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Alle prime ore del 30 agosto del 2010 qualcosa è cambiato nel mondo fisico. Il cambiamento è stato, per così dire, impalpabile. Un fatto può sussistere o non sussistere e il resto rimanere uguale. E questo è stato indubbiamente vero per quasi tutto il genere umano. Perché quanto può contare la vita di tre persone rispetto agli altri 7.146.999.997 esseri umani? Per fortuna, ben poco. Per fortuna, perché ogni tre secondi muore un uomo. Che aveva una sua vita, una sua storia e qualcuno che gli voleva bene. Ci dicono che l’entropia dimostra che il mondo va verso una direzione e che non torna indietro. Senza arrivare alle leggi della termodinamica, anche la morte ci dice la stessa cosa. Perché nessuno è tornato indietro per dirci com’è dall’altra parte, sempre ammesso che ci sia questa “altra parte”: questione di gusto, sulla quale non ci vogliamo dilungare.
Il 30 agosto del 2010 è morto Enrico Pili, che era un uomo che sapeva giocare a scacchi. Egli iniziò a giocare da ragazzo, con una scacchiera in legno di non eccezionali dimensioni, la quale ha diversi sbreghi. Soprattutto, oggi i pezzi sono meno di 32, perché la sua improvvida prole, in tempi non sospetti, aveva “mangiato” un paio di pedoni, che si andavano a sommare a quello che Enrico perse per delle ragioni imponderabili in tempi remoti.
Enrico nacque nel 1951, anno luminoso, se si pensa che senza di esso alcuni esseri umani del 1986 e del 1991 non avrebbero mai visto la luce: non si può sapere che figlio avrai, ma il figlio non potrà avere alcun altro padre. Per il padre il figlio è una possibilità, per il figlio il padre è una certezza. Una certezza solo sul piano biologico e logico, le uniche pensabili in questo universo assai fragile. Ad ogni modo, Enrico si approcciò agli scacchi da giovane e giocò nel suo paese, Sestu, contro avversari di diverso genere. Non campioni del mondo. Ma avversari. Come simpaticamente ricorda un onesto e bravo lavoratore delle poste, il Pili lo batteva sempre. Il suo amore per gli scacchi fu sufficiente a impartire i rudimenti anche alla moglie, Giuseppina, la quale, volente o nolente (ma per amore, cosa non si fa? E chi è in grado di capire cosa si fa veramente volentieri per sé rispetto a quello che si fa comunque volentieri per l’altro?) imparò a giocare sufficientemente bene per battere una volta Enrico. Questo episodio non sarebbe degno di ricordo per alcuno, a parte per chi giocò quella partita, se non perché consente di sottolineare uno degli aspetti del carattere o, se vogliamo, della moralità di Enrico: piuttosto si sarebbe fatto torturare, ma non avrebbe mai dato vinta una partita all’avversario, per il solo fatto che costui ne sarebbe stato contento, anche a chi, magari, sarebbe stato felice di batterlo.
Enrico Pili non era un amante della gerarchia in tutti i sensi, e ha dato buona prova di sé anche quando, casualmente, ne ha fatto parte. Si può dire, che egli fosse nel cuore un romantico e nella testa un illuminista. Egli era continuamente in lotta tra queste due aspirazioni fondamentali, le quali lo guidavano in modo conflittuale in quel mondo che non ammette indecisioni. Da illuminista, infatti, era un anticlericale. Da romantico non era capace di dimenticare che di fronte a sé ci stava pur sempre una persona. Da illuminista predicava la ragione, da romantico viveva le emozioni. Egli amava la ragione, più che esercitarla. Il che lo rendeva un uomo ragionevole, che non è esattamente la stessa cosa di “uomo razionale”. Egli amava l’umanità, ma non sempre la capiva. Soprattutto perché egli era un ottimista metafisico. A cinquant’anni poteva stupirsi del fatto che gli uomini si vendono per cinque euro, e che buttano la loro vita per un pugno di letame o che svendono la madre per un po’ di aranciata. Queste ovvietà quotidiane rimanevano spesso inattingibili, per lui, perché, come un novello Oliver Twist adulto, prima di tutto veniva il bene. Poi tutto il resto.
Gli scacchi furono per lui uno specchio e un fedele compagno di viaggio. Da specchio riflettevano molto del suo carattere nel suo gioco: egli prediligeva il gioco aperto, non necessariamente tattico e tendeva a scambiare i pezzi ogni qualvolta era possibile. Era convinto, infatti, che i problemi andavano risolti semplificando, anche quando nella semplificazione si perdeva qualcosa: a differenza di quanto predicava Botvinnik, in un libro che pure possedeva, Enrico credeva fermamente nel principio della semplificazione. Si guadagnava in chiarezza. Secondo lui. Ripeteva sempre che tutto dovrebbe essere spiegato in modo che anche un bambino di sei anni potesse capirlo. Forse più di tutto il resto questo mostra il suo intrinseco, ineliminabile, bonario idealismo. Comunque, a scacchi apriva sempre 1.e4 e, come disse spesso, l’ultima volta ad un torneo lampo organizzato a Siena, contro il carissimo Maestro Alessandro Patelli, non amava giocare 1.d4 sia da bianco che da nero. In generale, non gli piaceva il gioco chiuso, appunto, perché troppo contorto. Il suo pezzo preferito era l’alfiere. Egli era come tutti noi: un giocatore che giocava prima di tutto con il suo carattere e secondo esso.
Venne la volta del militare. E anche in quell’occasione gli scacchi gli furono preziosi. Come detto, Enrico non amava la gerarchia. E neanche fare il militare. La gerarchia militare, poi, non è composta generalmente da uomini che amano scendere a compromessi, soprattutto con un soldato semplice o neanche. Sicché una volta, rischiando di finire in cella di rigore per l’ennesima volta e forse l’ultima (e passare guai più importanti), si salvò grazie agli scacchi: di fronte al graduato giudice si scoprì che Enrico stava organizzando un torneo di scacchi, sicché gli fu accordata l’amnistia, grazie al fatto che il graduato era sensibile a tale argomento. I miracoli degli scacchi!
Il suo giocatore preferito, con il quale amava insegnare gli scacchi anche agli altri, era Capablanca. Comprò il memorabile libro del maestro cubano La mia carriera scacchistica, che tutt’ora occupa un posto di rilievo nella libreria di famiglia. Il suo amore privilegiato per il cubano si spiega bene, in fondo. Come Capablanca amava giocare in modo semplice e cristallino, anche a Enrico così piaceva affrontare i problemi. In secondo luogo, Enrico ammirava la genialità negli uomini, anche quando questa era evidentemente molto più grande di lui. Ci sono uomini che vivono male il loro rapporto con gli altri esseri più dotati di loro. Ad alcuni non interessa minimamente, perché temono di scoprire tutte le loro manchevolezze. Che, in questi casi, non sono trascurabili. Altri disprezzano e ammirano malignamente coloro che li sovrastano, non riuscendo bene a capire perché in loro c’è qualcosa che non funziona. Altri ancora nutrono un senso di gioia infantile a vedere qualcuno risolvere un’equazione di cui non verrebbero mai a capo neanche in un tempo infinito. Enrico era uno di questi e in Capablanca vedeva il campione che lui non sarebbe mai stato. Non che lo desiderasse. Ma neanche desiderava essere Conrad, Beethoven o Kubrick. E ciò nonostante li apprezzava e riconosceva la loro grandezza come un bambino riconosce la maggiore forza del padre. E a differenza di altri, lui sapeva accettare questa diversità. Per questo si giustificano simili asserzioni pubbliche: “Compagne e Compagni, lavorando con coerenza, umiltà e la serenità così meravigliosamente trasmessaci da Mozart, certi sogni possono divenire realtà”.[1]
Disputò diversi tornei in Sardegna e, probabilmente, la sua unica “trasferta scacchistica” fu proprio quella volta a Siena. Dei tornei in Sardegna vale la pena ricordare i due principali, di cui si gloriava sempre. E’ un peccato che di questi tornei non si trovi traccia, ma risalgono ai tempi precomputer e preinternet e, forse, preELO. Ad ogni modo, Enrico disputò un grande torneo, e doveva giocare l’ultima partita contro un bambino. Se avesse vinto, avrebbe conquistato il primo posto e avrebbe ottenuto il primato nel torneo. Come vide il suo avversario, un infante di appena una decina di anni, se li aveva, pensò “ah, non sarà difficile. Mi aspettavo peggio”. E riconobbe lui stesso l’errore, il pregiudizio di tanti che vorrebbero i bambini degli scemi, fatto che non sarà estraneo ai giocatori da torneo… Ad ogni modo, perse in una ventina di mosse. Terminando la partita, strinse la mano all’avversario e si complimentò, dicendogli (così raccontava sempre): “Diventerai forte. Bravissimo!” Il bambino era Gianlazzaro Sanna, indimenticato campione sardo. Anche questo episodio mostra un po’ di quello che era Enrico Pili: quanti di noi avrebbero così sportivamente ammesso la propria inferiorità ad un bambino che ci aveva appena battuti, privandoci del primo posto del torneo?
Il secondo episodio lo vedeva giocare in un torneo contro un avversario particolare: costui era americano e lavorava ad una delle tante basi NATO (o che vengono usate abitualmente dagli USA a prescindere…) in Sardegna. Enrico, così mi disse, non sentiva più la voglia di combattere e perse velocemente un pezzo. Così il suo avversario dichiarò impudentemente: “Voi italiani sarete sempre dei giocatori mediocri”. Al che, la volontà di sangue di Enrico si riaccese e, dopo alterni momenti di gioco, riuscì a strappare la patta. Egli non era un combattente, non avrebbe potuto uccidere un indifeso anche qualora ciò avrebbe comportato la sua sopravvivenza. Sarebbe morto di fame, piuttosto. Ed è curioso, se vogliamo, che egli si sia dato anima e corpo in attività sociali dove, non solo in Italia, trionfa solo chi è determinato a vincere anche a costo di asfaltare con un carro armato gli esseri più pacifici del mondo. Questo si evinceva anche a scacchi. Egli avrebbe fatto rigiocare cento volte la mossa, anche quando, alla centesima, avrebbe potuto dare matto in una. Quando giocava lampo, finiva sempre per continuare a giocare anche a tempo terminato. Lui amava dire: “Nella giungla si dice spesso che bisogna fare come i leoni, perché la gazzella non può che scappare. Ma nella foresta non ci sono solo i leoni, giaguari e gazzelle. Ci sono anche i rinoceronti, che sanno difendersi”. Aggiungiamo, a chiosa, che i leoni e i giaguari sono una razza sopravvalutata in campo umano, laddove in genere sono assai meno e molto meno in carne che le loro controparti erbivore. A iniziare proprio dalle gazzelle! Il che dovrebbe insegnare a tutti qualcosa.
Comprava continuamente libri di scacchi. Non sugli scacchi, come qualcuno denuncia sprezzantemente. La mania di immettere nel mondo materiale che non illustra sequenze interminabili di varianti. Aveva comprato diversi libri della bellissima collana della Prisma (mi pare) sui campioni del mondo, due libri di studi di tattica, una monografia sulle aperture, il meraviglioso Chicco-Rosina e una mole di altri lavori. Aveva procurato anche alcuni lavori sugli scacchi, come La variante di Lüneburg, Il re degli scacchi, La tavola fiamminga. Ma fu in particolare il romanzo di fantascienza, La scacchiera di John Brunner a destare la sua curiosità e a determinare, per ciò, una curiosa vicenda. Enrico aveva sentito parlare di un libro leggendario di fantascienza nel quale in uno stato immaginario dell’America latina, l’Aguazul, ogni persona svolgeva, a sua insaputa, il ruolo di un pezzo degli scacchi. Per questa ragione, decise di andare a cercare il volume in libreria. Ma non era più in deposito e non si ristampava da qualche decennio. Così si spinse oltre il suo orizzonte usuale e andò dritto dritto in biblioteca ma nessuno aveva mai sentito parlare di questo tomo. Ne parlò con alcuni altri amici, appassionati di scacchi o di fantascienza, ma nessuno fu capace di dare soddisfazione alla sua curiosità, se non con qualche ulteriore aneddoto. Alla fine, decise di partecipare ad una nota trasmissione di Radio tre Fahrenheit, nella quale i lettori dei libri più impensabili venivano messi a contatto con persone che cercavano tomi introvabili. Mio padre provò. Fu un giorno strano, quello. Arrivò la telefonata dello speaker radio e, alla fine, un gentile signore inviò il libro a Enrico. I due ebbero modo di incontrarsi. Ciò avvenne nel 2007.
Aveva una famiglia, un lavoro e una marea di cose da sbrigare. Era una di quelle persone che incominciava ad angosciarsi a star ferma e che si intristiva a vedere il frigo vuoto. Ma in questo continuo dinamismo pratico gli scacchi venivano sempre più sacrificati. Non del tutto. Si diede anche al gioco per corrispondenza con alterne fortune. Ed è grazie al gentilissimo Pasquale Colucci, coadiuvato dal suo staff dell’ASIGC, che abbiamo l’unica partita conservata di Enrico Pili, partita che riporteremo più oltre e per la quale ringrazio vivamente Pasquale (anche a nome degli altri familiari di Enrico). Ad ogni modo, quando ancora si giocava con le cartoline e i computer non erano di molto aiuto (basti vedere la partita per rendersene conto), egli trovò ancora una volta modo di fare amicizia con il giocatore dall’altra parte, un ex brigatista rosso in prigione. Quante probabilità c’erano? Un uomo dentro a un carcere, dietro le sbarre, costretto all’isolamento, riusciva a spedire una cartolina oltre il muro, oltre le sbarre e trovare un altro uomo, disposto a scrivergli, a dialogare con lui. Le vie della vita sono davvero infinite, quelle del Signore sono finite da tempo (come recita il titolo di un film…). In Italia lo sappiamo.
Enrico, talvolta, si ritrovava a portare il primo figlio al lavoro. E questo comportava dovergli far fare qualcosa. Come tanti padri prima di lui, e dopo di lui, si poneva il problema di trovargli un passatempo, per non disturbarlo troppo con l’ossessionante domanda “Babbo, quando andiamo?” Ma aveva provvidenzialmente già provveduto a insegnare a giocare a scacchi al pargolo, sicché il gioco era fatto: nel computer era installato il modernissimo Fritz 3, già più che in grado di far sentire un inetto proprio quel figlio che, comunque, non si era dimostrato un Capablanca, che, com’è noto, aveva sconfitto il padre in tenera età. Peccato.
Convinto, però, che magari qualche altro giovane Capa esistesse per il mondo, persuaso che la vita dell’uomo è priva di sostanza se non si condivide ciò che la vita offre di buono, Enrico prese la decisione di insegnare gli scacchi nella scuola di quel figlio incapace di battere Fritz 3, una scuola elementare. Non era una questione così semplice. Innanzi tutto, non esistevano i libri meravigliosi per apprendere come insegnare gli scacchi ai giovani e più giovani (lacuna che è stata recentemente colmata con A scuola con i Re). Né esistevano manuali didattici idonei ai più giovani, a differenza di oggi, giacché, grazie alle fatiche dell’amico Carlo Alberto Cavazzoni, disponiamo di lavori eccellenti. Ne esistevano, però, in lingua inglese, non pienamente padroneggiata da Enrico, che, comunque, si prese la briga di imparare caparbiamente grazie ai corsi Follow me e una buona dose di Beatles. Ad ogni modo, ordinò dei bellissimi libri, purtroppo perduti, in inglese. Aveva fatto comprare delle scacchiere in carta, con i pezzi in plastica che, grazie alla lungimiranza della scuola, furono accantonate non’appena Enrico terminò. Attività di insegnamento che durò per quattro anni. Nonostante non fosse né tenuto né pagato, né molto sostenuto da organizzazioni, egli non solo tenne i corsi di scacchi, ma organizzò le tanto temute partite di scacchi dal vivo, nel quale il figlio veniva costretto ad infilarsi un’imbarazzante calzamaglia bianca di cui ricorda ancora la scomodità. Né bastò affidargli il ruolo del cavallo, cavallo che dava matto (credo che si trattasse del matto di Legal), per non farlo borbottare sul fatto che egli non fosse il re. Ma Enrico non l’avrebbe mai fatto: la corona quel cavallo, se la voleva, se la sarebbe dovuta conquistare con i suoi mezzi, come quelle partite giocate che, se proprio avesse voluto vincere, se le sarebbe giocate sul serio.
Mossa dopo mossa, i tempi passavano, così le vicissitudini di una vita e Enrico abbandonò il lavoro per uno nuovo. E fu l’occasione per intraprendere una delle ultime sue grandi avventure: la scrittura. Nel frattempo, internet aveva iniziato a muovere i suoi primi pezzi, e Enrico si trovò, così, a confrontarsi con il nuovo mezzo: dal 2005 al 30.08.2010 giocò sull’indimenticato Scacchisti ben 11080 partite giungendo ad avere un punteggio ELO di Scacchisti di medio livello. Si critica tanto internet, ma un padre non avrebbe mai potuto giocare con il figlio una lampo serale senza di esso, se il figlio, per conclamate ragioni di studio e libertà, si trova a Siena o a Milano. Ogni tanto, infatti, capitava che tra i due ci fosse qualche accanita schermaglia, il cui livello emotivo è conosciuto da tutti i figli e da tutti i padri, rare partite in cui tutti hanno da perderci la faccia anche in caso di patta!
Fu nell’ultimo periodo che Enrico prese coscienza di tante cose tutte insieme. La prima delle quali fu che la società e la socialità, così come le concepiva lui, forse non erano mai esistite. E probabilmente non esisteranno mai. Non purtroppo per lui. Purtroppo per noi. Ma la vita è anche questo. Sicché iniziò ben presto ad accorgersi che il ruolo di una pagina bianca è ben più elevato di quanto possa apparire ad un uomo che ha avuto un rapporto con la cultura di ammirazione e contemplazione ma senza sporcarsi le mani producendola in prima persona. Come uno scacchista di primo livello non ha sempre grande dimestichezza con le difficoltà della didattica, così un uomo pratico ha sempre una predilezione per l’azione rispetto alla dottrina. Enrico stesso, infatti, riconosceva, durante la discussione di laurea triennale del figlio, che egli non aveva lo stesso amore del figlio per il ragionamento astratto. Ma se anche non l’avesse detto, non ce n’era bisogno. Lo si sapeva.
Se nella sua vita si dimenticò spesso di tante cose e persone, come tutti, d’altronde, degli scacchi non si scordò mai. Nelle sue opere gli scacchi si trovano di continuo, ora come metafora specifica, ora come aneddoto, ora come allegoria. Nel suo primo libro La quinta S, gli scacchi sono addirittura presenti in copertina (la cui foto stupenda gli fu suggerita dal figlio, allora abbonato fedele a Torre &Cavallo – Scacco!, si intitola “La caduta del Re” della fotografa Elena Barsotelli) e così nel retro, dove si legge: “Non si può giocare a scacchi contro chi gioca a poker. La scoperta dell’America”. Ma è senza dubbio nel suo giallo-noir, Prima che passi la notte, che l’elemento degli scacchi si innalza ad allegoria, in cui l’uomo è solo una pedina dell’ingranaggio della vita: “La città era come una scacchiera in bianco e nero, i pezzi, i personaggi del dramma, erano mossi da giocatori invisibili. Si sarebbe potuto rovesciare lo scopo del gioco: individuare, guardando i pezzi sulle case bianche o nere, chi li muoveva, i demiurghi che ti dicono dove andare, che cosa fare, come stare al mondo. Chi indovina per primo vince. Silvio Diaz non aveva capito bene che ruolo gli fosse stato assegnato ma una cosa sembrava certa: facendo una mossa sbagliata sbagliata sarebbe stato un povero pedone votato al sacrificio per la vittoria finale di un re sconosciuto”.[2] Oltre all’idea, già presente in Brunner, che gli uomini sono pedine ignare di una partita a scacchi, viene inscenato il dramma di un uomo che deve vincere, anche giocando mosse inferiori. Dramma che solo un uomo meticoloso poteva vivere dentro di sé, riconoscendo, forse all’ultimo, che nella vita bisogna anche risolvere i problemi evitandoli o aggirandoli. Conoscenza ben presente a Sun Tzu, di cui Enrico riprenderà all’inverso per mostrare quanto il suo personaggio (ne La Quinta S) avesse sbagliato: “A ripensarci, ha applicato male le regole del combattimento: ha creduto troppo nel motivo della lotta, ha scelto male i suoi alleati, non ha prestato la dovuta attenzione né al tempo né allo spazio e, a un certo punto, ha smesso di pianificare”. Sintomi, questi, di prese di coscienza ben superiori a quelle che si potrebbero sospettare ad una superficiale lettura. Come tanti prima e dopo di lui, pur essendo in grado di combattere, non aveva l’istinto della caccia o la cattiveria dell’uomo d’arme e preferiva riconoscere che la vita è soprattutto altro: pace, amore e ragione. Così, cercando di non combattere, si ritrovò a giocare delle partite difficilissime, che solo un uomo estremamente pacifico avrebbe preso la briga di sbrogliare.
Nell’ultimo periodo travagliato della sua esistenza, trovò il tempo per organizzare degli eventi a sfondo scacchistico. Nonostante tutto, non riusciva a rinunciare al contatto con le persone, con il più ampio mondo che si intende con la parola “società”. Egli era un animale sociale nel senso più puro e profondo, un residuo dell’ormai tramontata visione del mondo degli anni 60-70 del XX secolo nel quale, pur con tutte le sue contraddizioni, si riconosceva l’importanza dell’altro per il solo fatto di essere Uomo. Ma oggi questo non ci interessa più. L’uomo è tramontato, ma a differenza di quanto auspicava Nietzsche, l’uomo non si è superato ma al massimo è rimasto uguale. Nonostante 100.000 anni di evoluzione, siamo sempre quelle scimmie che preferiscono lottare per la pozza d’acqua del vicino, piuttosto che collaborare. Dell’uomo vogliamo al più le sue parole, possibilmente su internet, e il suo corpo. Possibilmente purificato dalle imperfezioni. In questo, dunque, Enrico era un animale obsoleto, vecchio, incapace di capire il mondo che lo circondava e, più che tutto, di riconoscersi in esso. Ma era troppo positivo, troppo ottimista metafisico, come si è detto, per dare importanza a simili dettagli. E fu grazie a questo suo ottimismo che organizzò una manifestazione in cui i circoli di scacchi di Siena e Cagliari si sfidarono l’uno contro l’altro in una magnifica cornice di cultura e scacchismo. Ma le note del destino stavano suonando.
La notte del giorno prima della sua morte, Enrico Pili giocò delle partite a scacchi. E doveva organizzare una nuova manifestazione a sfondo scacchistico. Non ce ne fu il tempo. Come non ci fu mai il tempo di prendere una categoria (almeno alla seconda ci sarebbe arrivato in scioltezza) o di vincere un torneo. Alle prime ore del 30 agosto del 2010 qualcosa è cambiato nel mondo. Anche se pochi se ne sono accorti.
Io sono ossessionato da due fatti. Il primo è quello di non capire cosa sia la morte. Non la capisco. L’ho anche scritto nel mio 2001, Filosofia negli scacchi, che Enrico tentò (parzialmente) invano di correggere. Non riesco a capire cosa significhi la morte. Il fatto è che io non riesco a immaginarla: se la immagino, penso a me che penso nel nulla. Ma sto ancora pensando. Questo non è l’annullamento totale. Sicché ci rinuncio. Ma la cosa non mi turba più di tanto. La mia vera ossessione è di perdere il mio passato. Continuamente cerco prove della mia esistenza nel passato e scopro che si cancellano con una rapidità disarmante. Che prove avete di essere vissuti il 14 agosto del 2013? E il primo marzo del 2009, e se vi chiedessi del 12 gennaio del 1987? Magari avete uno scontrino, una fotografia. Io ho scritto la mia storia tra il 2003 e il 2005 e mi ci sono volute 513 pagine e delle ricerche per capire cosa e perché era accaduto. Ma la gran parte delle cose accadute sono sparite per sempre, nessuno ve le ridarà più. Io mi attrezzo come posso: salvo dati continuamente, conservo informazioni dovunque e ricostruisco il mio passato ossessivamente passo dopo passo. Enrico Pili era convinto che per sopravvivere alla morte bisognasse lanciare un messaggio, perché sin tanto che qualcuno lo legge, il messaggio, e così il mittente, sopravvivono. Ed è per questo che io riporto il messaggio di colui che mi ha reso padrone di me stesso, Enrico Pili, mio padre. Io che mai avrei potuto averne un altro:
Nell’eccellente film d’animazione interpretato dai Beatles in versione cartoni animati Yellow Submarine – perché tutti viviamo in un sottomarino giallo che naviga in un tormentato oceano – il cattivo di turno è un mostro a forma di grosso guanto che vuole impedire al sottomarino di arrivare alla meta- In inglese guanto si dice GLOVE. Alla fine del film, i Beatles riescono a sconfiggere GLOVE facendo cadere la lettera G e arrivano a destinazione. Caduta la G rimane LOVE, AMORE, perché, come dice la canzone, All We need is love, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è amore. Io ne ho dato tanto. Voi me ne avete dato tanto.
Grazie.[3]
Gabrielli – Pili [D20] ITA corr, 1986
1.d4 d5 2.c4 dxc4 3.e4 Nf6 4.e5 Nd5 5.Bxc4 Nb6 6.Bb3 Nc6 7.Be3 Bf5 8.a4 e6 9.Nc3 Bb4 10.Nge2 a5 11.0–0 Ne7 12.Bg5 h6 13.Bh4 g5 14.Bg3 h5 15.f4 h4 16.Bf2 g4 17.d5 Bxc3 18.Bxb6 Bb4 19.Bxc7 Qxc7 20.d6 Qb6+ 21.Kh1 h3 22.Ng3 hxg2+ 23.Kxg2 Qc6+ 24.Bd5 Nxd5 25.Rc1 Nxf4+ 0–1
[1] Pili E., La Quinta S, Aipsa, Cagliari, 2005, p. 170.
[2] Pili E., Prima che passi la notte, Scuola Sarda Editrice, Cagliari, 2009, p. 66.
[3] Pili E., La quinta S, Aipsa, Cagliari, 2005, p. 353.
Gli strateghi vittoriosi hanno già trionfato, prima ancora di dare battaglia; i perdenti hanno già dato battaglia, prima ancora di cercare la vittoria. Sun Tzu
Forse un po’ tardi per leggerla, ma sono persuasa che le cose si fanno quando è il momento a fartele fare.