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E tuttavia l’umanità stessa, procedendo nel suo cieco cammino, non è forse spinta da un sogno della propria grandezza e del proprio potere sui bui sentieri dell’eccessiva crudeltà e della dedizione eccessiva? Che altro è, dopo tutto, il perseguimento della verità?[1]
Joseph Conrad
Jim è un ragazzo dotato di caratteristiche fuori dall’ordinario. Tutti glielo riconoscono. In particolare, egli è una di quelle persone a cui si ripone volentieri fiducia. Eppure c’è qualcosa nel suo passato che costituisce un precedente inquietante, macchia sufficiente a costituire il dubbio permanente sulla sua reputazione. Jim era un sognatore, un romantico, convinto di poter vincere ogni avversità, di non aver paura di nessuna possibilità perché già prevista, già vagliata dalla sua mente. In se stesso costruiva mondi, avventure concrete nelle quali egli era il protagonista e grazie alle quali avrebbe dimostrato al mondo il suo valore:
In momenti del genere i suoi pensieri erano colmi di imprese valorose: amava quei sogni e il successo delle sue gesta immaginarie. Erano la parte migliore della vita; ne erano la verità segreta, la realtà nascosta. Avevano una splendida virilità e il fascino delle cose vaghe; gli passavano davanti con passo eroico; si portavano via la sua anima e la ubriacavano con il filtro divino di una fiducia illimitata in se stessa. Non c’era niente che lui non potesse affrontare. Era così soddisfatto dell’idea che sorrideva, pur continuando meccanicamente a guardare davanti a sé; e quando gli accadeva di girarsi indietro vedeva la striscia bianca della scia che la chiglia della nave disegnava in linea retta sul mare, come la matita aveva tracciato quella riga nera sulla carta.[2]
Jim era un marinaio solitario, ancora più solitario dei suoi colleghi, già costretti dalle circostanze ad una vita di confine, continuamente sballottata a destra e a sinistra dalle onde e dalla vita, alla ricerca di un lavoro che non conosce precisi confini. Egli si confronta con quel mondo gretto e duro, quella realtà sociale quasi asociale, costituita da uomini isolati che navigano per vivere e per sfuggire alla solidità del moto non perpetuo di chi sta a terra. Costretto anche da questo ad usare la sua immaginazione, Jim mette a dura prova la sua fantasia per poter anticipare il suo destino possibile, così da poter essere all’altezza della situazione, essere se stesso pienamente e poterlo dimostrare a tutti in modo che nessuno possa negare la sua autorità, la sua personalità, la fiducia in sé stesso:
Sottocoperta, nella babele di duecento voci, dimenticava se stesso per vivere mentalmente in anticipo la vita di mare della letteratura amena. Si vedeva salvare gli uomini dalle navi che affondavano, recidere l’alberatura durante un uragano, nuotare tra i cavalloni con una gomena in mano, o anche, naufrago solitario, scalzo e seminudo, camminare sugli scogli in cerca di crostacei per alleviare la fame. Affrontava i selvaggi sulle spiagge tropicali, domava gli ammutinamenti in alto mare e, su una brachetta in pieno oceano, rincuorava gli uomini disperati – esempio costante di dedizione al dovere, intrepido come l’eroe di un libro.[3]
Ma Jim non aveva compreso una delle componenti basilari della realtà, che è la sorte lascia presso noi solo il cinquanta percento delle possibilità sotto il nostro controllo, il restante è in balia del cieco caso, di cui non possiamo minimamente prevedere il corso. E così tutto può andare in fumo per un dettaglio inconoscibile a priori, eppure così straordinariamente concreto da costituire, da solo, il sasso che blocca il motore di una grande nave. Egli non aveva previsto che ognuno di noi ha un preciso limite, oltre il quale nessuno può prevedere come agirà. Può solo scommetterci poco. E questo suo errore interiore, maturato nella sua vigorosa immaginazione, fatta di sogni e fiducia in sé stesso, ha costituito la condizione grazie alla quale egli tradì se stesso:
“Sono sempre le cose inaspettate quelle che accadono” dissi in tono propiziatorio. La mia ottusità lo spinse a emettere uno sprezzante “puah!”. Intendeva dire, immagino, che l’inaspettato non poteva toccarlo; soltanto l’inconcepibile poteva aver la meglio sulla sua perfetta preparazione. Era stato preso alla sprovvista – e sussurrò tra sé una maledizione rivolta alle acque del firmamento, alla nave e agli uomini. Tutto lo aveva tradito![4]
Durante la traversata di un piroscafo nel quale Jim è imbarcato si realizza un avvenimento assai strano e imprevedibile: un relitto non del tutto affondato urta il Patna, il piroscafo, aprendo una falla in quel naviglio vecchio e instabile. La nave, piena di pellegrini, sembra non poter reggere neppure un minuto. Il comandante dà l’ordine di non svegliare nessuno per non destare il panico e determinare la morte di tutti, cioè anche dei membri dell’equipaggio, i soli che hanno qualche possibilità di salvezza: le scialuppe non basterebbero comunque per tutti e non è escluso che le conseguenze del panico dilagante non imporrebbero degli sforzi supplementari alla già provata imbarcazione facendola definitivamente colare a picco. L’equipaggio cerca di trarsi in salvo, nel pieno silenzio di una notte calma. Ma una tempesta sembra dover sopraggiungere da un momento all’altro. Le operazioni vengono accelerate. Uno dei membri dell’equipaggio muore di un colpo apoplettico. Jim è indeciso se rimanere sulla nave o buttarsi nella scialuppa. Il suo dovere sarebbe quello di rimanere sulla nave, cercare di salvare i pellegrini o proprio l’imbarcazione e, nel peggiore dei casi, affondare con essa. Ma la falla da lui stesso visionata sembra irreparabile. Il Patna, già visibilmente inclinato, sembra ostentare una certa voglia di vivere, ma nessuno potrebbe scommettere sul suo destino. Tanto più con i rumori della tempesta in lontananza. Combattuto sino alla fine, Jim salta. E con il salto Jim cambierà la sua vita.
Tutto il periodo del processo di accertamento degli avvenimenti è devastante per l’animo sensibile di Jim, torturato dagli interrogativi altrui e dai suoi propri. Perché nonostante ogni aspettativa, il Patna rimane a galla. Viene rimorchiata da una nave francese nel porto di Aden, in condizioni tali che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Gli stessi ufficiali francesi erano pronti a tagliare i cavi che avvinghiavano il Patna, qualora l’imbarcazione fosse in procinto di affondare. Il capitano si darà alla fuga e anche a Jim gli venne prospettata tale possibilità. Ma Jim non se la sente. Mentre sente con chiarezza la colpa. La colpa di aver saltato, di aver infranto molto di più di un semplice dovere professionale. Il salto è la proiezione di Jim in un mondo in cui il suo errore l’ha condotto alla violazione della più solida e fondamentale legge morale che unisce tutti gli uomini a sé stessi, che costituisce il loro fondamento interiore. Jim aveva saltato oltre la sua stessa coscienza, aveva violato la sua aspettativa, quel che credeva profondamente non avrebbe mai fatto, quel che credeva non avrebbe mai mancato. Il salto lo condusse irrimediabilmente a cancellare la sua stessa fiducia, quella primordiale sensazione di appartenenza al mondo, di cui è possibile far parte solo se ci sentiamo parte di esso per una ragione prettamente morale, che è quella di avere un nostro posto e mantenerlo, costi quel che costi. Tutti abbiamo un limite, un baluardo dal quale, una volta scalzati, ci sentiremmo sperduti, privi di speranze. Gli uomini privi di questo ultimo bastione contro i mali della vita diventano simili a raminghi scalzi, incapaci di difendersi, timorosi e restii ad accettare la vita, continuamente fuggiaschi e codardi:
E’ straordinario che si possa attraversare la vita con gli occhi semichiusi, le orecchie intorpidite e la mente letargica. Forse è meglio così; ed è possibile che sia proprio questa ottusità a rendere la vita così sopportabile e così gradita ad una maggioranza incalcolabile. Tra noi possono però esserci alcuni che non hanno mai conosciuto uno di quei rari attimi di risveglio in cui vediamo, udiamo e comprendiamo tante cose – ogni cosa – in un lampo – prima di ripiombare in una piacevole sonnolenza.[5]
Jim era andato oltre, e doveva ritrovarsi.
Dopo il processo Jim è condannato ad una vita senza pace. Egli non l’aveva più in sé stesso, traditosi sino all’impossibilità di avere a che fare con qualcuno che avesse anche solo avuto notizia della tragedia del Patna, tragedia, ben inteso, solo sul piano delle intenzioni dell’equipaggio, perché, di fatto, la nave non era affondata. Ma proprio in questa mancata tragedia sta tutta la condizione estrema e drammatica della situazione di Jim, due volte colpevole: di fronte a se stesso di codardia, di fronte all’umanità, di mancata ragione. Nessun aiuto poteva arrivargli dall’esterno in grado di salvarlo dal suo salto. Egli si era ritrovato in una di quelle spiacevoli situazioni in cui la propria coscienza morale interiore non può trovare pace che dalle sue stesse capacità di reazione, di ricostruzione individuale. Ogni aiuto esterno è inutile quanto frustrante perché si vede solo la vacuità di un intervento tardivo, ormai fuori luogo e buono sul piano delle intenzioni, ma tanto più inefficace e, per ciò, ancora più frustrante.
Jim ha l’opportunità di rifarsi una vita nel posto più sperduto della terra, a Patusan, un paese nel quale riesce a conquistarsi la fiducia degli indigeni. Compie grandi gesta, riesce laddove nessun altro avrebbe potuto. Conquista il cuore di una giovane donna che l’ama pazzamente. Eppure il suo destino è segnato perché ormai Jim aveva già compiuto quel salto oltre il quale nessun uomo può sperare di tornare.
“L’uomo è stupefacente, ma non è un capolavoro” disse, tenendo gli occhi fissi sulla vetrinetta. “Forse l’artista era un po’ matto. Eh? Lei cosa ne pensa? Mi sembra a volte che l’uomo sia venuto qui dove non lo volevano, dove non c’è posto per lui; altrimenti perché desidererebbe invadere tutto quanto? Perché dovrebbe correre qua e là facendo tanto baccano, parlando delle stelle, disturbando i fili d’erba?”[6]
Lord Jim è uno dei grandi capolavori di Joseph Conrad. In questo romanzo compare uno dei grandi temi del genio polacco: il senso di tradimento. Come anche in Nostromo il tema del tradimento, come forma di violazione di un’aspettativa primordiale, come forma di base della propria fiducia, ma anche come elemento propriamente morale, di violazione del dovere; il tema del tradimento, dunque, costituisce uno degli elementi centrali del libro. Se in Nostromo Conrad riflette approfonditamente sulla storia lasciandoci una certa visione della sua filosofia della storia (per questo si veda: http://www.scuolafilosofica.com/119/nostromo-conrad-j) in Lord Jim l’elemento del tradimento è vissuto e mostrato in modo molto più intimo e intimista, scavando dall’esterno l’interiorità di un grande protagonista, grande per le sue qualità e per la sua volontà, eppure condannato ad errare, nel suo duplice senso, di vagare e sbagliare. La condizione di Jim è quella dell’occidentale stesso, colui che ha ormai acquisito una certa visione morale che non gli consente di agire puramente in nome dell’azione e di un’utilità puramente virile, dell’affermazione della forza, ma richiede necessariamente che i suoi atti siano moralmente buoni. Ma, e questo è un punto importante, la vita sembra inclemente: non è possibile essere irreprensibili, non è possibile essere infallibili. E quando la fallibilità si scontra con la propria primordiale aspettativa, con la propria visione morale di se stessi ecco che si incorre nel tradimento. Così, Jim, personaggio inquieto e irriducibile, è un romantico (come viene detto esplicitamente da Stein, uno dei personaggi del romanzo) nel senso di colui che è condannato a cercare il suo ideale senza mai trovarlo. Ma a differenza della narrativa romantica, lo smarrimento è offerto dalla visione morale stessa, non da un desiderio irraggiungibile. Nel caso di Jim, il desiderio è legittimo, fattibile se non fosse per la sua irreprensibile coscienza morale che lo inchioda continuamente di fronte alla sua fallibilità, al suo tentennamento di fronte al Dovere.
Jim assurge a simbolo dell’uomo alla continua fuga e ricerca di se stesso, incapace di trovare un posto nel mondo proprio perché incapace di vivere serenamente ogni parte di sé, prima di tutti in sé e con sé. E questo lo condanna ad una forma sottile di infelicità perpetua. Jim non può fuggire perché nessuno può fuggire dal proprio passato, in particolare dal quale sentiamo di aver “perduto” qualcosa. Con “perduto” qui intendiamo un senso molto profondo, per così dire, primordiale della parola: di qualcosa che c’era e che è svanito, che si è dissolto, contro i nostri desideri, contro la nostra stessa lotta, contro la nostra stessa volontà. Jim aveva perduto non solo l’innocenza, ma la sua stessa fiducia. La sua perdita consisteva proprio nella sua impalpabile concretezza, quell’astratto durissimo e indistruttibile che costituisce la base del nostro Io interiore. L’irreversibilità della perdita costituisce uno dei bagagli dell’uomo veramente maturo, la cui maturazione si fonda proprio su ciò che egli non possiede più del proprio passato e ciò nonostante è riuscito a far a meno. La perdita di un caro o di un amore possono essere degli esempi di realtà umane che costituiscono qualcosa di costitutivamente importante ma che, se cessati, diventano ancora più importanti per contrasto: superare la propria devastazione è la base per riuscire a domare il passato in modo tale che esso diventi solo la terra in cui siamo passati, e non quella dalla quale non riusciamo in alcun modo ad oltrepassare. Così Jim era avvinto dalla sua perdita, da ciò che non avrebbe mai più riacquistato perché del tutto impossibile da riottenere. Egli non riuscirà mai a maturare, a trasformarsi in un essere più compiuto in base alla sua propria esperienza interiore. Rimane, invece, schiavo del suo destino passato che, ormai, non gli consente più alcuno scampo.
Jim, dunque, personalità condannata dal suo salto morale e dalla sua perdita nelle certezze, assurge a simbolo stesso dell’occidente postromantico, sulla strada della via che condurrà ad una più complessa visione del mondo. L’Occidente dovrà riconoscere i suoi errori di fronte all’umanità e non potrà continuare ad agire con la stessa coscienza pulita come in passato. Non per nulla Conrad è uno dei testimoni più attenti di questo fenomeno, sin da quando si reca nel Congo belga e osserva in prima persona i drammi della colonizzazione. Ma lui non era un semplice occidentale di passaggio, era la coscienza stessa dell’Occidente che, dopo la filosofia morale moderna, non poteva più categorizzare sé come “buona” e il resto come “cattiva” solo perché i “selvaggi” non avevano precedentemente attinto alla parola di Dio. La coscienza occidentale aveva trovato una nuova fonte di autorità morale: la ragione o il sentimento connaturati dentro ciascuno di noi, che non conosce colore della pelle e pregiudizio razziale. E così l’Occidente scoprirà quanto il suo benessere e la sua foga è stata pagata sulle spalle di terzi, e la conseguenza di questo stato confusionario, della perdita dell’innocenza, contemporaneamente alla caduta delle certezze del progresso idealista e della religiosità, è la condizione di perpetua fuga da una realtà che si trova difficile da accettare. Non stupisce, dunque, che Jim sia così simile, in fondo, a tutti quei ragazzi che oggi invadono le strade dell’Europa senza una meta, senza un perché, che si scambiano così tante parole perché hanno il terribile presentimento che, se tacessero anche solo un istante, ogni loro significato verrebbe a cadere e, così, la loro vita. E’ così fragile la vita di un uomo perduto, errante che si fonda sempre sul tacito compromesso di non guardare mai in faccia proprio ciò da chi si fugge. Così come Jim, che piuttosto che considerare con occhio razionale il proprio passato, per superarlo una volta per tutte, attraversarlo fino a che non si trova la porta del presente e del futuro, si lascia fuorviare per continuare a vagare senza meta, fino a che gli eventi drammatici non lo condanneranno ad una forma assai peculiare di redenzione.
Lord Jim è la narrazione di un uomo, Marlow, su di un altro uomo Jim. Questo espediente narrativo è fondamentale per comprendere a fondo la prospettiva del romanzo. Se in definitiva di Jim non abbiamo mai la sua coscienza in prima persona, essa viene mostrata attraverso i suoi atti e quello che molti altri dicono di lui. Questo espediente è esattamente quello che fu usato da Orson Welles in Citizen Kane (Quarto Potere) che lascia intendere che sia impossibile rispondere in maniera definitiva alla domanda: “Chi era Jim?” perché nessuno potrà mai concludere niente di definitivo di un uomo. Ma la metanarrativa di Conrad offre anche la possibilità di mostrare più lati della vicenda di Jim e, allo stesso tempo, riesce a mobilitare il punto di vista dello spettatore anche nello spazio metanarrativo, laddove le metanarrazioni avvengono continuamente in luoghi diversi da quelli dove si svolgono i fatti (come quando l’ufficiale francese racconta di quando avevano rimorchiato il Patna, o come quando il pirata racconta sul letto di morte la parte finale della storia di Jim).
Lord Jim è parte dei grandi libri della narrativa dell’Occidente e che costituiscono uno dei fondamenti della razionalizzazione della sua coscienza collettiva, se ne esisterà mai una. Ignorarlo sarebbe un errore imperdonabile per tutti coloro che fanno parte di quella parte del mondo che ha avuto l’arroganza di voler cambiare tutto il resto, senza porsi troppe domande e, nel momento in cui queste domande siano diventate ineludibili, si rifiutino. Lord Jim ci offre l’opportunità di riflettere sulla nostra condizione, così da non cadere a nostra volta nell’errore del protagonista. Un errore grave, un errore della nostra stessa civiltà.
CONRAD JOSEPH
LORD JIM
MONDADORI
PAGINE: 367.
EURO: 6,80.
[1]Conrad J., (1900), Lord Jim, Mondadori, Milano, p. 294.
[2] Ivi., Cit., p. 22.
[3] Ivi., Cit., p. 10.
[4] Ivi., Cit., p. 85.
[5] Ivi., Cit., p. 124.
[6] Ivi., Cit., p. 177.
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