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Consigliamo l’immortale Zanna bianca
Immaginiamoci di trovarci in una magione, una grandissima fattoria agli inizi del novecento negli Stati Uniti orientali e immaginiamoci un giovane cane, un sanbernardo, che fa la vita del cane-pastore ricco e borghese, con tutti i vizi e lussi che sono propri alla borghesia. Buck, così si chiama il cane, vive felice, ma lui stesso, nelle considerazioni del suo inconscio, capisce che quella non è la sua vera identità: capisce che i suoi antenati erano avvezzi a ben altre faccende. Sente dentro di sé il selvaggio. Rapito, il cane viene venduto a dei corrieri del nord che trainano con le possenti e pesanti slitte, la posta dalle città principali, fino ai villaggi e alle città in cui sorgono gli apparati minerari dediti alla ricerca dell’oro: quelli sono gli anni della cosiddetta corsa all’oro, unico e inimitabile oro giallo, di cui gli uomini assetati di ricchezze vanno alla ricerca con un’intrepidità degna di Napoleone nella campagna di Russia. A volte fallimentari, altre volte di gran successo. Buck viene addestrato per essere un buon cane da slitta e si distingue da subito, seppur con un piccolo periodo di disorientamento. D’altronde le sue abitudini precedenti e il clima erano ben diverse; scopre il “rovente di freddo” con temperature fino ai quarantacinque gradi sotto zero. Verrà fuori la sua indole da leader di un gruppo di cani, fino a diventare una leggenda nella lande del nord: un cane orgoglioso, forte, che si affeziona al suo padrone fino ad amarlo e che intraprende un processo di empatia che, fra gli stessi essere umani è difficile trovare.
Il richiamo della foresta è un titolo tradotto impropriamente: l’originale The call of the wild trasmette sensazioni che, in questo romanzo, il primo della bibliografia di London, sono importantissime. Infatti, la storia è un crescendo di sapori, odori e avventure, che cambieranno il modo di pensare e agire di una “bestia selvaggia” nel cuore inizialmente, poi anche nel fisico e nell’essere. Da qui Il richiamo della foresta, o meglio, “la chiamata al selvaggio”.
Uno dei messaggi di London nel suo primo romanzo è proprio quello di tentare di razionalizzazione il rapporto fra uomo e “bestia”, su cui doveva aver riflettuto approfonditamente. In certi capitoli, sembrerebbe proprio che anche i cani, nel loro cuore, sono capaci di provare sentimenti importanti, non solo con gli uomini, ma anche fra loro stessi e questo solamente attraverso un linguaggio comune non verbale con cui comprendersi.
Il cane, inoltre, secondo un interpretazione molto libera, potrebbe rappresentare l’uomo: l’uomo che in quel periodo sta perdendo totalmente la familiarità col suo passato legame con la terra, ma che ormai vive in città densamente popolate, con aspetti nuovi con cui l’uomo recalcitra ad adattarsi, dando vita al disagio sociale e al bisogno di evadere spesso dalla realtà. L’uomo, dentro sé, ha un istinto, un senso selvaggio e primordiale, dell’apprezzamento dell’ambiente e delle sue capacità. London, uomo non certo a sua agio in quella società borghese di fine ottocento, nei suoi romanzi rappresenta questa distanza dell’uomo dalle sue origini.
L’altro importante messaggio di London è un profondo senso di animalismo ante litteram: gli animali sono essere intelligenti e il loro sfruttamento indecente con metodi raccapriccianti a suon di frusta e di cinghiate, non porta mai ad un effettivo guadagno di prestazione. Può darsi che sul momento il cane malmenato andrà più veloce, ma a lungo andare porterà quelle ferite fino all’ammutinamento quando il vero animale estrinseca tutta la sua forza, quello spirito selvaggio che presente in ogni essere addomesticato ma mai realmente sopito. Buck ne è un esempio calzante. Un protagonista di una meravigliosa favola.
Detto tutto ciò, i letterati hanno spesso relegato Il richiamo della foresta al ruolo di romanzo per ragazzi e, tutt’oggi viene così presentato dall’Einaudi. A giudicare dall’importanza dei temi e dalla soluzione narrativa adottata da London, ci sembra a dir poco offensivo definire “letteratura per ragazzi” un libro che parla senza morbosità, tipica di certe opere mediocri contemporanee, dell’istinto primordiale umano (e non solo) di ritorno irresistibile alla pura e semplice animalità da uno stato di artificiosa socialità presunta. Il tema è profondo e si radica in quella letteratura fine-ottocentesca che si richiama al mito del buon selvaggio di Rosseau. Esempi sono L’ultimo dei moicani, di Cooper o Il libro della giungla di Kipling ma anche, in un certo senso, Moby Dick di Mellville: letteratura per ragazzi? In Il richiamo della foresta, l’aspetto istintivo primordiale riecheggia fino all’estremo, ma non è più, come nel filosofo francese, un motivo di qualità superiore. Semmai, il selvaggio viene mostrato come origine pura di ogni sovrastruttura culturale e London reclama questa primordialità della natura sulla cultura. Segnaliamo tutto ciò perché bisogna scavare all’interno del romanzo senza limitarsi alla superficie e condannare tutti coloro che si ergono a giudici sommi della letteratura con i parametri uniformi della “cultura alta”, definita a priori ma incapace di tener conto della produzione culturale autentica, come è questo caso.
London agli esordi in una sorta di romanzo polemica e d’inchiesta sfoggia un linguaggio semplice, che non si troverà nei suoi romanzi della “maturità” (anche se muore troppo giovane per definirla pienamente tale). Un linguaggio esplicito e spedito, che conduce sino ad un mondo di ululati e cacce alle alci o a combattimenti fra lupi-cani e cani, entrando “in to the wild” e lasciando il lettore incantato.
LONDON JACK
IL RICHIAMO DELLA FORESTA E ALTRI RACCONTI DEL KLONDIKE
MASSARI EDITORE
PAGINE 255
EURO 11,00
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