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Che i greci avessero una fantasia a tratti aggressiva è testimoniato dal fatto che furono insuperabili nel concepire la tragedia. Tra i pezzi cult del genere è annoverabile un’opera della vecchiaia del drammaturgo Euripide, le Baccanti. La tesi e morale del testo di Euripide, voluta o non voluta dallo stesso poeta, è circoscritta e chiara: è giusto credere agli dei della tradizione ed osservare il culto normale, ed è sbagliato non farlo. La tragedia consiste nel castigo inflitto ad una famiglia (o, meglio, ad una città) che non volle riconoscere la divinità del dio. Dioniso, Bacco, Ditirambo o Bromio è il dio in questione: egli, giunto al termine di un percorso di evangelizzazione/conquista dell’Asia occidentale finisce nella Tebe greca, città che vuole sottomettere al proprio culto, ma qui viene ostacolato dall’ostinazione del governatore, Penteo.
La tesi di Euripide, alla luce delle vicende narrate nel testo teatrale, potrebbe essere riformulata in questi termini: credi agli dei della tradizione poiché ti conviene, vedi infatti ciò a cui va incontro il miscredente. Per la truce fantasia del greco le conseguenze del mancato riconoscimento del dio da parte di Penteo, l’eroe della miscredenza, ricadono, oltre che su di lui, Penteo, anche su due generazioni indietro e infine su tutta la città di Tebe. Le conseguenze dell’incredulità sono dunque spalmate su tre livelli:
(1) Penteo è brutalmente dilaniato, in un’orribile scena di genere splatter. E’ tale la brutalità narrata per cui al confronto le peggiori pellicole di Rodriguez figurano come fanciulleschi e sereni ritratti di violenza. Il corpo del sovrano di Tebe, ancora vivo, è strappato in tanti pezzi da braccia e mani di ragazze follemente eccitate, dalle pupille roteanti e stravolte e dalle bocche schiumanti bava. I pezzi sono dispersi dalla violenza dell’atto tutt’intorno nel bosco (tale che «ricerca non facile»), la testa è divelta dal collo e conficcata sulla punta del tirso (il bastone sacro delle baccanti). Brandelli di carne, sangue e urla strazianti ed eccitate compongono la macabra scena descritta con iper-realismo fantastico da Euripide.
(2) Agave, la madre di Penteo, resa folle e cieca all’identità del figlio, come del resto le altre baccanti tebane, accompagnata dalle veloci cagne di Lissa, è colei la quale inizia la strage, stacca la testa al poveretto e la brandisce orgogliosa nella falsa credenza di aver catturato e fatto a pezzi una feroce fiera per il solo mezzo delle sue manine di donna. Rinsavita e divenuta gradualmente consapevole del terribile omicidio commesso, è pertanto condannata alla tristezza e ai sensi di colpa propri di un figlicida.
(3) Cadmo, padre di Agave, dunque nonno di Penseo, è costretto all’infelicità perenne, dal momento che pende su di lui una divina condanna all’esilio, e ad assumere, insieme alla moglie, la forma di serpente, oltreché a combattere, conquistare e distruggere insieme a tribù barbare l’amata terra patria, e infine ad essere tormentato anche nell’aldilà, senza alcuna fine. L’intera città di Tebe è in questo modo condannata alla distruzione per irsuta mano barbara.
Questo è quanto può succedere all’incredulo. Volendo esprimerci sinteticamente, l’annientamento totale. La dimostrazione portata dal dio a favore della propria divinità è delle più incisive: il castigo della morte, dell’infelicità e dell’esilio, inflitti a piacere e con serenità, di modo che la sconfitta dell’incredulo sia totale e nemmeno evitabile. Le contorte punizioni inflitte ai mal credenti sembrano eccedere la giusta misura anche secondo lo stesso Euripide, il quale trova eccessivo uccidere, esiliare, e dannare in eterno la stoltezza umana che non sopporta ancora di circondarsi delle grida di evoè. Dioniso dimostra d’essere divino proprio perché punisce – tanto più è grande la punizione tanto più è grande il potere del dio e il dio stesso.
Il figlio di Zeus (natogli dalla coscia) non desidera convincere con miracoli taumaturgici (come invece sembra aver fatto il figlio di Dio nei vangeli, perlomeno nei confronti della massa la quale si dimostra incapace di comprendere la parola nella sua forma pregna di senso sacro, ovvero nella forma della parabola), ma con la forza, l’imposizione della disfatta al nemico, la distruzione e la rovina dell’inconvinto, l’immagine di sangue e disperazione totale. Il Dioniso d’Euripide è un dio da tragedia, fornace folle scatenata di pretesti tragici. Per difendere la verità del racconto che descrive sua madre Semele amante del potente Zeus, la cui divinità non è in discussione, e lui stesso come frutto del loro romantico e gotico amore, è pronto a spargere sangue e disperazione su tutto e tutti; difendere l’autenticità del racconto è difendere la propria divinità.
Bromio non è dio che poiché assume forma umana (entrando nella città di Tebe Bromio assume sembianze umane) diviene rinunciatario o benevolo alla maniera delle vecchiette filantrope, piuttosto è dio-uomo che mantiene il proprio disprezzo nei confronti delle libere scelte dell’uomo, soprattutto quelle che impediscono il riconoscimento della sua divinità in Terra e la diffusione del suo culto tra i popoli. Un dio castigatore e interessato alla propria fortuna terrena. Non è divinità titubante, non è ambiguo negli intenti e nelle parole, piuttosto parla con chiarezza e agisce con fermezza. Bromio appare dunque un candidato eccellente per entrare nel pantheon delle divinità da uomo primitivo. Egli è in grado di punire chi erra, e soprattutto di farlo fermamente e senz’altro. Non essendo dio estraneo agli accadimenti umani, ma piuttosto dio dal radicato interessamento alla terra, è perfettamente in grado di dirigere verso il buon fine anche le anime più deboli o corrotte, poiché ogni uomo è sensibile alla minaccia di severe punizioni. Ebbene, in questo quadro, come si risolve il caso dell’uomo corrotto non motivato al bene perché miscredente dell’esistenza divina del dio? Si risolve, potenzialmente, narrandogli la storia, dal contenuto altamente emotivo, dell’uomo che non voleva credere nel dio della tradizione e che per questo fu dal dio punito con una morte atroce.
Il Bromio delle Baccanti è dio in grado di relazionarsi con efficienza proprio all’uomo del tempo di Euripide. L’età del poeta è caratterizzata dal predominio degli affari e dell’interesse personale, dall’egoismo e dall’individualismo trasversale ad ogni classe sociale, dalla dissoluzione morale della nazione causata dalle lotte interne tra le città, in sostanza dalla disgregazione della società accompagnata da quella dell’individuo. Alla fede nella tradizione e nello Stato, nel culto e nel diritto, si accosta e a tratti oppone, presso la maggioranza della popolazione, l’istanza individuale illuministica del libero pensiero e libero conseguimento del bene personale. Stato e religione si scontrano con questa emergente ma diffusa libertà di parola e pensiero individualistica. Il Bacco d’Euripide si inserisce in questa falda determinata dallo scontrarsi delle opposte istanze. Da una parte esso rappresenta la novità e allo stesso tempo la tradizione non riconosciuta a cui uniformarsi e al cui culto prestare servizio e fede, dall’altra il dio che, nel perseguire i propri scopi, fa leva proprio sull’interesse personale tanto caro al pensiero individualistico ed egoistico. Stando sul crinale dell’opposizione propria del tempo d’Euripide, il Dioniso della tragedia delle Baccanti non può essere un dio d’amore, pena la perdita della sua efficienza nel mondo dei vivi, e deve essere un dio che minaccia direttamente l’interesse materiale dell’individuo.
Dioniso però, nel contesto del racconto di Euripide, è anche degradato dall’operazione di modernizzazione su di lui compiuta da parte del poeta. Euripide modernizza gradualmente le figure del mito, le toglie dalla sfera dell’astratto e del separato rispetto alla terra, per immergerle nella profana realtà dell’uomo greco. In questo modo nasce la stretta relazione reciproca tra uomo e dio, l’interessamento da parte del dio verso le contingenze dell’uomo, il lavoro affaristico e minuto d’esso sulla terra. Bromio non è pertanto figura alta e distante tra i Superi, piuttosto degradata e non esitante a rotolare nel fango per raggiungere piccoli e terreni obbiettivi. L’annientamento da parte del poeta della dignità della figura del dio, il quale viene descritto come operante con interesse nell’intreccio tragico, desta, per altro, vene di comicità involontaria all’interno del dramma. Serietà e frivolezza si mescolano proprio come fanno la componente terrena e quella celeste.
La questione di quale sia l’opinione di Euripide sul dio, sui culti della tradizione, sul giusto rapporto dell’uomo nei confronti di questi, e su altri problemi per così dire normativo-etici, è semplicemente inutile. Euripide è un poeta, e in quanto tale è interessato principalmente, se non esclusivamente, al pretesto lirico fornitogli dalla descrizione delle sfrenatezze dionisiache, pretesto sufficiente a giustificare la stesura della tragedia. A tale pretesto lirico non è affatto necessario aggiungere presunti intenti didascalici, filosofici o programmatici in favore di una certa visione, intenti per altro difficilmente attribuibili ad un poeta multiforme e filosoficamente confuso quale notoriamente è stato Euripide. La tesi per cui è utile all’uomo credere piuttosto che non credere emerge dalla narrazione dei fatti, ma in definitiva non è una tesi di Euripide, piuttosto il prodotto secondario e accidentale dei fatti narrati, scelti per il loro carattere tragico, lirico e intrinsecamente poetico.
Riferimenti bibliografici
W. JAEGER, Paideia, la formazione dell’uomo greco, Bompiani, Milano, 2003 pp. 565-603.
EURIPIDE, Baccanti, in IL TEATRO GRECO, Tragedie, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 1161-1199.
Nella prima parte del testo il nome Penteo è stato più volte scambiato con Perseo.
Grazie molte per la segnalazione. Ora si parla di Penteo, come è giusto.
Francesco