L’incredibile … che cosa? Esso stesso – questo è subito detto, qui però mostrato: il che significa trasfigurato in un divenire che già diviene essenzialmente immagine. Ovvero altrimenti detto: un’indicazione viva del trasformarsi del tutto attraverso una sorta d’autodigestione (detto per inciso, ricorda da vicino il Re Baldoria del giovane Marinetti, che terribile divora se stesso) – con un ‘Prost!’ a Kubrick e al suo (e nostro) vertiginoso eterno ritorno (dell’eguale?), Kubrick che siede magari al tavolaccio improbabile dove discutono (sempre delle stesse cose?) importuni ma liliali e Vico e Arbasino e Nietzsche (che stupendo tavolaccio!).
Allora appunto sono forse le Cose stesse (quelle che da sempre ri(n)corrono – e prima di tutto in un gioco affascinante di meta-scoperte, il film stesso, oggetto!) gli autentici protagonisti, oggetti-personaggi sinceramente stranianti (però cose, fuori dalle parole) – magari sull’esempio (e solo per farne uno a caso), tolta ogni ideologia, del Godard di Due o tre cose che so di lei.
Il film corre che lo si potrebbe pensare come costruito attorno alla scena dell’inseguimento – veloce, dove tutto è necessariamente strettamente funzionale alla trama. Dunque un contro-kaurismaki o magari anche meglio un contro-kurosawa (per quanto riguarda la cifra del correre, non certo quella del rifiuto di ogni particolare non strettamente funzionale): ovvero un tuffo niente affatto tremebondo nel veloce divenire, per presto ricomporre il puzzle di una vicenda schizofrenica nella dinamica seppur anoressica nei modi di sviluppo: ed è infine tutto un The Machinist dove però l’irrealtà creazione mentale viene già, senza soluzione di continuità, – in un pastiche autarchico e totale molto organico – proiettata nella vita e avventura ed eterno teatrino proprio reale (che bel giochino: una realtà solo irreale, ma potrei dire il contrario). Ovvero: non v’è affatto schizofrenia in questa schizofrenia, come non v’è alcuna irrealtà in questa solo irrealtà.
Ma questo correre è un rincorrer-si (del film sul film): l’abbiamo già detto – corsi e ricorsi e rincorse.
Di un genere poco caratterizzabile: ovvero, questo film si costruisce in modi liberi – e sfacciatamente evidente (il film) nel tentativo – non riuscito – di fondere linguaggi diversi in una stessa multi-sceneggiatura. Il che sta a dire che la libertà è libertà di favoletta, libertà di trasporto immaginativo in una dimensione seppur tutta perfettamente calcolata – ma lo spettatore che ne sa del ragionamento logico? – solamente tutta irreale. Cioè: l’improvviso mescolarsi di cifre linguistiche proprio diversissime tra loro, in una specie di gioco che ricorda gli inattesi e surreali cambi di ambientazione in una stessa scena (per esempio in Maya Deren), con la differenza (non la sola!) che qui, invece che il confondere di ambientazioni, abbiamo il confondere di linguaggi (che tentano di fare le veci di ambientazioni): il risultato però non sembra lo stesso, ho detto infatti ‘ricorda’. Dove il surrealista alla Maya Deren (ma ovviamente anche alla Bunuel e dintorni) provoca lo straniamento, Pili (!) suscita attraverso la detta multi-sceneggiatura – seppur l’intento è quello di provocare alla maniera surrealista straniante – un tenero torpore di favola, dove tutto è troppo concesso perché già irreale (o troppo reale per essere reale, non so). I linguaggi non si uniscono sotto l’egida di un messaggio emotivo o di contenuto rivelatore, ma solo sotto l’egida di uno scorrere disordinato (seppur si è detto prima: tutto è ordinato!) di voci come indementite, solidarizzanti tra loro solo perché ebbre in un mondo d’incantata favoletta. Questo ciò che – afferma il critico sempre provetto – non è riuscito, il resto è molto!
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