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Consigliamo – Di Francesco Margoni I veda – Capitolo 1
La presente pubblicazione si divide in due parti: la prima affronta il tema del ruolo relativo di Parola e Mente nel processo di creazione del cosmo e la loro relazione con il creatore; la seconda la disputa tra Parola e Mente su chi, fra esse, sia la superiore. I passi relativi alla prima parte sono: Tandya-maha-brahmana (XX,14,2), Taittiriya-brahmana (II,8,8,4), Satapatha-brahmana (I,4,4,1;X,5,3,1-5); i passi relativi alla seconda: Satapatha-brahmana (I,4,5,8-12).
Al principio, come già abbiamo avuto modo di notare, il cosmo né era né non era, ovvero sia era sia non era. I Veda ci dicono, in sostanza, che vi fu un tempo dove mancarono le stesse categorie dell’esistenza e della non esistenza poiché ancora lo spazio e la materia (ma anche il non materiale, come i cieli, le divinità etc.) non erano. Ebbene, in questo tempo, potrà sembrare paradossale, però c’era la Mente. La Mente, se però vogliamo tenere un minimo di coerenza con quanto appena detto, né era né non era, oppure sia era sia non era; essa diviene una sorta di prima condizione necessaria, sussistente aldilà della dicotomia essere-nonessere. In questo senso possiamo o identificare la Mente con il primo signore e creatore dell’universo o porla come condizione necessaria ed anteriore persino ad esso. Sappiamo comunque che essa venne creata (ma potrebbe essere autogenerata) e poi (o forse prima, poiché qui mi pare di capire non importi veramente che la successione sia in un senso o in un altro) desiderò manifestarsi, ovvero dare vita alla creazione.
Questa manifestazione della Mente si esplicita in diversi passaggi. Dapprima la Mente (manas) crea la Parola (vac). Quest’ultima diviene il secondo del Signore creatore di tutto, il quale crea appunto liberando la piena manifestazione della Parola; per mezzo di essa il primo principio dà origine alle cose. Presupposto ad essa è però la Mente. Prima della parola viene il pensiero, come vedremo meglio tra poco. Da questo si deduce la grandezza, la potenza e la distanza della Parola, ch’è prima e in tutto ciò che esiste, terreno e divino; tutto vive per mezzo e nella Parola. A questo primo passaggio, dalla Mente alla Parola, ne segue, comprensibilmente, un secondo, dalla Parola al respiro vitale (prana), che qui significa nient’altro che la manifestazione della proprietà di esistere delle cose e di essere vive delle cose viventi. È la Parola stessa che desidera (ritorna l’importanza del desiderio per l’azione) manifestarsi, e lo può fare solamente nelle cose. Ricordiamoci che essa viene dalla Mente e oltre alla Mente e al principio della creazione non esiste ancora nulla. La Parola dunque, per manifestarsi, per uscire da sé, deve creare. Essa cerca un sé per uscire da sé e ritornare a sé, o, altrimenti detto, essere pienamente sé stessa. Ed è attraverso tapas, una fervida concentrazione, ch’essa riesce nell’impresa di farsi sostanziale, potremmo dire d’emanciparsi totalmente dalla forma del pensiero. La parola diventa azione e cosa, da pensiero ch’era.
Ora, dal momento che Mente e Parola sono in qualche modo complementari, sono l’una la manifestazione dell’altra, e stanno di fatto, secondo il pensiero dei Veda, all’origine di tutto ciò che esiste, dunque anche degli dei, che ne sono, per così dire, condizione necessaria o sostegno, penetrando per altro in tutto ciò che esiste in Terra e in Cielo, il sacrificante durante il sacrificio al dio deve necessariamente passare per entrambe. Dunque egli oblerà per prima cosa alla Mente e alla Parola affinché esse, unite, possano portare il messaggio al dio o agli dei. Il rito sacrificale farà uso della Parola e, in un certo senso sarà interamente Parola.
Con un’eccezione, le cui origini andremo subito a spiegare: Prajapati. Si narra infatti che vi fu un tempo in cui Mente e Parola ebbero a disputare su chi fosse tra loro la superiore. Mente e Parola sostenevano ovviamente entrambe il proprio partito: per Mente superiore alla Parola era Mente poiché la prima non esprime nulla che non sia precedentemente compreso dalla seconda, dunque Parola si limiterebbe a seguire ed imitare Mente; per Parola superiore alla Mente era Parola poiché tutto ciò che la prima conosce la seconda ha il potere di divulgarlo e, in generale, comunicarlo. Facciamo fatica a comprendere l’argomentazione di Mente, mentre ci sembra più chiara quella di Parola. Parola dice di avere il potere di espressione d’un contenuto che altrimenti rimarrebbe nella solitudine inerte del singolo. Essa dunque presuppone la vita comunitaria all’azione di qualsiasi tipo, e questo ci sembra corretto nel caso dell’uomo, non a caso l’essere vivente con il linguaggio più sviluppato. Mente invece dice, se capiamo bene, di essere superiore poiché Parola non potrebbe nemmeno esistere senza Mente, ovvero che per dire qualcosa bisogna prima aver pensato. Tra l’altro: ogni parola presuppone un pensiero, ma non è vero il contrario. Ma la formulazione dei Veda è più precisamente questa: la Mente è superiore alla Parola poiché la seconda non esprime nulla che non sia precedentemente capito da noi. Ora, ci pare sia questa formulazione (che significa che la Mente capisce prima quello che Parola dice poi? Non è forse vero che si dà la possibilità, invero sotto gli occhi di tutti, di poter parlare di ciò di cui non si conosce o capisce?) a rendere poco chiaro un concetto che pure viene intuito nella sua globalità. Bene, dal momento, comunque, che la situazione gravava nell’impossibilità di decidere per una delle due parti, queste decisero di rivolgersi ad un giudice superparte: Prajapati appunto. Egli disse senza esitare che la Mente era superiore alla Parola, e proprio per le ragioni ch’essa aveva adottato nel giustificare la propria posizione. Parola non prese molto bene il verdetto. Essa si vergognò senz’altro della propria posizione subalterna e nondimeno si offese a tal punto da decidere di non servire mai più come veicolo per le oblazioni a Prajapati. Ecco perché questo dio rappresenta un’eccezione: i sacrifici ad esso devono essere fatti senza l’uso della parola, ovvero a bassa voce.
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