Abstract
Il controllo indiretto globale è una strategia applicabile ad ogni ambito che preveda conflitti di interesse. Già Liddell Hart propone una particolare forma di indirect approach. Come mostreremo, essa è una particolare istanza del più generale controllo indiretto globale. Per definire la nostra impostazione strategica abbiamo dovuto individuare alcuni principi generali della buona strategia, principi già ben conosciuti dagli specialisti del warfare.
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Era tra gli anni ’30 e ’50 del XX secolo che il genio di Basil Liddell Hart elaborò le sue principali dottrine, quelle che lui chiamò “strategy of indirect approach” e le teorie sulla guerra meccanizzata. La sua teoria era motivata storicamente dall’evoluzione in corso dei mezzi militari che avrebbero composto la moderna tattica e pratica militare, almeno a partire dal secondo conflitto mondiale, la cui valutazione strategica era affatto chiara: l’avvento della guerra meccanizzata, rivoluzione paragonabile all’innovazione dell’industria nel settore economico, aveva stravolto il warfare, sebbene pochi se ne fossero resi conto con chiarezza.[1] Ed è un fatto curioso ma non più di tanto, se si considera la natura istintivamente conservativa dell’uomo d’arme. In particolare, Liddell Hart era condotto all’elaborazione della strategia dell’approccio indiretto dalla consapevolezza dei pericoli insiti nella guerra di massa: lo spettro degli inutili massacri della prima guerra mondiale era nelle menti di molti ma non di tutti. Questa visione strategica propendeva per l’idea, già insita in Sun Tzu (e Liddell Hart (1965) cita esplicitamente Sun Tzu in sede di ricerca di illustri precedenti delle sue teorie), secondo cui bisognava aggirare le posizioni di grande concentrazione di massa combattente priva di debolezze, per dirigersi verso i punti nevralgici dello schieramento nemico.
Questo metodo prevedeva l’applicazione di alcuni principi strategici generali: il primo prevedeva l’estensione del teatro di guerra su un ampio fronte di attacco. Il secondo passo consisteva nell’aggiramento dei punti più forti del nemico e il terzo nel dirigersi con la più alta concentrazione di massa combattente contro i cardini su cui poggia un esercito: retrovie e centro di comunicazioni. L’immagine che Liddell Hart riporta è quella di un fiume in piena, tanto analoga a quella dell’acqua che irrompe da una diga di Sun Tzu che lo stesso Liddell Hart (1965) lo ricorda, fatto raro nei lavori di Liddell Hart.
Le caratteristiche salienti del metodo di Liddell Hart erano diverse: in primo luogo il suo obiettivo non era la massa combattente avversaria (come voleva Clausewitz) ma le linee di comunicazione del nemico e le sue retrovie, punti più deboli e sensibili dell’avversario. D’altronde, lo stesso Clausewitz riconosce che lo scopo della guerra è quella di eliminare la volontà di combattere dell’avversario. Questo è vero anche secondo Liddell Hart, ma questo scopo viene subordinato al riconoscimento del principio dell’obiettivo fondamentale della guerra, che è quello di conquistare intero e intatto il nemico. Sicché Liddell Hart preferisce all’immagine della distruzione totale quella della paralisi completa del nemico.
In secondo luogo, il metodo prevede l’avanzamento serrato di unità estremamente mobili esclusivamente verso i punti cedevoli del fronte, di contro all’idea, ancora, che per vincere una guerra bisogna eliminare la massa combattente avversaria.
In terzo luogo, il metodo segue un andamento semiautomatico perché si procede per esclusione: ad ogni stadio di avanzamento segue irrimediabilmente un arresto, in quel caso si ripete l’operazione di aggiramento sui punti maggiormente cedevoli per procedere sempre oltre. La mobilità della massa combattente e la capacità di selezionare di volta in volta i punti deboli costituivano la base concettuale e materiale della strategia dell’approccio indiretto.
La prassi doveva essere la seguente: poniamo che a, b, c e d siano i punti del segmento che costituiscono il nostro fronte d’attacco; a1, b1, c1 e d1 costituiscono le posizioni oltre la prima linea e via discorrendo. La nostra massa combattente deve essere distribuita in modo da poter portare un attacco da a a d. E’ presumibile che alcuni punti del fronte cederanno e altri invece no, ammettiamo che a e d cedano mentre il centro rimane intatto. Il secondo passo, allora, era dirigere le forze verso i nuovi punti d’attacco a1 e d1. A questo punto, di nuovo, è possibile che il punto a1 sia meglio difeso di d1, così bisogna puntare verso d1 per sfondare sul fronte e puntare direttamente verso d2. Il fronte, evidentemente, deve essere abbastanza esteso perché deve prevedere l’incapacità del nemico di non avere debolezze in ciascun punto del proprio schieramento. Una volta sfondato il fronte sul punto d2 abbiamo raggiunto l’obiettivo di penetrazione. Come abbiamo visto, il metodo è semiautomatico, ma deve prevedere un’adeguata organizzazione dell’esercito: prima di tutto, i collegamenti con le retrovie devono essere ben formati per favorire l’arrivo delle riserve laddove servono, cioè nei punti più cedevoli. In secondo luogo bisogna organizzare in modo saggio le riserve in modo tale che quelle previste per i punti impenetrabili (b e c nel nostro esempio) possano spostarsi rapidamente per essere riallocate nel posto giusto al momento giusto. La struttura strategica di Liddell Hart si configura proprio come l’acqua che si infiltra tra le fessure di un muro e finisce per aggirare gli ostacoli. Non è difficile visualizzare quanto detto mediante diagrammi adeguati:
Dove RFn sta per “Riserva della Forza n”, dove Fn sta per “Forza combattente…”, dove le frecce stanno per gli attacchi portati e i punti a…d stanno per i settori dell’attacco. Come si vede, alla fine dell’attacco tutte le riserve rimaste puntano direttamente sul centro delle operazioni. E’ evidente che una tale massa combattente puntata sulla retrovia imponga una probabile ritirata delle forse combattenti dai punti a e b, perché non possono né permettersi di avere il nemico alle spalle né il rischio di rimanere senza vettovaglie, rifornimenti e copertura. Ecco perché la strategia dell’approccio indiretto è così semplice, semiautomatica e fondamentale.
La differenza con l’approccio clausewitziano, intendendo con ciò quell’approccio che vede nell’annientamento della massa combattente nemica il principale obiettivo, consiste nel fatto che invece di concentrare le forze per una rapida penetrazione dietro le linee con la massa combattente disponibile, bisogna fermarsi per eliminare il resto delle posizioni nemiche non ancora cadute o eliminate. Come ben sapeva lo stesso Clausewitz (1847) la difesa ha un vantaggio rispetto all’attacco: deve mantenere solo la sua posizione. Inoltre, la difesa ha come unico obiettivo la sua stessa sussistenza, non deve vincere la resistenza del nemico. Così, o un attacco è condotto con forze soverchianti, oppure la difesa ha maggiori chance di resistere. In questo senso, il tempo è a vantaggio della difesa, come dice Clausewitz. In questo senso, il metodo di Liddell Hart nasce per sfruttare al massimo la concentrazione della massa combattente sul punto di massima debolezza e la rapidità di spostamento della forza.
Detto en passant, la struttura dell’approccio indiretto di Liddell Hart, così descritto, è trattabile all’interno di una logica formale che interpreti gli operatori logici di verità e falsità come ʽazione riuscitaʼ o ʽazione non riuscitaʼ. Così che se a è un’azione riuscita, si può dedurre a1, mentre se il valore di una proposizione è falso (cioè l’azione non è riuscita) allora si deduce una proposizione specifica, che equivale alla fermata: f. In questo senso, nel modello grafico presentato sopra, abbiamo a→a1→f. Da cui non segue alcuna altra proposizione. Questo non è l’unico metodo per trattare l’approccio indiretto da un punto di vista formale. Ma questo mostra fino a che punto ci troviamo di fronte ad un approccio automatizzabile (almeno in linea di principio). Il fatto che ciò possa essere utile o meno non riguarda l’aspetto propriamente teorico, all’interno del quale è, invece, rilevante.
Liddell Hart (1954) sostiene che questo sistema sia estendibile ad ogni ambito della logica del conflitto, ed effettivamente è lecito supporre che abbia ragione, quanto meno perché rispetta tutti i criteri generali del warfare e si può applicare a molte sfere diverse delle attività che prevedono lo scontro tra interessi. Liddell Hart ci dice di considerare questo metodo valido in quanto “verità filosofica”:
When, in the course of studying a long series of military campaigns, I first came to perceive the superiority of the indirect over the direct approach, I was looking merely for light upon strategy. With deepening reflection, however, I began to realize that the indirect approach had a much wider application – that it was a law of life in all spheres: a truth of philosophy. Its fulfillment was seen to be the key to practical achievement in dealing with any problem where the human factor predominates, and a conflict of wills tends to spring from an underlying concern for interest. In all such cases, the direct assault of new ideas provokes a stubborn resistance, thus intensifying the difficulty of producing a change of outlook.[2]
L’approccio indiretto deve il suo nome all’idea che la massa combattente più forte del nemico non vada distrutta ma aggirata, perché la massa combattente del nemico non è il fine dell’attività militare ma solo un mezzo, la cui eliminazione non implica necessariamente la cessazione della guerra e delle ostilità, mentre la cessazione della guerra e delle ostilità implicano l’eliminazione della massa combattente: ciò necessariamente, per via del fatto che non sussiste più la relazione di guerra tra gruppi o individui (come abbiamo visto sin dal primo capitolo). Il punto è fondamentale ed è in completa antitesi rispetto ai discepoli di Clausewitz (più che rispetto allo stesso Clausewitz, come Liddell Hart dice esplicitamente): costoro volevano che la vittoria fosse dovuta alla concentrazione di una grande massa combattente che rivolgesse la sua potenza verso la forza combattente avversaria. Ma Liddell Hart osserva che questo modo di procedere, canonizzato nella teoria da Clausewitz (1847) e attuato storicamente da Napoleone (ma anche da illustri e perdenti predecessori, che Liddell Hart considera in Liddell Hart (1925, 1927)), sia dovuto ad un’errata visione globale della guerra: innanzi tutto, lo scopo è quello di vincere il conflitto armato, non di distruggere l’avversario (errore di valutazione strategica che abbiamo considerato in altro loco); in secondo luogo, è evidente che è preferibile vincere un nemico intero e intatto piuttosto che a pezzi (ciò per ragioni puramente egoistiche, come abbiamo già avuto modo di vedere); in terzo luogo, meno si usa direttamente la forza e le proprie risorse e meglio è, proprio per quanto appena detto. Queste considerazioni erano totalmente in antitesi rispetto a quelle dominanti all’epoca.
Questo era, a grandi linee, l’approccio indiretto di Liddell Hart (1954, 1965). Il nostro principio di “controllo indiretto” è, però, qualcosa di leggermente diverso. Esso vuole essere la controparte dinamica globale dell’impostazione di Liddell Hart. Se si vuole, un’estensione generale del concetto stesso di “approccio indiretto”, che, nel nostro caso, vale tanto in difesa quanto in attacco. Questo approccio si fonda sul riconoscimento della correttezza dei principi di base dell’impostazione del genio militare inglese:
La strategia è virtuosa solo se si ammette:
(1) vincere il nemico senza combattere è il fine massimo (razionalità globale),
(2) farlo con il minor numero di risorse e di tempo è il principio fondamentale per l’ordinamento dei mezzi (razionalità strumentale);
(3) lo scopo del conflitto è il controllo di un territorio, quale che sia la sua definizione specifica;
(4) il fine ultimo del conflitto è fondato sui vantaggi politici e generali da ottenere nel dopoguerra (razionalità finale).
Come per tutto, questi sommi principi sono variamente stati riconosciuti da molti dei grandi pensatori della logica del conflitto: per il primo punto da Sun Tzu, per il secondo da Sun Tzu, Jomini e Lasker (1907) e per il terzo da Clausewitz (1847). Tutti i punti vengono riconosciuti e assunti esplicitamente, anche se non in questa formulazione, da Liddell Hart (1925, 1954, 1965).
La massa combattente è uno degli elementi fondamentali della logica del conflitto. In base alle tipologie e istanze della massa combattente in questione si discriminano le varie tipologie dei mezzi, i quali sono i soli discriminanti delle discipline a conflitto di interesse. La logica del conflitto tratta esclusivamente di questi ambiti nel quale è previsto che esista la presenza di due entità intenzionali che vogliano raggiungere un certo scopo e lo facciano mediante dei precisi mezzi. Le regole dello svolgimento dello scontro sono almeno imparte indotte dalla tipologia del mezzo adottato, piuttosto che dal fine: vincere una partita a scacchi richiede, appunto, gli scacchi mentre per ottenere il massimo rendimento di un’azienda è necessario utilizzare le risorse umane, finanziarie, commerciali e informazionali indispensabili. Per vincere una guerra bisogna usare le armi. Quanto il mezzo sia una discriminante fondamentale non sarà mai abbastanza sottovalutato, perché, appunto, sembra che a livello molto astratto tutto dovrebbe convergere verso una medesima concettualizzazione, quasi che si possa fare a meno di conoscere gli strumenti mediante i quali applicare una precisa strategia, tattica e pratica: questo avviene compiutamente nella teoria dei giochi, la cui formalizzazione generale prescinde dall’analisi puntuale delle singole instanzazioni della strategia stessa.[3] Il nostro livello di analisi è molto generale proprio perché può fare a meno della discriminante dei mezzi, ma, ciò non dimeno, la stessa impostazione può essere realizzata mediante strumenti diversi: in filosofia questa è chiamata realizzabilità multipla, quando una stessa proprietà può essere istanziata da diversi sostrati materiali perché le proprietà dell’ente considerato sono sopravvenienti rispetto al sostrato materiale che lo realizza. Il carattere di una persona è sopravveniente rispetto al cervello che lo realizza, laddove il cervello può cambiare ma il carattere rimane lo stesso.
Consideriamo la massa combattente come l’entità in grado di realizzare una catena causale che conduca alla eliminazione della forza combattente avversaria.[4] In questo senso, nella partita a scacchi la massa combattente sono i pezzi, in guerra le forze armate. Una massa combattente incapace di determinare un simile andamento è annullata e, di fatto, non si può più considerare come tale, ma cambia statuto, diventa solo una massa. Infatti, il concetto del disarmo, sia in chiave pacifista che militare, ha appunto lo scopo di rendere la massa combattente soltanto una massa di uomini quale che sia.
Ogni massa combattente è definita da alcune proprietà generali: dimensione, forma, tipologia, mobilità, rapidità. La dimensione definisce la grandezza della massa ed è enumerabile. Essa può essere distinta in componente umana e materiale, ma qui non importa scendere nel dettaglio, ma è evidente che ogni categorizzazione classica degli eserciti si fonda proprio su questo elemento materiale. In Clausewitz (1847) era proprio il fattore potenzialmente conoscibile della forza armata, rispetto alla volontà di combattere e agli aspetti morali generali, invalutabili per ragioni di impossibilità di trovare un buon sistema di misurazione.[5]
La forma è la dislocazione della massa nello spazio: la forma non è indifferente rispetto alla potenza della massa combattente, e dipende dalla tipologia di terreno e scontro (le formazioni classiche degli eserciti svolgono questo ruolo di amplificazione della potenza della massa combattente).
La tipologia consiste nelle attività plurime che tale massa è in grado di svolgere. Ci saranno masse combattenti specifiche per la difesa, altre per l’attacco. Queste proprietà puramente statiche determinano la potenza della massa combattente, potenza che è la capacità di infliggere danni all’equivalente massa contraria.
La forza di una massa combattente è idealmente misurabile in base alla potenza distruttiva che essa è in grado di infliggere ad un suo equivalente.
La mobilità è la capacità della massa combattente di spostarsi: ci sono masse combattenti poco mobili (artiglieria campale) o molto mobili (aerei).
In fine, la velocità è la capacità di una massa combattente di spostarsi nel teatro delle operazioni. La velocità non è in funzione della mobilità ed è uno dei parametri fondamentali per l’approccio indiretto: una portaerei è molto mobile ma non è così veloce, mentre un aereo è molto veloce ma la sua mobilità dipende dal punto in cui poi dovrà atterrare, sicché la sua massa combattente è veloce ma poco mobile.
La componente statica della massa combattente ammette due dimensioni di potenza: la forza diretta e la forza indiretta. La forza diretta è definita dalla regione di spazio in cui la massa combattente può intervenire direttamente e immediatamente. La forza indiretta è, invece, definita dalla regione di spazio in cui la massa combattente non può intervenire immediatamente, ma è nel suo raggio d’azione. Il caso più semplice è quello del carro armato: esso ha una regione di spazio immediatamente controllabile, cioè l’angolo di tiro e la portata del suo cannone. Esso ha, però, pure una regione di spazio che può controllare indirettamente ed è quella nella quale può arrivare in un tempo trascurabile, la cui trascurabilità è data dalla relazione spaziale che si intrattiene con la massa combattente avversaria considerata come obiettivo: essa è tanto maggiore quanto più è piccola la distanza. Il punto è, allora, il fattore tempo: se la velocità è uno spazio sull’unità di tempo, allora tanto più un mezzo è rapido, tanto più diminuisce il tempo in cui si sposta in una regione di spazio definita e tanto più il suo controllo indiretto è grande. Si tenga presente, però, che la massa combattente ha una componente umana: nessuno strumento di morte, per quanto potente, può effettivamente controllare lo spazio in questo senso. Al massimo si parla di controllo potenziale, condizionale. Mentre il controllo, anche indiretto, prevede la possibilità della massa combattente di entrare direttamente nella zona interessata. Per questo l’arma atomica è inutile, sotto molti profili: che senso ha distruggere una regione di spazio senza poterla utilizzare, senza poterci entrare, considerando gli effetti a lungo termine?
Definito il controllo diretto e indiretto di una massa combattente, possiamo introdurre il fattore spaziale. Posta una regione di spazio, è possibile pensare di dislocare tante masse combattenti quanto è necessario per controllare l’intera regione. Per far questo non è necessario riempire tutto lo spazio o dislocare la forza in modo da controllare direttamente tutto il territorio. Questo sarebbe, nella maggioranza dei casi, inutile, dispendioso in termini di energie e forze. Sicché la strategia buona, che rispetti i criteri fondamentali sopraindicati, consiste nel prendere i punti che consentano il massimo controllo indiretto delle forze a disposizione rispetto al territorio da controllare. Si tenga presente che l’orografia del terreno (di qualunque campo nel quale agiscono le masse combattenti) è fondamentale per comprendere la forma migliore da adottare per la massa combattente: alcuni terreni aumentano considerevole il controllo indiretto della massa combattente, a patto che tale massa si dispieghi nello spazio nel modo migliore. Il cecchino va messo sopra un punto di osservazione alto e coperto, metterlo in un bunker interrato minimizza il controllo indiretto. Per quanto riguarda la concettualizzazione ad alto livello di questo approccio, che concepisce l’azione militare come quell’azione che sfrutta al massimo lo spazio in cui si svolge l’azione e il tempo dell’azione stessa, Sun Tzu offre una teoria illuminante.
Massimizzare il controllo indiretto del territorio implica minimizzare il dispendio di risorse: per controllare direttamente la stessa regione occorrerebbe molta più massa. In questo senso, violeremmo uno dei principi fondamentali ai quali ci siamo appellati per sancire la buona strategia (cioè nessuna buona strategia può violare uno di quei punti). Per massimizzare il controllo indiretto è, dunque, necessario conoscere il terreno, le circostanze e la tipologia di avversari. In base a ciò si decide la tipologia e la forma della propria massa combattente.
Rispetto all’approccio indiretto (indirect approach), il controllo indiretto globale è più generale, perché vale tanto in attacco quanto in difesa. In attacco il metodo di Liddell Hart mostra chiaramente come la forza della massa combattente è valorizzata quando mette a repentaglio anche le zone protette: esso sfrutta la mobilità della massa combattente, cioè la sua capacità di controllo indiretto. Non è tanto la potenza di fuoco del carro armato a produrre grandi effetti, quando esso ti scavalca, quanto il problema di dove può andare: come diceva Sun Tzu, se vuoi controllare il nemico, costringilo a seguire delle forme a lui svantaggiose attraverso la minaccia di qualcosa di vitale per lui e il carro armato oltre le linee costringe ad aver timore per qualcosa di realmente vitale per qualunque esercito. Sapere che il carro armato può puntare direttamente sul centro di comando, e che noi non possiamo fermarlo, è molto più decisivo di ogni salva sparata dal suo cannone. Sicché l’approccio indiretto è una particolare modalità di sfruttamento congiunto del controllo diretto e indiretto della realtà: esso si può applicare ad ogni ambito della logica del conflitto e non solo alla dimensione puramente bellica.
Il controllo indiretto globale si fonda su un’idea generale molto semplice: entrare in battaglia già vincitori. La massima abilità consiste nel costringere il nostro avversario ad entrare in regioni di spazio in cui parte già in svantaggio e tanto più si addentra dentro di esso il suo svantaggio si incrementa. Viceversa, il nostro svantaggio è minimo perché consente sempre la possibilità di determinare il momento di colpire nel punto di massima debolezza del nemico e, allo stesso tempo, di poterci ritirare nei punti in cui il controllo indiretto è massimo.
Il controllo indiretto globale è un concetto generale, applicabile a tutti gli ambiti della sfera del conflitto. Trovare i sistemi idonei attraverso cui attuarlo nei singoli contesti dipende in modo decisivo dai mezzi previsti dall’ambito considerato. Ad esempio, per controllare indirettamente una società, è sufficiente puntare su alcuni individui e tralasciare tutti gli altri. Per controllare indirettamente il centro della scacchiera con i pezzi è sufficiente stare nelle prime tre traverse, senza invadere il centro con i pedoni. Non è difficile, poi, trovare degli Stati che attuano questo principio con profitto: Israele, ad esempio, è storicamente un paese che ha sempre sfruttato più che la forza diretta, la potenza indiretta della mobilità della sua massa combattente e, infatti, non è un caso che le forze armate israeliane prediligano strumenti di guerra altamente mobili. Per quanto riguarda, invece, il concetto di controllo indiretto nella storia, il miglior esempio è offerto dai castelli medioevali: essi erano dei centri di attacco e difesa, laddove l’elemento offensivo consisteva nella possibilità di concentrare una massa combattente all’interno capace di colpire rapidamente il nemico, tipicamente mediante la cavalleria leggera o pesante. Non è un caso che alcuni medievalisti sottolineino il ruolo offensivo del castello (da sempre simbolo di difesa), tanto che, durante il passaggio alle monarchie assolute si assiste alla distruzione di una grande quantità di costruzioni fortificate (il caso di Luigi XIV è emblematico). Ma forse il caso dell’impero inglese è ancora più suggestivo, laddove la mobilità di forze altamente specializzate consentiva all’Inghilterra di poter colpire nemici vicini e lontani nei punti di minima tensione (si vedano le opinioni di Liddell Hart (1930)), come fu il caso delle guerre dell’oppio, che a metà XIX secolo determinarono il crollo di una forma di impero plurimillenario.
In conclusione, abbiamo mostrato come il controllo indiretto globale sia una delle impostazioni strategiche virtuose per il controllo di una certa realtà che preveda il conflitto di interessi. Il controllo indiretto risulta decisivo per controllare grandi e piccole regioni di spazio nel modo più efficiente ed economico possibile, con il minimo di dispendio di risorse umane e materiali, sia da parte nostra che del nemico che, come abbiamo visto, rientra nei nostri interessi.
Bibliografia
Clausewitz C. (1837), Della guerra, Einaudi, Torino.
Lasker E., (1907), La lotta, Scacchi e Scienze applicate, Venezia.
Liddell Hart B., (1925), Paride o il futuro della guerra, LEG, Gorizia.
Liddell Hart B., (1927), Un uomo più grande di Napoleone: Scipione l’africano, Rizzoli, Milano.
Liddell Hart B., (1930), La prima guerra mondiale, Rizzoli, Milano.
Liddell Hart B., (1954), The strategy of indirect approach, Faber And Faber, London.
Liddell Hart B., (1965), L’arte della guerra nel XX secolo, Mondadori, Milano.
Liddell Hart B., (1970), Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano.
Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano.
Von Neumann J., Morgenstern O., [1947], Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, Princeton.
[1] E tra questi c’erano le teste pensanti dell’esercito della Germania nazista.
[2] Liddell Hart (1954), pp. IX-X.
[3] La letteratura sulla teoria dei giochi è piuttosto ampia ed è tutt’ora un campo disciplinare molto vivo. Qui suggeriamo la lettura del fondamentale classico: Von Neumann J., Morgenstern O., [1947], Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, Princeton.
[4] Rispetto a quanto detto ne Insufficienza della definizione dei termini ‘pace’ e ‘guerra’: una soluzione inedita sarebbe ciò che sostanzia la relazione G, là definita
[5] Ma se ci fossero tali sistemi di misurazione, sarebbe anche questo elemento riconducibile ad una oggettivizzazione conoscibile e quantizzabile? La risposta sembra essere affermativa, per quanto tale possibilità richieda una fondazione filosofica (e logica) elaborata, che preveda che ogni individuo umano abbia un insieme ben definito di credenze alle quali associare un peso in base a precisi criteri. In questa sede, ciò vuole essere solo un suggerimento per riflettere su questo punto assai interessante al quale Clausewitz si era arreso.
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