Alcune delle più note teorie evolutive della morale affermano che il giudizio e il comportamento morale sono funzionali all’aumento del benessere del gruppo di appartenenza. Questo tipo di spiegazione dell’emergenza della morale, che sarebbe funzionale alla massimizzazione del benessere del gruppo di appartenenza, poggia su teorie come la selezione parentale. La semplice osservazione del giudizio morale umano ci dice però che …
il processo responsabile della sua formazione tiene spesso conto di regole che non vertono tanto sul risultato dell’azione quanto proprio sull’azione stessa: ovvero, considerano il mezzo più che il fine. Ad esempio, la regola “non uccidere” disciplina il comportamento prescindendo dal calcolo utilitario che si potrebbe fare considerando la persona da non uccidere e le sue relazioni con la comunità. Chiamiamo per semplicità queste regole “kantiane”.
Alcuni teorici hanno proposto che le regole morali di questo tipo siano in realtà il risultato di meccanismi che fanno uso di semplici euristiche (le regole o leggi morali stesse) per massimizzare il bene comune.
Questa teorizzazione sullo sviluppo filogenetico della morale appare discutibile già a prima vista poiché sarebbe come assumere che la mente umana è meno sofisticata di quella di un insetto nel senso che ha bisogno di essere spinta a prendere decisioni favorenti il comportamento altruista per mezzo di euristiche che sono rigide regole morali; tuttavia è molto diffusa, pur in diverse versioni, in ambito (neuro)scientifico e neuroetico (vedi: Gigerenzer 2010; Sunstein 2005; Greene 2007, per cui le regole morali sarebbero implementate dall’emozione).
In sostanza, la spiegazione più diffusa dei giudizi non consequenzialisti è che questi riflettono le operazioni dei sistemi responsabili del comportamento altruistico che agirebbero anche attraverso regole morali disciplinanti l’azione. Uno studio condotto da Kurzban, DeScioli e Fein, pubblicato su “Evolution and Human Behavior”, sfida questa sistemazione teorica da un punto di vista empirico.
Gli autori hanno registrato il giudizio morale di un ampio campione di soggetti, ai quali veniva chiesto di decidere tra uccidere una persona per salvarne cinque o non ucciderla lasciando così morire le altre; il dilemma morale nasce dal fatto che per raggiungere la massimizzazione del bene comune bisogna infrangere una regola morale piuttosto importante.
La novità introdotta da questo studio è che le situazioni dilemmatiche descritte coinvolgevano o estranei o fratelli o amici. La variabile era dunque la relazione tra il soggetto e le persone coinvolte nella situazione descritta dallo sperimentatore. Le domande erano: sacrificheresti un estraneo (un amico, un fratello) per salvare cinque, estranei (o amici o fratelli). Dopodiché ai soggetti veniva chiesto di valutare la connotazione morale dell’azione di sacrificio.
Il risultato dello studio è che da una parte i soggetti hanno mostrato una maggior propensione a sacrificare il fratello o l’amico rispetto all’estraneo, per salvarne cinque appartenenti alla stessa categoria, dall’altra hanno valutato comunque come moralmente disapprovabile uccidere tanto l’estraneo che l’amico o il parente. Il giudizio di disapprovazione morale non è stato inficiato dal legame tra le parti, mentre lo è stato il processo di presa decisionale nella situazione dilemmatica.
Questo lavoro mostra che, almeno in queste situazioni, il processo decisionale dell’uomo è meno propenso ad essere guidato da regole morali di tipo kantiano nel caso che i soggetti implicati siano parenti o amici. Ovvero, quando sono implicati parenti o amici i soggetti diventano più consequenzialisti, ignorando semplici regole morali come “non uccidere”.
Perché è rilevante questo risultato? Perché porta un’evidenza che falsifica la visione per cui i giudizi morali basati sulle regole kantiane (non consequenzialisti) sono causati dai sistemi favorenti l’altruismo, evoluti secondo la logica della selezione parentale, che, in sostanza, questi giudizi non sarebbero altro che euristiche atte a favorire il bene comune.
Vediamo perché. Se fosse davvero così, all’aumentare delle disposizioni altruistiche dei partecipanti (come si suppone sia il caso quando le persone coinvolte nel dilemma sono parenti o amici del soggetto), dovrebbero aumentare le euristiche. I risultati dello studio però vanno nella direzione opposta.
Questo può significare che sarebbe meglio assumere modelli esplicativi in cui i sistemi per l’altruismo sono distinti, diversi e, in alcuni casi, opposti, ai sistemi morali. L’uomo sarebbe in possesso sia di sistemi cognitivi per l’altruismo emersi filogeneticamente grazie alla selezione parentale, ad esempio, che lo porterebbero a massimizzare il bene comune, sia di sistemi cognitivi per il giudizio morale, basati su rigide regole morali disciplinanti il comportamento.
Nei dilemmi morali studiati, questi due sistemi entrerebbero in opposizione, facendo oscillare la decisione del soggetto tra la massimizzazione del bene comune e l’aderenza alle regole morali. Il suggerimento conclusivo è quello di smettere di considerare la psicologia della selezione parentale come una specie di moralità, e dunque incominciare a tenerla separata dai sistemi cognitivi responsabili del comportamento morale.
Reference:
- Gigerenzer, G. (2010). Moral satisficing: rethinking moral behavior as bounded rationality. Topics in Cognitive Science. 2; pp. 528–594.
- Greene, J. (2007). The secret joke of Kant’s soul. InW. Sinnott-Armstrong, Ed. Moral psychology, vol. 3: the neuroscience of morality: emotion, disease, and development (pp. 35–79). Cambridge, MA: MIT Press.
- Haidt, J. (2001). The emotional dog and its rational tail: a social intuitionist approach to moral judgment. Psychological Review. 108; pp. 814–834.
- Hamilton, W. (1964). The genetic evolution of social behavior. Journal of Theoretical Biology. 7; pp. 1–52.
- Kurzban, R., DeScioli, P., Fein, D. (2012) Hamilton vs. Kant: pitting adaptations for altruism against adaptations for moral judgment. Evolution and Human Behavior. 33; pp. 323-333.
- Sunstein, R. (2005). Moral heuristics. Behavioral and Brain Sciences. 28; pp. 531–543.
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