molti coloro che hanno consapevolezza di risiedere da qualche parte tra lo 0 e l’1, tra la normalità e l’anormalità. Questi concetti stanno stretti ad ognuno, questo è evidente. Ma i più non hanno alcun problema ad essere categorizzati come normali (seppur con tutte le specificazioni del caso e dei contesti) se questo è (ed è) utile al sistema sanitario che prende in cura (oggi come non mai nella Storia dell’uomo) la malattia mentale di un insieme vastissimo di individui.
Il giorno in cui, poi, si dovesse percepire in sé l’anormalità, quale preoccupazione aggiunta dovrebbe sorgere per il fatto di pensarsi secondo categorie binarie, logiche rozze e meccaniche? Non siamo forse consapevoli che l’alternativa (quella del passato, quella del «non siamo più») non è una onnicomprensione intuitiva del proprio problema e delle dinamiche che l’hanno causato, bensì una categorizzazione precedente e ancora più rozza?
Ci si rivolge allo psicologo per un verso criticamente, proprio in virtù del fatto che egli possiede una conoscenza ancora troppo limitata, ma per un altro, a ragione, con la prospettiva di chi chiede di demandare ad un terzo le questioni su cui sente di non poter usufruire di tutta quella strumentazione tecnica e di quel sapere teorico e pratico che lo psicologo, prima di tutti, ha ereditata dalla tradizione. E se parte della strumentazione dello psicologo consiste nell’insegnare al paziente a fare maggiore affidamento sulle proprie forze, ebbene, qui siamo già perfettamente all’interno di una dinamica di cura?
Che fine fa lo sciamano allora? Giustamente lo si va «a vedere da turisti», come forse, tra qualche secolo, ci si incuriosirà alla vista dello psicologo. E cosa sarà se non il residuo di pensiero analogico a proiettare la figura dello psicologo sui programmi turistici del futuro? Tant’è, notiamo una crescente sparizione dell’analogico, e il nostro sguardo rimane sereno. Non certo perché si sia deciso a priori che l’analogico sia da rifiutare, piuttosto perché osserviamo una tendenza (che, nel complesso, si rivela positiva) a sviluppare spiegazioni digitali in grado di ridurre o (eventualmente) eliminare le spiegazioni analogiche, e, con esse, l’ontologia analogica.
Nel peggiore dei casi, con il linguaggio analogico spariranno gli (pseudo)problemi intimamente legati ad esso … e l’uomo non avrà ceduto alcuna parte fondamentale di sé, non avrà perso nulla, semmai avrà portato a compimento una sana ristrutturazione della sua comprensione all’interno di categorie maggiormente stabili e precise. La cifra dell’«autentico» non è persa poiché non esiste qualcosa di autentico.
Che una cosa sia autentica è di per sé un inganno, o, per esprimersi più sobriamente, una questione di interpretazione. «Autentico» potrebbe persino solamente nominare l’oggetto di un certo malessere legato a questioni vaghe e ombrose le quali faticano a trovare una qualche risoluzione o soddisfazione … la prescrizione dell’autentico come la confusa prescrizione di qualcosa che risiede oltre l’afferrabile.
Così, per riprendere gli ultimi commenti di Mozzoni sull’abbandono per paura della libertà e, dunque, della responsabilità, basti qualche nota finale in grado di allargare un po’ il raggio della discussione e, dunque, renderla più serena. Non crediamo possa essere, in questo caso, la paura a far sì che si «ceda il timone della nave», semmai il coraggio.
Per stare ancora all’immagine, l’uomo timoroso rimane attaccato al timone e, come di pietra, può rischiare di schiantare la nave, mentre l’uomo coraggioso abbandona il timone per salire sull’albero e respirare la tersa aria del mare che avanza … e oggi (ma forse dire «oggi» è ancora prematuro) avanza la liberazione dai vecchi concetti metafisici … davvero ancora pensiamo che l’uomo, valorosamente supportato dall’indagine scientifica, e semmai coraggioso abbastanza da abbandonare ai musei del pensiero le idee di libertà e responsabilità, diverrà, per questo, schiavo e irresponsabile?
Davvero pensiamo che questo tipo di interpretazione abbia qualche influenza sul comportamento umano? Anche se nella sua forma immatura rischia senz’altro di esserlo, la liberazione dall’interpretazione morale non sembra, necessariamente, dover implicare l’immoralità … se non altro da un punto di vista logico. Noi sentiamo (e qui il riferimento alla riflessione di Nietzsche è chiaro) tutta la forza di un essere che sappia vivere senza la cattiva coscienza imposta sulle azioni e sui pensieri, privo del bisogno di ascrivere responsabilità e libertà.
Un uomo che viva la libertà come qualcosa che egli stesso pone perché la sua stessa vita lo spinge a farlo. Esattamente l’opposto di un uomo che demanda agli altri il compito di gestirlo. Però un uomo che allo stesso tempo osserva con serenità la tragicità dell’esistenza – l’assenza di libertà e responsabilità. D’altra parte se fosse un uomo che demanda agli altri non potrebbe essere veramente fuori dal regno della libertà e della responsabilità.
Essere fuori da tale regno significa assumere sé stessi a centro interpretativo. Porsi in quanto creatori di sé stessi. Per esprimerci impropriamente: liberi fin sopra la libertà. Cosa dobbiamo temere dell’evento (che, per altro, se si dovesse dare, si darebbe in modo necessario) dell’abbandono (radicale) delle instabili e illusorie categorie tradizionali con cui pensiamo noi stessi e il nostro agire? Non c’è, in vista, «nessun sospiro di sollievo», piuttosto un respirare all’aria aperta.
La scienza può veramente essere protagonista di questa liberazione … in particolare se saprà andare sino in fondo e trarre con tutta l’onesta che le è propria (eventuali) conclusioni di tipo eliminativistico. Che dire di quell’uomo che potendo fare da sé si rivolge agli altri (psicologi, istituti, ecc.)? Dovremmo preoccuparci di esso? Dovremmo polemizzare con esso?
O, forse, dovremmo pensare che presto sarà dimenticato e detto necessario dai filosofi del futuro (o chi, per loro, saprà riflettere), a cui spetterà il compito di razionalizzare questo nostro passato? Necessario come forma distorta, nel singolo, di una tendenza complessiva che, come crediamo di vedere correttamente, porterà ad una delle liberazioni più salutari e rivoluzionarie di sempre, per il beneficio di tutti quegli uomini del futuro – uomini indulgenti nei confronti dei loro simili e dei loro dissimili nel passato.
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